L’EPOCA DELLA
STAGNAZIONE SPIRITUALE
Tiziano Salari Fuori di sesto Neos, Rivoli, 2012
Storicamente, l’immediatezza
sensibile della lirica dell’epoca classica della filosofia tedesca fa sì che in
essa l’oggetto sia immediatamente prensile, sia a disposizione del lettore in
quanto riconosciuto. Nell’età classica della lirica («Agli dei di Hölderlin e al cielo stellato di
Kant»), in Hölderlin e in
Leopardi, c’è ancora corrispondenza tra
soggetto e oggetto, c’è una esperienza che richiede di essere tradotta in
poesia, e la forma-poesia assume una configurazione riflessa e conclusa in se
stessa tra un soggetto in posizione desiderante e un oggetto in stato
desiderato.
Oggi, le cose della lirica nell’età
post-lirica, stanno in modo ben diverso. L’epoca
della stagnazione spirituale si preannuncia senza squilli di tromba o clangori
di ottone: non c’è più una corrispondenza tra il soggetto e l’oggetto, non c’è
più una esperienza significativa, non c’è più alcuna riconoscibilità tra il
lettore e l’esperienza significativa descritta nella poesia. Il lettore è
abbandonato a se stesso tamquam
l’autore. In un poeta come Wallace Stevens questo processo è già molto visibile:
la poesia si avvia a diventare quel clicchete clacchete di cui parlava il poeta
statunitense, la poesia resta senza alcun destinatario. Così, anche nei suoi
momenti di maggiore gaiezza, come nella poesia di Stevens, la poesia
attecchisce al «lutto» di una perdita. Così è nella poesia di Salari, colpita
anch’essa dalla melancholia del «lutto».
Per semplificare, direi che una
conseguenza di questa situazione ontologica è che la percezione (e la
percettibilità) è oggi «degradata» per via della paradossalità della lirica
nell’età della post-lirica dell’epoca mediatica. La percezione diventa una
questione che riguarda gli entomologi più che i poeti, gli addetti alla moda
più che gli addetti alle cose culturali, gli addetti ai sondaggi di marketing
più che gli addetti alla poesia. Così come la politica diventa un marketing
anche la forma-poesia diventa marketing. Ma ciò sia detto senza alcuna
presuntuosa iattanza rivendicativa o riappropriativa. Sia detto e basta. Una
tesi di Adorno ci può illuminare: secondo il filosofo tedesco più è
preponderante la pressione della «società» sul poeta tanto più grande sarà precaria
la situazione della lirica. Ma già oggi la situazione appare cambiata rispetto
all’epoca nella quale viveva Adorno: oggi sulla poesia non grava più alcuna
pressione; il coperchio è stato tolto, e la poesia è stata così lasciata libera
di bollire e sbollire nel proprio brodo. Non c’è più alcuna pressione, così la poesia è diventata libera, libera di
essere una pratica di massa, diffusa, onnilaterale. E quindi inesistente. Si
può dire, parafrasando quanto è stato detto da altri prima e meglio di me, che la
lirica può sopravvivere soltanto restando sulla cresta d’onda della crisi alla quale non può non sottostare
e dalla quale non può allontanarsi, non può prendere il largo pena il suo
mutismo. È questa la modalità di esistenza della lirica al tempo del Moderno:
che essa nasca e cresca dalla negazione del mercato, come si dice, globale, o
all’opposto, che essa nasca e cresca dalla sua accettazione, non passiva ma
attiva. È questa, credo, la posizione di un poeta come Tiziano Salari, l’aver
puntato lo sguardo all’indietro per guardare meglio in avanti. È questo il
carattere «postumo» della sua poesia.
Tiziano Salari è un poeta che
dimostra di aver meditato profondamente sulla crisi della lirica nel «tempo»
del Moderno adempiuto. Ecco alcuni versi sulla questione del «tempo»:
La questione del tempo mi ha da
sempre frastornato.
