Pubblico questo “contrappunto” (punctus contra punctum, nota contro nota): brani tratti dal libro Dalla lirica al discorso poetico di Giorgio Linguaglossa e stralci di saggi del suo giovane e antagonista interlocutore, Ivan Pozzoni.* L’emarginazione della poesia, il venir meno della polis («la polis che non c'è», di cui abbiamo parlato qui, qui e qui), il tentativo di reagire al postmoderno con un «inventario accurato di esistenze frammentate», la “catalogazione dell’esistente”: questi i temi sfiorati. Problemi: cosa rivela questo rispondere frammento contro frammento al libro di Linguaglossa, che si vuole «Storia della poesia italiana (1945- 2010)» (ne ho parlato qui)? cosa dice del “presente dei giovani” questo stile comunicativo che a me pare sfuggire il dialogo e l'argomentazione distesa? e la tendenza di Pozzoni a nobilitare l’emarginazione della poesia contemporanea con il ricorso a riferimenti classico-mitici? Parliamone. [E.A.]
Caro Giorgio,
tu scrivi:
1] «Il tardo moderno consiste in
questo: oggi il concetto di avanguardia, cioè di coloro che stanno in posizione
avanzata e che “guardano avanti”, è intimamente connesso e, in una certa
misura, dipendente dal concetto metastorico di Progresso […] Nell’epoca attuale
sono in “posizione avanzata” i linguaggi dello spot e i linguaggi della
comunicazione mediatica; oggi, una “posizione di punta” non può che
svolgersi in una posizione di “apparente retroguardia» (Dalla lirica
al discorso poetico, 281/282 con richiamo a Poiesis 13/1997).
«Perché Retroguardie?
L’esaltazione del testo-documento, senza nome e senza mercato, rafforzata da
relazioni di solidarietà tra editore, curatori ed autori, è estremo antidoto
contro i veleni del Post-modernismo e della «morte della cultura» registrati
dall’oscillazione schizofrenica moderna tra narcisismi e massificazione. Più
che Achille sulla strada d’Ilio (thumos) o Odisseo vittorioso sulla
strada del ritorno a casa (logos) ci sentiamo, e interpretiamo
l’esperienza poetica attuale, nei panni d’un anonimo Senofonte («emetto suoni
stranieri»), sconfitti, in marcia coi diecimila sulla strada dell’Ellade,
decisi a resistere contro assalti e imboscate, dopo Cunassa; la nostra sorte -
menestrelli combattenti del terzo millennio - è resistere, vinti, in ritirata
verso casa. E si sa che valore acquisisca, in ritirata, una buona retroguardia»
[I. Pozzoni (a cura di), Retroguardie. Antologia Poetica, Villasanta,
Limina Mentis Editrice, 2009];
3] «Quando, sul finire degli anni
Novanta, è diventata manifesta e visibile la crisi di un’intera cultura poetica
e non, la generazione di coloro che sono nati all’incirca dopo quella degli
anni Cinquanta si è venuta a trovare […] marginalizzata […]» (Dalla
lirica al discorso poetico, 373)
«Tutti tranne te!
racconta, attraverso una serie di testi-documento metrici, la centralità
strutturale, nel Post-moderno, dei meccanismi sociali di esclusione /
marginalizzazione, idonei ad assicurare, nella vita intricata delle odierne
società occidentali, metodi efficaci di smaltimento dei rifiuti tossici umani.
Questa iniziativa realizza un inventario accurato di esistenze frammentate,
volti deformi, menti disfatte, senza trascurare di mettere a bilancio, tra i
risultati, differenze, distruzioni e rotture» [I. Pozzoni (a cura di), Tutti
tranne te! Antologia Poetica, Villasanta, Limina Mentis Editrice, 2010];
4] «Ed è chiaro che, in queste
condizioni di esistenza, il discorso poetico della generazione degli anni
Novanta-Dieci sopravviva a se stesso come un cadavere sopravvive a quello che
un tempo era un corpo vivo e vegeto, sopravviva come un oggetto funerario in un
cimitero, come una reliquia in un reliquiario» (Dalla lirica al discorso
poetico, 304)
5] «[…] Dopo Andy Warhol sappiamo
che viviamo in un mondo di immagini serializzate e che la serializzazione è il
motore segreto dell’immagine […]» (Dalla lirica al discorso poetico,
285)
Attualmente sto concretizzando
un’idea di antologia seriale in progress che desidero chiamare Labyrinthi.
Per una lirica democratica che Limina mentis mi ha autorizzato. Si
tratta di un’antologia, in serie di volumi (come i miei Voci dall’Ottocento e
Voci dal Novecento), aperte ad artisti di tutt’Italia, noti e meno noti, d’ogni
orientamento poetico (importante che abbiano un orientamento), intesa come
dialogo poetante costante in comunità di artisti, con testi non firmati
(l’identità dei testi sarà svelata in ogni biografia finale di ciascun artista
che collabori al volume). Daremo un colpo al cerchio della rifondazione di
un’idea di comunità democratica d’artisti e un colpo alla botte
dell’anti-narcisismo: e dentro la botte, avremo la moglie ubriaca del favorire
un dialegesthai inter-generazionale inter-territoriale e
inter-gruppuscolare tra voci esordienti, emergenti e consolidate.
La «generazione invisibile» non
cessa di interrogarsi sui (pseudo)-fondamenti dell’arte.
Cari saluti
Ivan Pozzoni
*Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni, si occupa di filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento e collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2010 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri e Galata morente con Liminamentis, Lame da rasoi, con Joker. Tra 2009 e 2010 ha curato le antologie poetiche Retroguardie (Liminamentis), Demokratika, (Liminamentis) e Tutti tranne te! (Liminamentis); È direttore culturale della Liminamentis Editore; è direttore della rivista L’arrivista - Quaderni democratici. In un’azienda della D. O. è logistico.
85 commenti:
Mi chiedo, al di la dei contenuti interessanti del post, se oggi, considerando la crisi strutturale in atto, in Italia si possa riconoscere una critica militante.