Sia che contassi gl’istanti
innumerevoli
Che occorrono per compiere un minuto
Sia ogni volta, al quindici di
aprile
Invecchiato di un altro anno
M’interrogassi sulla fuga dei giorni
E da che cosa ero stato derubato
(…)
L’angoscia di essere sospinto dal
tempo
In avanti (o indietro) verso un
punto
Oltre il quale subentra solo il
nulla.
Se l’essere assolutamente moderni è
l’imperativo categorico del poeta all’alba della modernità, l’essere assolutamente
«indietro» rispetto alla velocità di scorrimento del «tempo» rappresenta
l’esigenza prioritaria per un poeta dell’età post-lirica; tanto più questo
«viaggio» che il poeta dell’età post-lirica intraprende è un viaggio che non
può svolgersi né nell’oltretomba né nell’empireo tra le schiere dei beati
angeli, quanto più è un «viaggio» alle frontiere del «nulla» del nichilismo; il
poeta si accorge che il suo «viaggio» è analogo a quello di una zattera di
naufraghi in balia delle onde del mare, un abbandonarsi alla aleatorietà del
«tempo» senza l’ausilio di bussole per l’orientamento o di rotte prestabilite,
senz’altro aiuto che la forza dei remi azionati dalle proprie braccia.
Il nichilismo, come lo definì
Nietzsche, è questo «rotolare dal centro verso un punto X della periferia»; il
suo moto è tangenziale a quello del sarcofago del Moderno. È questa
l’esperienza fondamentale della poesia di un Tiziano Salari, questo rotolare
dell’«io» verso una continua perdita, una perenne spendita verso il «nulla»,
«un continuo saccheggio» dell’autenticità e del disautentico, questo continuo
(in perdita) interrogarsi sull’inutilità di chiedersi le ragioni del senso
degli avvenimenti, da quelli storici a quelli più naturali, semplici, ordinari,
ma sempre enigmatici, in quanto «fuori di sesto»:
Deserto giorno di filamentosi
scrosci
Di pioggia scura e avvolgenti
Onde verdi di lago che cerchiano
l’orizzonte
Nella pace malata dei paesi
lacustri.
Tutto dorme nel pomeriggio buio,
anche
L’impiegato di banca e il portiere dell’hotel,
e le macchine non fanno rumore sullo
stradone.
Solo si sente battere la pioggia
Contro le vetrate
Della Madonna di Campagna.
Ho cercato rifugio nell’ombra
Sobria, romanica, tra gli
ippocastani,
E qua, solo, ricordo
Che Dio non è mai stato per me altro
Dal fumo dell’incenso di una vuota
Trascendenza. E nient’altro che
sonno.
*
Ricordo quando il cupo rovescio del
mondo
Di colpo si spalancava alle mie
spalle
E soffocavo l’urlo di terrore
Guardando le ondate che si
frangevano
Contro i fradici moli dove
attraccavano
I battelli oscillanti sulle acqua
profumate
Di vento. Ero giovane, allora, e
l’angoscia
Si mescolava al pane nella gola in
un groppo
Unico e sordo alle ragioni
Del divenire eracliteo. L’attimo,
solo l’attimo
Da carnefice mi braccava
E nell’attimo il precipizio
dell’oblio.
*
Non guarirò certo dal male
Assillante che mi pervase
Con un nitore assoluto, devastante
Del brutto anatroccolo
Che annaspava nell’acqua
A pochi metri dalla spiaggia
A contendersi le briciole di pane
Sbriciolate da una vecchia sadica
In un marasma di volatili.
*
Un filo di sole che attraversa la
stanza
Berlinese, dalle pareti nere e dalle
luci rosse
Nel bagno rivolto a una specchiera
nell’atrio.