La domanda, molto profonda, è filosofica e tocca i fondamenti stessi dell'intera esistenza: se, da ogni dove, ci arrivano dichiarazioni di morte dell'etica (dentro e dopo Auschwitz), di morte della storia, di morte dello stato, di morte dell'economia, di morte dell'arte, a cosa serve la tecnica farmaceutica (phàrmakon, nel senso etimologico ambiguo di medicina/veleno) del critico (militante)? Probabilmente, non sarebbe più opportuna, davanti al letto di morte dell'arte, la perizia storiografica, e autoptica, dell'anatomopatologo?
trascrivo qui una riflessione di Giuseppe Pedota (contenuta in un libro uscito postumo in questi giorni per le edizioni CFR di Gianmario Lucini dal titolo «Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea»). Per chi non lo sapesse Pedota è stato un pittore, poeta e critico anticonformista con il quale ho avuto il privilegio di fare un pezzo di strada insieme nella redazione del quadrimestrale di letteratura «Poiesis» dal 1993 al 2005. Ecco le parole di Pedota:
«E il critico? Qual è il ruolo e la funzione del critico nella situazione attuale? Nelle attuali condizioni dell’assetto editoriale il critico non ha più alcuna funzione. Se il critico quale mediatore tra il pubblico e l’autore non ha più ragion d’essere, tantomeno ne ha nel ruolo di distruttore-costruttore di cultura critica. Il critico non legato agli uffici stampa degli editori più influenti né ai maggiori giornali è, oggi, di fatto, un ircocervo; munito di un corno solo questi tenterà lo speronamento della baleniera bianca della cultura del museo immaginario. Di fatto, il critico è oggi un controsenso, una controfigura del museo irreale della cultura del conformismo, un don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Un intellettuale monodico e monadico, senza alcuna «verità» da indagare, un commissario che perlustra lo scenario del crimine (senza delitto) alla ricerca di tracce (di che cosa? di chi?), alla ricerca di un cadavere (che non c’è), che parla un suo dialetto idiomatico, incomunicabile e intrasmissibile. Il critico autentico è oggi (al pari del poeta) rimasto senza interlocutore. Non può neanche mettere un messaggio nella bottiglia e sperare nel futuro. Può solo formulare ipotesi sulla scena del crimine, senza raggiungere mai il conforto della valutazione estetica. Può solo circondare le parole con un rotolo di filo spinato ed attaccarci la spina della corrente elettrica della propria intelligenza critica. Può solo compiere un atto di disperata resistenza critica.
Possiamo utilizzare per la poesia contemporanea la categoria Dopo il Moderno? Possiamo dire che la poesia moderna, nei suoi esiti più intelligenti e rappresentativi, è diventata un discorso sull’attualità dell’anacronismo? Che i testi della poesia moderna sono dei defunti, anacronismi compiuti? ...».
Per il vero, nella mia trascurabilissima attività di critico della poesia contemporanea, proprio per il fatto della mia libertà di giudizio, e per via della libertà intellettuale che mi sono preso, sono considerato un po' come un "ircocervo", come un esemplare da tenere a distanza di sicurezza in quanto inaffidabile e inattendibile. Ecco, la stragrande maggioranza degli autori contemporanei non gradisce affatto una riflessione critica libera e indipendente dalle fratrie e da vincoli amicali, gradisce soltanto l'apprezzamento e l'approvazione incondizionati, anche se smaccatamente e vistosamente di parte, e, in quanto tale del tutto priva di valore "critico".
Se poi guardiamo alle recensioni che si pubblicano nelle riviste e nei blog di poesia, c'è da mettersi le mani nei capelli: siamo di fronte ad un ceto di ierofanti che officiano una privatissima liturgia per pochi intimi e affiliati.
Se si guarda alle prefazioni, siamo addirittura al ridicolo: è tutto un coro di lodi sperticate e incondizionate.
Dato questo contesto, si comprende come lo scrivente sia visto come una specie di incrocio tra un unicorno e un ircocervo...
La vecchia radice che mina la "critica militante" è da sempre la generale tendenza a confondere la critica di quel che si è scritto - in un dato momento, con gli strumenti del mestiere, ma anche con la mano dell'ora e con la vita che ci passa addosso - col giudizio sul talento personale. Cosa che al massimo può esserci a ragion veduta una volta morti. Si può essere talentuosi e scrivere delle cioffeche, o anche viceversa. Talvolta accade e se accade è il caso di pensare non a una critica militante ma a una critica gentilmente puntuale e occorre avere la pazienza di considerare la critica il frutto del presente e non una sentenza eterna. A parole certo che è facile... Le riviste non sono che la legge di mercato estesa alle idee e alla letteratura. Si è mai visto un "Sapone così così", o un'automobile "Un po' scassona ma carina"? No. Tutti capolavori. Ma è pubblicità gente e le idee finiscono al mercato come le merci. Poi però come ci sono le merci migliori restano le poesie migliori anche se la loro pubblicità vorrebbe che si somigliassero tutte. Prenderla con più serenità aiuterebbe. Credo.
L'infelicità di questi interventi mi sta entrando nelle budella, e quindi nella scrittura. Per non tirare in ballo la depressione mi limiterei a parlare di disagio, ma come per la depressione conta che lo si riconosca. Non ci possono essere facili scorciatoie, il prezzo sarebbe quello di sprofondare. Prendiamo atto del disagio, parliamone, viviamolo, entriamoci coscienti di ciò che stiamo per fare. A me sembra l'unica onesta soluzione. D'altronde poeti e critici sono in buona compagnia, di questi tempi il fenomeno è diffuso. Non c'è separatezza, il disagio è ovunque evidente. E' questione di armonia e partecipazione con il presente dell'intero genere umano, solo si avrebbe il dovere di saperlo e di valutarne la portata che va ben oltre le nostre amate carte. Ci fosse una soluzione la si vedrebbe, ma ancora non c'è. Constatarlo sarebbe la fase prima della cura. Poi arriverà che scriverà la nuova umana commedia, ci sentiremo tutti più sollevati e potremo finalmente cliccare sul logout di questo secolo andato.
mayoor
Ennio Abate:
«il disagio è ovunque evidente… Ci fosse una soluzione la si vedrebbe, ma ancora non c'è.» (Mayoor)
Condivido in pieno queste sagge parole di Lucio Mayoor. Ci tengono coi piedi per terra, cioè agli irrisolti problemi da “situazione epigonica”, per dirla con Giorgio Linguaglossa. Allo stesso tempo non scantonerei davanti alla domanda di Massimo Caccia: dove la vedete in giro una critica militante? (Non per caso nel titolo del post ho messo le virgolette. In più, siccome ho la buona (?) abitudine di controllare come trattano temi simili altri siti - “vicini di banco”, “concorrenti” o “colleghi”- v’inviterei a dare un’occhiata alla discussione in corso in questo post di LE PAROLE E LE COSE: http://www.leparoleelecose.it/?p=4564 ).
Ora, per affrontare la domanda di Caccia, non mi allargherei come fa Ivan Pozzoni. Né andrei a controllare la tenuta dei «fondamenti stessi dell'intera esistenza» (operazione encomiabile, se si potesse studiare per decenni la faccenda, ma deleteria se siamo costretti a confrontarci sullo spazio traballante di una zattera-blog). E neppure mi affiderei all’occhio clinico di un anatomopatologo ( ce l’avete voi?). Circoscriviamo il paesaggio da indagare. Teniamoci, come fa Giorgio Linguaglossa, citando Pedota, alla «situazione attuale» e al critico-ircocervo, un po’ antiquato, stralunato, balbettante e con pochi (e spesso distratti da altro) interlocutori. Facendo attenzione - aggiungerei di mio - anche a non enfatizzare l’inevitabile “donchisciottismo” che oggi marchia qualsiasi attività critica e a non avvolgersi troppo spesso in metafore consolatorie e tragiciste («circondare le parole con un rotolo di filo spinato ed attaccarci la spina della corrente elettrica della propria intelligenza critica. Può solo compiere un atto di disperata resistenza critica »). È vero moltissimi autori non gradiscono essere criticati da critici-ircocervi. Da ciò dovrebbe trarsi però una sola lezione: che i critici-ircocervi si uniscano e facciano al meglio questo lavoro di “supplenza” di una critica degna di tale nome, che preparino il terreno perché possa sorgere.
A ‘faustpatrone’, che come alcuni intervenuti nel post di LE PAROLE E LE COSE, mi pare accetti il MERCATO come paradigma di tutto e anche della poesia, equiparando merci migliori e poesie migliori, direi che il punto d’onore dei critici-ircocervi sarebbe proprio quello di rimettere in discussione l’opinione che le riviste (letterarie, di poesia penso voglia intendere) siano « la legge di mercato estesa alle idee e alla letteratura». Se esse si sono ridotte a pubblicità e l’unico compito dei critici, come avevano sostenuto, sempre su LE PAROLE E LE COSE, alcuni sarebbe quello di contrastare i libri-merce di consumo e di massa facendo la pubblicità a libri-merce “alternativi” o “d’avanguardia” (si citava l’ultimo libro di Frasca magari organizzando una mini-lobby di critici (Dedalus-Pordenonelegge), mi pare che il discorso resti in partenza asfittico e ingabbiato.
Quel libro, curato da Giorgio, l'ho editato io, ma non per questo sottoscrivo, in gran parte, gli argomenti di Pedota. Compito dell'editore è, credo, diffondere le idee, e Pedota è uno che presenta argomenti seri e lo fa partendo da una vasta cognizione e con argomentazioni – pur discutibili -quindi è giusto che abbia spazio. Quanto alla condivisione di quanto dice, è affare del lettore e non dell'editore e neppure del critico. A mio modo di vedere, quando un libro non è sciocco e mostra l’impegno di chi l’ha scritto, va diffuso, perché pone dei problemi e comunque impegna le nostre intelligenze nel rispondervi.
Ma è appunto del critico che vorrei parlare. Per assurdo, se io dovessi dare ragione alle posizioni di Pedota, potrei chiudere baracca domattina, perché non saprei cosa editare, mi mancherebbe la materia prima: ossia i libri di poesia - che a suo avviso sono, al 95%, tutta foffa. Dunque, per coerenza con quanto ho scritto sopra, dovrei non più editare se non quei tre o quattro libri all’anno che, superati determinati vagli (tutti da decidere) possa avere un “placet” di non si sa chi.
Non sono d'accordo su questa presa di posizione (ma, ovviamente non è, a mio avviso, da prendere tutto alla lettera quello che egli scrive: Pedota vuole provocare e la provocazione ha un suo fondamento e un suo ruolo importante, ma quando passa al giudizio, allora a mio parere sbaglia, perché si lascia trascinare da un aspetto particolare della realtà, rilevato e giudicato secondo il suo beck-ground culturale e la sua sensibilità, e ne fa un presupposto espistemologico quasi assoluto – un po’ come Pannella, il politico e non il mio bravissimo amico Giuseppe – che trancia giudizi e crea categorie e criteri di giudizio, cogliendo deduzioni da premesse che lui stesso decide siano la verità e non semplicemente una sua opinione. Continuando ad agire con questo metodo, infatti, il discorsi diventa acritico, ideologico, basato su premesse che entrano come dati indiscutibili e che invece bisognerebbe discutere.
Per esempio, Pedota a mio avviso esonda dove si lamenta che le prefazioni sono una specie di laudario dell'autore e da questo (e altro) deduce che la critica non esiste più: e che cosa si aspetta? che la prefazione sia una stroncatura? Pre-facere significa introdurre, dire qualcosa prima, ed è ovvio che non significhi dire qualcosa contro, così come non significa, come taluni fanno, fare la parafrasi del testo o, peggio, esprimere lodi sperticate o assolute.
Ma, tornando alla critica, egli sostiene che non esiste più. Io credo invece che di critica ne esiste sin troppa e, piuttosto, che non esista più la critica così come egli la intendeva, ossia la critica associata a un personale giudizio di valore che si fa passare per goiudizio “obiettivo”. E io credo anche che quel tipo di critica, è bene che sia scomparso perché il compito del critico NON è quello di giudicare, ma di mettere in evidenza, di distinguere (ossia far risaltare) alcuni elementi separandoli dal contesto, così come dice la stessa etimologia della parola. L'operazione del giudizio, invece, SPETTA AL LETTORE, non al critico. Io posso, da critico, essere inorridito da un certo stile, da un certo linguaggio, da un certo modo di scrivere, ma non è mica pacifico che il lettore lo sia. La mia ragione è puramente "dal mio punto di vista" e non posso pretendere che diventi una ragione universale e assoluta, ma neppure condivisa, perché il sentimento dell'arte è personale e non esiste un'estetica assoluta. A me non piace l'arte di Andy Warrol, ma la maggioranza dei critici (constato) considera questo pittore una specie di profeta dei tempi moderni. Non comprerò mai un suo quadro, perché non ho abbastanza soldi, ma se qualcuno me ne regala uno, lo ringrazio di cuore, perché corro subito a venderlo: non saprei cosa farmene. Se dico "a me non piace", va bene, ma non potrei dire Andy Warrol NON è un artista, anche se avessi mille argomentazioni per dimostrare che la sua arte è foffa o paccottiglia.
(Continua)
La stessa cosa vale per l'inverso, ossia la dichiarazione positiva anziché negativa. Vorrei infatti capire perché ho ragione quando affermo, a suon di argomentazioni, che Andy Warrol è un grande artista e torto quando affermo, con altrettante argomentazioni, che la mia amica Elena Morelli, insegnante di disegno in una Scuola Media di Sondrio, è una delle più brave artiste viventi.