Non sapevamo che era un albergo per
gay
E che dal letto potevo guardarti
nuda
Sotto la doccia e dal bagno io
osservarti
Nuda tra le lenzuola immacolate, e
il corridoio
Una sorta di labirinto nero pieno di
specchi
In cui ci vedevamo avanzare come due
estranei
E poi rendendoci conto che eravamo
noi due
E che dalle pareti grandi foto in
bianco e nero
Di maschi a petto nudo e con
occhiali scuri e pose leziose
Ricordavano continuamente, dicevi,
gli ultimi secoli
Dell’impero romano, i cinesi, e come
la storia cambia
A pensare che i nazisti li avevano
accomunati agli zingari
E agli ebrei e che nelle vicinanze
un museo
Documentava il loro olocausto… Come
sono mutati
I tedeschi dal tempo in cui hanno
messo a ferro e fuoco
L’Europa… un popolo edonista ma pur
sempre ordinato
Sono oggi i tedeschi… E a sera nei
ristorantini
Lungo la Sprea mangiatori di fuoco e
strimpellatori
Rock, mescolati ai turisti, “Ich bin
berlinisch”
Dissi, alzando il boccale di una
cattiva birra
Agli dei di Hölderlin e al cielo stellato di Kant
Nel divenire noi postumi di tutto il
bene e il male
Della Storia.
*
Pioggia, lontane pianure trasformate
in pantani.
Il cerchio ampio di vite che hanno
l’orizzonte come margine estremo.
E carri e carri che vanno, ma non
sanno dove e perché.
Uno scroscio più forte, la
situazione ideale per immergermi in un silenzio interiore.
Staccarmi dalle cose (non solo
esteriori, come un tavolo, finestre, quattro pareti), ma anche dal mio corpo, il
dolore reumatico nel collo e nella mano sinistra, le gambe accavallate sotto il
tavolo, per uscire, ma per andare dove (quei carri non hanno meta, segnano
l’orizzonte di solchi profondi, sotto la sferza obliqua della pioggia).
Andare, il viaggio nella steppa
sconfinata, nel deserto, sulle acque dell’oceano.
Poi ci voltiamo, il nulla. Dal nulla
andiamo verso il nulla.
Rintoccano le campane, le corde
all’interno dei grigi campanili di tutta Europa.
Un suono metallico, profondo,
evocativo dei secoli passati.
Duemila anni di cristianesimo,
duemila anni di cupa sofferenza, duemila anni di rintocchi.
Selve di candele accese, di boschi
in fiamme, di perdite.
E i mattini di luce vagante di
collina in collina gravavano come una colpa sui fuggitivi dal nulla, che vanno
verso il nulla.
Le voci delle Madri salgono da ogni
cunicolo luminoso dove vengono accolte le vittime del naufragio.
*
Il giorno in cui morì mio padre
Ero ancora un fanciullo e non capivo
L’irreversibilità di quell’istante
E quel trambusto in casa,
l’andirivieni
Di parenti ed estranei, e quel
ronzio
Di campane nelle vie del paese
Oscillanti nella scialba luce
Di un marzo irrepetibile in cui
stringevo la mano
Di mio fratello ancora più ignaro
Di me, di essere orfano...
4 commenti:
Ennio Abate:
Riconosco che la poesia di Salari sia colpita dalla melancholia del «lutto», magli ricorderei che ogni lutto non comporta necessariamente autenticità. Può indurre anche un certo ambiguo appagamento (secondario), il rischio dell’estetizzazione e forse un po’ di falsa coscienza a causa della rinuncia (implicita o esplicita) a un’interrogazione intellettuale tenace e oppositiva *malgrado tutto*. (Cosa, ad es., che sento in Leopardi, ma molto meno in Salari).
Detto questo, aggiungo che Giorgio Linguaglossa, nel presentare questa raccolta di poesia, stabilisce correttamente una distanza dell’oggi rispetto a un passato che pure sembra tanto somigliante:
«Adorno ci può illuminare: secondo il filosofo tedesco più è preponderante la pressione della «società» sul poeta tanto più grande sarà precaria la situazione della lirica. Ma già oggi la situazione appare cambiata rispetto all’epoca nella quale viveva Adorno: oggi sulla poesia non grava più alcuna pressione; il coperchio è stato tolto, e la poesia è stata così lasciata libera di bollire e sbollire nel proprio brodo. Non c’è più alcuna pressione, così la poesia è diventata libera, libera di essere una pratica di massa, diffusa, onnilaterale».