Chi decide quando dico bene e quando dico male? Ovviamente il lettore stesso, in piena autonomia, perché le mia argomentazioni a favore o contro Andy Warrol o Elena Morelli, sono criteri di verità personali, non criteri assoluti di verità. Probabilmente il 90% dei lettori dirà che scrivo puttanate ma NESSUNO PUO’ DIMOSTRARLO in modo assoluto. Dunque è un'illusione e, a mio modo di vedere, una mancanza di professionalità, quella di dare dei giudizi sulle opere di poesia, anche su quelle classiche, anche su quelle indiscutibili, come la Comedia di Dante o l'Iliade di Omero. Posso dire soltanto "mi piace" o "non mi piace", esattamente come fa il prefatore di un libro, che generalmente si dichiara d’accordo con le scelte dell’autore. Perché infatti dare contro a un libro mediocre? Abbiamo paura che quel libro faccia deviare la letteratura? Abbiamo paura che quell’autore porti tutti gli altri “sulla cattiva strada”? Un bravo critico, quando ignora un autore mediocre, è più esplicito di mille stroncature. L'importanza di quello che dico è, invece, NON nel giudizio, ma in quello che la mia critica lascia intendere e che nel testo può non risaltare, ossia nella capacità di mettere in rilievo, con argomentazioni, quello che la mia sensibilità estetica riesce a vedere e intuire fra le mille possibilità offerte dalla polisemia del testo. Se poi le argomentazioni sono fiacche, le deduzioni stiracchiate e poco convincenti e la visione appannata da un grappino di troppo, allora ne risponderò io, al lettore, non l'autore.
L’unica cosa da evitare è, invece, la malafede, ossia scrivere per mestiere, senza un sentimento, un qualcosa che si chiama “cuore” o empatia o altro. Tornando all’esempio della prefazione: è a mio avviso non corretto che io, da critico, scriva la prefazione (che abbiamo detto essere una presentazione positiva) di un’opera che per me stesso giudico mediocre e non degna di pubblicazione, senza nessun elemento che sia degno di rilievo e che, in qualche modo, giustifichi l’esibizione del narciso del poeta (tutti abbiamo un narciso, per fortuna, ma purtroppo non lo sappiamo gestire: questo è il guaio del narcisismo, che in sé non è un disvalore). Il lettore infatti, leggendo il libro, trova di quello che scrivo soltanto una labile traccia, poco convincente. Certo, non può rinfacciarmi di averlo ingannato, almeno parzialmente, ma solo perché non ne ha le prove (e solo per questo). Tuttavia, dentro di sé, si fa un giudizio (ecco il “critico” con giudizio, chi è!) e col cavolo che mi darà credito una seconda volta.
Piuttosto: la critica vecchio stile non esiste più, per un fatto molto semplice: perché non esiste più una koiné comune e le opinioni delle persone autorevoli non sono più “autorevoli” perché la mentalità del lettore è cambiata. Il lettore di oggi se ne frega di una cultura assoluta, così come la intendevamo un tempo, ossia un bagaglio di cose da sapere a prescindere da tutto e il richiamarsi costante all’”ipse dixit” dei padri o degli zii della letteratura. Per il lettore moderno il bello, l’estetica, non coincide con la cultura ma coincide con quello che gli serve per vivere meglio. tende dunque ad avere un rapporto im-mediato con l’arte, un rapporto personale. Si serve del critico, quando lo fa, per avere una traccia, una chiave per aprire l’opera, e poi va avanti da solo, congettura da solo e deduce quello che gli pare e che gli serve, pregandosene altamente del giudizio del critico.
(Continua)
Non gli importa di sapere di più, a meno che faccia il professionista del sapere, per i molti scopi ai quali il sapere è necessario. Un lettore cosiffatto premia il critico (e con lui gli autori criticati) che mette in evidenza alcuni elementi, nel testo, che egli va cercando e che effettivamente poi trova. Dunque, se il critico metterà in rilievo elementi deboli, stiracchiati, il lettore se ne guarderà bene dall’acquistare opere recensite da quel critico. E penso che faccia bene a comportarsi in questo modo.
Abbiamo bisogno, dunque, non di una critica, ma di critici veri, che cercano una verità profonda nei testi (astenendosi dal criticarli se non la trovano), non elementi selezionati secondo una visione più o meno condivisa a livello di critica teorica o una certa bellezza che si pretende di decidere a tavolino. Il critico, infatti, viene solo dopo il poeta: non può decidere lui quale sia la poesia del futuro, solo i poeti lo decideranno, se i lettori saranno d’accordo. E probabilmente non in questa vita.
Parole sante! che mi han fatto anche ridere. Grazie.
Warhol glielo spiego io: i suoi multipli vanno letti come prove di consistenza dell'immagine che, nella società dei consumi, viene portata a mito ( temporaneo o durevole). Divi cinematografici o scatole di detersivo fa lo stesso. Naturalmente le sue valutazioni andrebbero riviste, ma è significativo che la Coca Cola potesse riempire intere pareti senza esaurire le sue potenzialità attrattive. Diversamente, ma potrei sbagliarmi perché ora non ricordo con esattezza, da un quadro con multiplo di Marlon Brando che dopo tre ripetizioni si ferma lasciando uno spazio vuoto.
Contrariamente a quanto si crede per via dei suoi comportamenti mondani, Warhol fu un artista assai impegnato socialmente. La sua indagine sul mito arrivò a toccare temi come la morte (ritrasse una foto di cronaca, un incidente stradale ) e il denaro, anche se qui forse toppò, per ragioni comprensibili. Non fu mai un grande disegnatore, non credo gli interessasse molto, nacque come illustratore pubblicitario e questa fu sempre la sua dichiarata origine, tant'è che nel confronto col giovane Basquiat ebbe la peggio.
mayoor
gentili interlocutori, mi sembra che la discussione si stia perdendo nei rivoli. Partiamo dalle prefazioni. Sì, credo che un intellettuale serio se fa una prefazione deve scriverla con onestà, cioè se il libro gli piace accetta ma se il libro non lo convince è giusto che non accetti di firmarne la prefazione. E poi c'è modo e modo di scrivere una prefazione. Non prendiamoci in giro, quasi tutte le prefazioni sono fitte ed irte di pleonastiche esagerazioni sulle virtù di quel detersivo scrittorio che è contenuto nel libro! e mi chiedo: è una cosa seria? Io credo che il prefatore debba essere misurato e ponderato nella stesura di uno scritto introduttivo. Io, per parte mia, dal tenore di una prefazione mi faccio una idea attendibile sulla quadratura intellettuale di chi l'ha scritta e sulla sua serietà e credibilità intellettuale. E poi ci sono le recensioni. Davvero, non tocchiamo questo tasto dolente!
Personalmetne ritengo il libro di Pedota acutissimo nelle sue argomentazioni quando si tratta di dimostrare la scarsa consistenza intellettuale di poeti come Umberto Piersanti e Valerio Magrelli o poeti molto sopravvalutati come Milo De Angelis. È importante, anzi, fondamentale leggere e valutare il peso dei ragionamenti pro e contro certi autori che vanno con il vento in poppa solo perché sono stati pubblicati da Editori a diffusione nazionale.
E questo è un altro punto che va chiarito. Solo se un libro viene editato da un editore X viene accolto con un coro di peana e di lodi per lo più interessate a guadagnarsi la blanda riconoscenza dello staff editoriale che ha editato il libro.
Pedota invece è stato un intellettuale libero e indipendente, e di tale sua libertà ne ha fatto una bandiera e un decalogo di comportamento cui si è attenuto per tutta la vita. Ed è un critico davvero dotato. Forse è per questo che quello che scrive dà ancora (dopo la sua scomparsa) fastidio e continuerà a darla per il futuro.
Per rispondere alla domanda di Caccia, se esista ancora una critica militante, senza «andare a controllare la tenuta dei fondamenti stessi dell'intera esistenza» si rischia di discutere su un non-senso filosofico. Siamo così certi che in un tardo-moderno in cui ogni confine (limes) tenda a sparire, disegnato sulla sabbia/acqua di una società in liquefazione (mondo/spiaggia), abbia ancora un senso discutere di critica (cernita, separazione, imposizione di confini)? Siamo certi che in un modo in cui ogni ideale, istituzione, riferimento abbia acquisito i tratti della mobilità delle elites nomadi, militàre, nel senso etimologico di «esser di sostegno», come, nel tardo-antico, ogni ufficio amministrativo dell’impero romano divenne militia, abbia ancora un senso (o, meglio, che abbia ancora un senso sostenere ciò che non esiste)? Prescindendo da discussioni pragmatiche su prefazioni, riviste, accademie, sono le stesse illusioni ottiche del tardo-moderno a mettere fuori gioco ogni significato moderno della locuzione critica militante, dato che, benchè abbiamo smesso di vivere nella modernità, continuiamo a servirci di categorie moderne di concettualizzazione. Ci resta l’arma di introdurre nuove categorie? No, servirebbe una critica. La risposta allo scacco matto della ragione subito nel tardo-moderno non è continuare a giocare con regole che cambiano più velocemente delle mosse/strategie di gioco, ma, forse, è buttare all’aria la scacchiera.
Per Giorgio. Ritengo che Pedota, o, aldilà di Pedota, la forza delle idee di Pedota, non finirà nel vento. Pedota traspone nella pragmatica della critica i tratti teoretici di un’innovativa interpretazione del ruolo del critico nel tardo-moderno (o, meglio, dell’insensatezza di mantenere viva, nel tardo-moderno, la figura del critico moderno): « Se il critico quale mediatore tra il pubblico e l’autore non ha più ragion d’essere, tantomeno ne ha nel ruolo di distruttore-costruttore di cultura critica. Il critico non legato agli uffici stampa degli editori più influenti né ai maggiori giornali è, oggi, di fatto, un ircocervo; munito di un corno solo questi tenterà lo speronamento della baleniera bianca della cultura del museo immaginario. Di fatto, il critico è oggi un controsenso, una controfigura del museo irreale della cultura del conformismo, un don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Un intellettuale monodico e monadico, senza alcuna «verità» da indagare, un commissario che perlustra lo scenario del crimine (senza delitto) alla ricerca di tracce (di che cosa? di chi?), alla ricerca di un cadavere (che non c’è), che parla un suo dialetto idiomatico, incomunicabile e intrasmissibile. Il critico autentico è oggi (al pari del poeta) rimasto senza interlocutore. Non può neanche mettere un messaggio nella bottiglia e sperare nel futuro».
Io francamente gli uffici stampa e le strategie editoriali delle "grandi" case editrici non li capisco ; ossia li capisco benissimo nelle loro politiche di promozione dei soliti noti , mentre li capisco meno , anzi non li capisco proprio quando ottusamente non se la sentono di scommettere e di "sporcarsi le mani" pubblicando il lavoro di critici fuori dal loro coro di piaggeria pallosissima e cocciutamente reazionaria ; quando potrebbero pubblicare un Linguaglossa con i suoi " Dalla lirica al discorso poetico" e "La nuova poesia modernista italiana " , testi più unici che rari per la loro temperie eslege / analitica / argomentata ecc. , capaci di rendersi interpreti di una ( annosa ) domanda di critica letteraria finalmente emancipata dalle municipali sterili effimere lallazioni partorite dai " grandi " di questo inizio secolo .
Oltretutto promuovere un critico non allineato , disorganico pure a se stesso , costituirebbe una operazione più che valida dal punto di vista commerciale - del ritorno economico - dato per scontato che il terremoto destabilizzante e sacrosantemente provocatorio posto in essere - adeguatamente sorretto dal marketing - farebbe presto a tradursi in un riscontro di vendite senza precedenti proprio per la sua unicità di deflagrazione nel deserto della stagnazione critica imbelle e irritante di cui tutti - anche i più in malafede - hanno piene le scatole .
Non sarebbe neanche un'operazione masochistica - vista la consapevolezza ( la coda di paglia ) dei "grandi "- ma pragmaticamente masochistica nel momento in cui i contenuti contestatori avverso il Potere costituito farebbero da volano ad un ascolto numericamente elevato , certo molto superiore alle poche centinaia di copie che riesce a vendere la pseudo critica che conosciamo bene .
Credo che oggi l'opera di un critico con le p. ( pardon ) in possesso di quella che era ed è l'onestà intellettuale , è assimilabile a quella del Volontariato con l'iniziale in maiuscolo ; che non è certo quello di Comunione e Liberazione e dintorni : non ha tessere o ideologia inattaccabile e mira soltanto - dialetticamente - all'" impossibile Verità" che non ha mentori o padroni .
leopoldo attolico -
non so chi sia quella persona che si auto nomina "faustpadrone",il quale equipara tutte le operazioni culturali sulla poesia al "mercato" e che afferma che tutti i libri di poesia non sono altro che merci e che è quindi il mercato che GIUDICA chi è il migliore e chi è il peggiore.