Non condivido però le sue conclusioni:
«la lirica può sopravvivere soltanto restando sulla cresta d’onda della crisi alla quale non può non sottostare e dalla quale non può allontanarsi, non può prendere il largo pena il suo mutismo». Non le condivido perché mi pare che, dando dignità etica a un io ambivalente, si ratifichi e si stabilizzi questa sua ambivalenza. Potrei dire lo si "incoraggia" nel suo lutto.
Né mi sento di accogliere questa sorta di nuovo, prioritario imperativo categorico del poeta d’oggi (non più moderno, ma post-lirico) espresso in queste sue parole: «l’essere assolutamente «indietro» rispetto alla velocità di scorrimento del «tempo».
Linguaglossa scrive pure:
«il poeta si accorge che il suo «viaggio» è analogo a quello di una zattera di naufraghi in balia delle onde del mare, un abbandonarsi alla aleatorietà del «tempo» senza l’ausilio di bussole per l’orientamento o di rotte prestabilite, senz’altro aiuto che la forza dei remi azionati dalle proprie braccia».
Io trovo che questa analogia tra poeti lirici e naufraghi sia esasperata. E che quell’ «essere assolutamente “indietro” rispetto alla velocità di scorrimento del “tempo”», rischi di diventare acquietamento. Almeno se non si chiarisce (ma si vuole chiarirlo?) che quell'essere indietro (= non perdere la memoria del passato, della tradizione) è una consapevole resistenza in attesa di una possibile (mai certa o garantita) nuova sfida; insomma un *reculer pour mieux sauter* (indietreggiare per saltare meglio).
D’accordo: oggi i poeti non hanno più addosso la pressione della società e il (sempre metaforico) coperchio è stato tolto.Eppure, invece che «sbollire nel proprio brodo» (e i brodi possono essere sciapi, come quelli di tanti poetanti; o saporiti e solenni, come quelli di Salari), non è detto che ci si debba aggirare sempre e solo «alle frontiere del «nulla», del nichilismo».
Fossimo pure nell'epoca del più completo nichilismo.
Se tutto congiura a mandarci «fuori di sesto», se «non c’è più una corrispondenza tra il soggetto e l’oggetto, non c’è più una esperienza significativa, non c’è più alcuna riconoscibilità tra il lettore e l’esperienza significativa descritta nella poesia», a me pare che resti comunque la decisione (fosse solo il pensiero!)di non cedere (la ginestra leopardiana!). E poi una qualche differenza non trascurabile esiste anche tra i lirici o i post-lirici d'oggi: una lirica che « nasca e cresca dalla negazione del mercato, come si dice, globale» non è la stessa cosa di quella che il mercato (capitalistico, aggiungo di mio) l'accetta come un dato di natura.
E infine e senza volontà di banalizzare: ma perché bisognerebbe insistere solo a far poesia lirica?