Ovviamente, la qualità intellettuale di simili affermazioni è tale da non prenderle affatto sul serio. Innanzitutto, per il semplice fatto che la poesia esula dal MERCATO, se è vero che la poesia non vende. È lampante che il MERCATO non può essere considerato il regolo universale della poesia se non vogliamo eleggere il MERCATO a unico critico militante autorizzato. Insomma,mi sembra che il blog citato da Ennio Abate mostri tutta intera l'assenza di cultura critica che lo contraddistingue. E non aggiungo altro.
Ringrazio Leopoldo Attolico per le lodi che rivolge al mio lavoro. Sì, è vero, Se Einaudi o Mondadori avessero pubblicato il mio lavoro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)" o "La Nuova Poesia Modernista Italiana", entrambi editi da EdiLet di Roma, avrebbero fatto un clamoroso autogol. Di fatto, chi decide se pubblicare un libro di critica fa passare soltanto quei libri che non recano alcun disturbo alla Istituzione. Non c'è una censura aperta ma c'è un filtro che lascia passare soltanto prodotti culturali innocui. Se fosse il MERCATO a regolare il traffico, senza dubbio i miei libri di critica venderebbero abbastanza da ripagare ampiamente l'editore e l'autore. Ma non è il profitto che sta a cuore dei vertici editoriali, ad essi interessa soltanto che i libri di critica siano culturalmente innocui, che non mettano in discussione i "valori" accreditati e gli equilibri di potere costituiti.
Cari Interlocutori, il MERCATO coincide sempre con l'Istituzione, è sempre dalla parte della conservazione. E chi fa l'elogio del MERCATO è un povero pollo sprovveduto.
Il libro di Giuseppe Pedota è un libro importante, anzi direi fondamentale, per comprendere qualcosa degli equilibri stabilizzati del conformismo della poesia italiana di questi ultimi decenni. Andrebbe letto e meditato. Ma, mi chiedo, questo sta verametne a cuore a chi fa poesia oggi in Italia?
Ennio Abate:
- a Ivan Pozzoni:
Anch’io ho riserve nell’usare oggi il termine ‘critica militante’, poiché a molti non è più chiaro cosa sia da criticare e la stessa ‘funzione critica’ appare impraticabile (e non solo in poesia o in letteratura). Né è chiaro per cosa militàre (quale obiettivo o scopo raggiungere; quale “partito prendere” o sostenere). Ma insisterei a cercare le ragioni di questa incertezza o confusione sul piano storico-politico. E respingerei ogni fuga nell’irrazionalismo. Mi chiedo, ad es., uscendo dalle tue metafore, cosa significa dire che la ragione ha subìto scacco matto e bisogna «buttare all’aria la scacchiera».
- a Leopoldo Attolico:
A me pare ingenuo pensare che le grandi (in senso economico) case editrici non pubblichino Linguaglossa o un altro degli “invisibili” e non conducano in porto «una operazione più che valida dal punto di vista commerciale - del ritorno economico» per mera ottusità.
Non illudiamoci e non consoliamoci come faceva la volpe esopiana con l’uva, per favore.
Secondo me esse sono CAPITALISTICAMENTE intelligenti e non ottuse, come tendiamo a credere noi che non vi abbiamo accesso. E calcolano e costruiscono a tavolino l’autore da lanciare, scegliendolo anche dal campo (spesso solo in apparenza) avverso. Tanto sono abilissime a opportunamente modificare (quando non è lo stesso autore che lo fa in anticipo e *sua sponte*) gli eventuali connotati inconciliabili col la logica capitalistica.
Basti vedere il caso di Saviano, presentato come uno "di sinistra" che viene accolto nella Mondadori "di destra" e berlusconiana. (In proposito ho letto proprio in questi giorni un saggio interessante di Pierluigi Pellini, Lo scrittore come intellettuale. Dall’affaire Dreyfus all’affaire Saviano, Allegoria n.63 gen/giu 2011, che chiarisce bene, tra l’altro, anche questi meccanismi di “adattamento” a quella logica ad opera dei funzionari delle case editrici e del giovane autore in questione).
A me non pare che sia questione di critici “con le p.”.
C’è un innegabile dato strutturale su cui non si può sorvolare: da tempo poesia e critica letteraria in generale - e non solo quella “non allineata” o “disorganica” - sono fuori o ai margini del mercato. E nessun santo nel “paradiso” delle grandi case editrici, anche se tirato per la giacca, potrebbe fare di più anche se lo volesse.
- a Giorgio Linguaglossa:
Preciso che è “faustpatrone” (che non so chi sia) ad aver espresso qui sopra in un suo commento quella opinione “mercantilistica” sulla poesia.
È sbagliato, in questo caso e in questa occasione prendersela, con il post (http://www.leparoleelecose.it/?p=4564 )e i commenti del blog LE PAROLE E LE COSE, che ho citato invece proprio perché stavolta vi ritrovo opinioni intelligenti e da non snobbare.
Per quanto ho detto prima rivolgendomi a Leopoldo mi pare che concordiamo: le grandi (in senso economico) case editrici non fanno autogol. E aggiungerei che, proprio perché Mercato e Istituzioni sono coincidenti o si muovono in sintonia (e quindi non esiste un Mercato autoregolantesi come dicono i liberisti), filtrano solo certi libri e lasciano a case editrici “minori” (in senso economico) gli altri.
Però in tutta sincerità non penso che il tuo libro pubblicato dalla Edilet non sia pubblicato dalla Mondadori o dalla Einaudi perché ritenuto "nocivo".
O che non ci siano altri libri dii libri di critica "che non mettano in discussione i "valori" accreditati e gli equilibri di potere costituiti". Qui chiederei un approfondimento.
Quanto al libro di Pedota, a cui avevo già dedicato un post (qui:http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/01/giuseppe-pedota-dopo-il-moderno.html), tornerò a dire la mia nei prossimi giorni.
All'IPOCRISIA SOVRANA degli incapaci che se la prendono col MERCATO.
Ma che cavolo è il mercato se non la gente disposta a metterci i suoi soldi per leggere un libro? Li dobbiamo criminalizzare? Ammettete piuttosto l'impotenza dei vostri testi a farsi leggere. E i vostri libri non hanno per caso un prezzo segnato in basso sulla quarta di copertina? A che serve, se non ad andare sul mercato?
Leonardo Terzo
Ennio Abate:
E già! I capaci sono tutti ad adorare il Dio Mercato (capitalistico) senza più fare distinzioni tra quelli che lo dominano e quelli che lo subiscono.
Ed infatti tutti i testi che arrivano sul Mercato, e soprattutto quelli messi in circolazione dalla grande editoria, sono potenti e non impotenti.
Anche i libri di un piccolo editore hanno il prezzo come i libri del grande editore, certo.
E quindi nessuna differenza tra l'uno e l'altro. E soprattutto mai mettere in discussione la MANO INVISIBILE E SAGGIA DEL MERCATO.