mi spiego meglio. Innanzitutto un distinguo: tra la "pressione del reale" e la "pressione della società"; la prima è una situazione immanente, ineliminabile, la seconda è una condizione storica, e quindi variabile. La poesia (o meglio, la costruzione poetica) è sempre una risposta al "reale", ma v'è differenza tra una risposta in avanti e una risposta indietro, una risposta problematica e una aproblematica; per es. io considero la poesia che Francesca Diano ha pubblicato su questo blog una delle più intelligenti risposte alla pressione del "reale", e una delle più complesse che abbia letto in questi ultimi dieci anni. La Diano procede in modo molto semplice: costruisce un "altro" reale. Si badi: non ritorna al mito come hanno fatto in modo aproblematico i mitomodernisti ma riafferra, riprende il "reale mitico" per reinterpretarlo alla luce di una interpretazione che ne rovescia letteralmente il significato, e si sa che ogni significato è stabilito dalla "società", cioè da una convenzione, un patto, un concordato. Ogni significato è stabilito dalla comunità politica. E la Diano lo sovverte e lo delegittima. È una operazione di strordinaria intelligenza secondo me. ma torniamo alla poesia lirica. Molto semplicemente ritengo che la poesia lirica sia un genere del passato, la poesia contemporanea si sta dirigendo verso quella "cosa" che io ho chiamato la post-poesia, che è però tutta ancora da costruire. È una operazione culturale che bisogna fare, e gli inizi, si sa, sono tutti in salita, ma è una strada che la poesia contemporanea deve imboccare. Ritengo sia una strada obbligata. Certo, la via è lastricata di buche e di bucce di banane, e poi c'è la resistenza passiva dei gusti già costituiti, gli interessi di scritture già accreditate, le prosopopee delle istituzioni, etc.
Mi hanno molto colpita tanto le poesie di Solari, quanto il testo di Linguaglossa. E in particolare due punti: la centralità della "crisi" e la questione del tempo.
Crisi necessaria alla poesia - ma all'arte nella sua totalità - perché il senso di questo termine è quello di segnare appunto quella tensione, quella collisione instabile che è l'evento poetico, o artistico, senza la quale tensione - tra l'assoluto immobile della forma e l'assoluto eternamente mobile dell'evento - non si dà arte. E' qui, in questo istante così instabile e che pure continuamente si rinnova, che avviene quell'identificazione tra soggetto e oggetto. Mi piace, per riprendere un argomento che qui è stato dibattuto, pensare al "punto critico" in fisica, quell'istante in cui una materia liquida cambia il proprio stato per le variazioni di temperatura e pressione.
La questione del tempo poi è davvero enorme. Il tempo, si sa, non è un assoluto e la sua percezione non è solo soggettiva, ma epocale. La velocizzazione del tempo che oggi segna la nostra modernità, è un Crono che divora i suoi figli ad una velocità sconvolgente. Se la poesia vuole trovare una via d'uscita, non può che gabbare il mostro saltando agilmente a piè pari sulla sua testa e ridisegnando una realtà che è stata sottratta, persa nelle viscere di un'indistinta masticazione.
Naufraga la poesia forse è stata sempre. Davanti le si apre sempre un temibile àpeiron perièchon. Non so se esista una strada obbligata o se la natura dei poeti sia tale da poter stare all'interno di confini ben tracciati. Posso solo dire la strada che io ho trovata per me ed è quella di ri-trovare il passato (non "tornare" al passato) ripercorrendo la strada all'indietro e di ascoltarlo. In quel momento, il mio essere qui e ora, in quel qui e in quell'ora, mi fa percepire proprio quella tensione, quel "punto critico" che li sovverte e li trasforma.
Non posso poi che dire ancora una volta grazie a Giorgio Linguaglossa per quello che scrive della mia poesia. Davvero grazie, perché rende meno solitario il mio percorso. Proprio perché ha letto, ed è stato tra i pochi a farlo, se non l'unico, quello che è il senso del mio lavoro: un sovvertimento. Non una reinterpretazione. Eppure quel sovvertimento, o rovesciamento, non è un tradimento di quel "reale", ma è come se io vedessi all'interno della forma cristallizzata del mito (o del passato), sotto le stratificazioni, qualcosa che chiede di essere detto con una sua voce diversa da quella che si conosce. Non lo dico per posa, ché sarebbe stupido, ma perché a volte mi pare di "essere lì", non saprei come esprimerlo in altro modo.
Sono storie di poesia, di quando la vita ti da da raccontare ciò che non si potrebbe raccontare se non attraverso la poesia e solo in quel momento. Complimenti Emilia.
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