Il prezzo è il messaggio! si potrebbe dire parafrasando McLuhan.
La selezione giusta (santa starei per dire) la fa il Mercato.
State tranquilli e smettetela di perder tempo a parlare di critica. E non osate più criticare il Mercato (capitalistico). Ci pensa Lui che è il vero sovrano dell'ipocrisia a stabilire i giusti Valori, le giuste Gerarchie, le giuste Democrazie!
Dopo Terzo almeno un sorso di stravecchio Marx, per favore!
Ennio Abate:
Ho appena finito di scrivere a caldo il commento di sopra e trovo questo consonante su LE PAROLE E LE COSE
(http://www.leparoleelecose.it/?p=4564#comment-29815). Qualcun altro che non si genuflette al Mercato c'è ancora in giro. Copio il commento:
Dinamo Seligneri
26 aprile 2012 alle 01:38
La scuola c’entra ben poco, per come la vedo io, c’entra soprattutto in che canali ti sei ficcato.
Ho conosciuto ragazze e ragazzi con una laurea in Lettere dentro le sacche che eleggono Baricco come mentore letterario, motivando la loro preferenza con parole del tipo “mi fa emozzionare tanto”.
Il vero dramma sta nelle proposte che il sistema editoriale fa, che sono proposte di bassa lega, sia a livello letterario che giornalistico, sia a livello estetico che gnoseologico; sono offerte che consolidano ed alimentano una descrizione e una produzione assai semplicistica e fasulla della contemporaneità, della realtà, della politica, dell’arte e chi più ne ha più ne metta, visioni lontanissime dai fatti accaduti, notoriamente ignorante, e speculativa.
Non solo Mondadori, ma anche Gems e Feltrinelli possono permettersi di editare, distribuire e vendere colla stessa divisa i loro scartafacci. Ndò sta il libero mercato? Quante cose possono imporre questi gruppi in termini di cose letterarie, gusti, mode, canoni, scale valoriali, parametri di giustezza estetica, e pure soprattutto di controvalore politico?
Ci domandiamo spesso cosa ci arriva in tavola, ci dovremmo in realtà domandare anche cosa ci arriva sulla scrivania.
L’industria delle grandi narrazioni accetta solo quelle scritture che non mettono a rischio la fragilità delle loro nebbiose verità…. verità solitamente comode da sposare per i lettori che si dividono fedelisticamente in sostenitori ed antagonisti.
L’unica soluzione è dire le cose alle spalle della committenza, scrive nel sottopelle dei libri, nel sì detto sottotesto…. uno molto capace nel far questo è Bolano, oppure Montesano…. ce ne sono anche altri. bisogna arrangiarsi, d’altronde i circoli e circoletti che nei lustri passati permettevano un poco alla volta a Montale di essere riconosciuto grande poeta, a Gadda di diventare il più importante scrittore italiano del Novecento (per me è meglio Landolfi) non hanno più presso pubblico e case editrici lo stesso peso di prima, quando uno come Pasolini o come Manganelli o Calvino scrivevano libri e articoli che poi venivano guardanpò anche letti. Sciascia possiamo dire che ha scritto dei bestseller… oggi un bestseller che riscosso pure ottima critica è stato Gomorra che oltre a dir poco in termini letterari (il che è gravissimo) dice niente soprattutto in termini di elaborazione intellettuale delle cose, di etica, analisi sociale….
non parliamo poi di che arriva sulle tavole degli italian per merito di giornalisti e telegiornalisti…
insieme fanno tutta una grande gabbia di enunciati che ci contiene tutti, si può decidere di fare i furbi fischiettando e nel frattempo seminando trappole, oppure uscire uscire proprio, isolarsi e continuare a fare altri mondi, e allora, ha ragione Stan, non ci possiamo lamentare che ci tengano ai margini… già è tanto a quel punto che non ci mettano in prigione quali disertori e disfattisti ché tanto è questo quello che succede nei regimi.
In questi quadretti ci sono i cattivoni che avvelenano il popolo, i buoni oppressi e derisi, e i lettori, tutti imbecilli, senza libero arbitrio, che non sanno quello che leggono.
L.T.
Pasolini negli anni Sessanta scriveva: "l'intellettuale è dove l'industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole". Analogamente, i libri sono lì dove l'industria culturale li mette. Devo dire, a scanso di equivoci, che io non volevo affatto colpevolizzare la Einaudi o la Mondadori perché non mi hanno editato il libro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana", per il semplice fatto che non l'ho neanche sottoposto al vaglio di quegli Editori. E non l'ho fatto perché era inutile che lo facessi, perché loro hanno già disponibili degli intellettuali di Accademia pronti a svolgere quel lavoro se glielo si richiede. È un lavoro retribuito, nulla più e nulla di meno. Ma il discorso è un altro: è la grande industria culturale a non richiedere (a non aver bisogno) certi prodotti culturali (mentre invece ne ha bisogno di altri). Ed io non credo di poter avere udienza (non ho le giuste credenziali) presso quelle case editrici per il semplice fatto che né ho chiesto Udienza né tantomeno quelle Istituzioni me l'hanno mai rilasciata. È una sorta di filtro preventivo che agisce come un tappo. Esso agisce perché il meccanismo sociale lo richiede. Tutto qui. Sempre per tornare a Pasolini il quale già negli anni sessanta aveva capito tutto:
quando l'Italia sarà veramente un paese avanzato e ricco l'industria culturale produrrà la sua merce al di fuori della letteratura: così che i due diversi prodotti avranno diversi canali di distribuzione.
Lo scrittore caro all'industria culturale, non è solo lo scrittore che produce falsi bei romanzi, in cui magari si parla del Vietnam: ma è (o lo è stato fino a ieri) anche lo scrittore d'avanguardia. Anzi, i primi scrittori a essere scrittori di "potere", completamente inventati e lanciati dall'industria culturale, sono stati appunto gli scrittori d'avanguardia (il Gruppo '63, testé defunto).
Per concludere, direi che il meccanismo culturale editoriale opera così: certi autori e certe opere sono VISIBILI, mentre altri autori e altre opere sono INVISIBILI. Tutto qui. È molto semplice. Alcune opere sono nel MERCATO, mentre altre sono FUORI MERCATO.
Ora, dato questo contesto, mi chiedo E VI CHIEDO: come può operare un PENSIERO CRITICO ? Ritengo che la risposta sia semplice: il pensiero critico può operare se è conscio della propria marginalità e inutilizzabilità. tutto qui
Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:
Aggiungerei che un pensiero critico è spacciato se, a priori (saltando il problema di cos'è il Mercato capitalistico o accettandolo come una categoria immutabile e sempre esistita), non considera quanto Esso condizioni le opere e gli autori. E sia quelli che sono nel Mercato sia quelli che finiscono o devono stare fuori o ai suoi margini.
Non si scappa sia certi toni progressisti sia certi toni vittimistici hanno in questo stato di cose la radice che li alimenta. E il pensiero critico deve badarci evitando trabocchetti di vario tipo. Direi però che la coscienza della propria marginalità non sia automaticamente inutilizzabilità. Certi pensieri critici inutilizzabili ( cioè che non rendono, che non fanno soldi e successo) possono sempre diventare utilizzabili. Se si verificano certe circostanze favorevoli, che non dipendono dalla volontà dei singoli, certo...
Pensiero critico? (anzi PENSIERO CRITICO?) Non esageriamo!
L.T.
p.s. Qualcuno ha un'idea propria? O ognuno si mette al riparo di una citazione? Pasolini, Fortini, addirittura Marx (Bum!). A proposito di mercato cito anch'io, ma me stesso:
"Ma una forma di elitarismo ben più radicale e discriminatorio è presente negli studi culturali con un pregiudizio, questo sì metafisico, relativamente alla necessità che l’estetica debba sottrarsi alla circolazione e alla presenza dei suoi prodotti sul mercato, laddove ciò non è mai avvenuto, se non in età dove il mercato non esisteva, in epoche e luoghi dove l’arte era monopolio del mecenatismo e del potere appunto. Di fronte alla commercializzazione inevitabile la critica culturale auspica una resistenza impensabile, e infatti non esemplificata dagli studi culturali stessi. Non si capisce infatti chi dovrebbe mantenere gli artisti, oppure se tutti gli artisti, come per esempio sono costretti a fare i poeti per mancanza di mercato, debbano mantenersi con un primo lavoro, come persino Montale, e dedicarsi alla poesia nei ritagli di tempo. Ma anche la natura commerciale delle merci stesse vien qui fraintesa. Tutto ciò che si vende e si compra è una merce, dall’acqua minerale ai quadri del Tiepolo battuti all’asta. Ma l’acqua minerale non è meno dissetante perché viene venduta, così come la funzione estetica delle opere d’arte non viene meno se i pittori le vendono a chi vuole comprarle, sia per amore dell’arte, sia per esibizione di prestigio, sia per investimento finanziario.
Da:
http://www.leonardoterzo.it/?p=164#more-164
A Ennio :
Quello che configuravo nel mio precedente intervento è certamente quanto di più paradossale / surreale si possa fantasticare in ordine a un karakiri / autogol dei nostri grandi editori . Certo non sono ( non siamo ) così ingenui da sostenerne la fattibilità. Era e resta una ipotesi pittoresca e non si può chiamare in ballo l'ottusità dei succitati , che sanno fare altrettanti quattrini sicuri con le modalità che sappiamo . Nondimeno , probabilmente , sarebbe possibile in una società letteraria con logiche editoriali e di mercato meno provinciali e ingessate delle nostre ( penso agli USA ) , dove un Harold Bloom potrebbe eseere rimesso in discussione non tanto dalla sua casa editrice ma dalla concorrenza , anche se detentrice di coda di paglia .
E qui , sì , con un ritorno di vendite .
leopoldo attolico -
La critica militante, stando a quel poco che ho letto e che leggo anche qui, ostentando un tono rivendicativo dà al contempo la sensazione d'avere un atteggiamento conservativo, o restaurativo di qualcosa che c'è stato/non c'è mai stato/che manca.
Prendo in esempio dall'architettua: la Piramide del Louvre, il Beaubourg, sono opere che non fanno rifacimenti, ne' tentano improbabili armonie estetiche o confronti col passato. A Milano, l'ultimo esempio è The Cube, un'architettura mondana quanto si vuole, ma che s'insinua agilmente tra i vecchi e nobilissimi edifici. Nella poesia italiana sembra che ci siamo fermati all'edilizia popolare del dopoguerra, segnati per troppo tempo dall'ermetismo e da una modernità che sa di neorealismo. Oltre non si va ( il bel libro di Linguaglossa "Dalla lirica…" analizza bene questo percorso e tenta di intravedere futuri sviluppi, in via del tutto teorica, da critico militante appunto, e di conseguenza anche da poeta).
A me sembra che manchi un'innovazione del linguaggio, che sarebbe anche il pensiero che stava alla base dello sperimentalismo degli anni '60/70, ma non in quel senso. Ci stiamo abituando alle immagini in movimento, alle comunicazioni brevissime, alle spiegazioni teoretiche in nuce, alle emozioni dovute a contatti rapidi e sensoriali, intellettivamente impreviste, che scuotono nell'immediato. Cambia la velocità d'apprendimento, la velocità del pensiero. Si è formata un'anticamera mediatica dove è possibile sapere di tutto, e chi lo vuole passerà poi all'approfondimento ( se ha la fortuna di trovare i testi che gli servono). Gli slogan pubblicitari hanno preceduto gli sms, gli art-directors hanno preceduto la prassi artistica di tanti artisti concettuali. Non tutto ruota attorno all'editoria.
Questa comprensione potrebbe cambiare la figura del critico militante per trasformarlo una sorta di operatore/promotore culturale capace di accogliere, di aprirsi a influenze culturali eterogenee senza le quali si avrebbe l'esclusione sul piano comunicativo, e conseguentemente su quello mediatico. L'élite culturale oggi vuole essere popolare, è volta in questa direzione, ne ha i mezzi e non è sempre vero che manchi di cultura.
Mi sembra sia questo il processo in atto. E aggiungo che è in atto malgrado i tempi difficili e contrari dovuti alla crisi economica che imporrebbe ben altre scelte comunicative e comportamentali. Ma come ho detto è principalmente una questione di linguaggio, non di contenuti.
mayoor
Ennio Abate a Leonardo Terzo:
"Di fronte alla commercializzazione inevitabile la critica culturale auspica una resistenza impensabile" (Terzo).
Ci saranno anche posizioni del genere. Non sono però le mie. E, tra l'altro, sopra (in un precedente commento) ho ribadito in partenza i miei dubbi sula possibilità di usare seriamente in questo momento il termine 'critica militante'.
Quello che, invece, il pensiero critico (residuale o in fasce) potrebbe/dovrebbe fare ( e in parte già fa in alcuni suoi esponenti più o meno visibili) è mostrare gli effetti più che perversi di una commercializzazione che tratta le "opere dell'ingegno" esclusivamente come merce e che fa circolare soprattutto quelle che più facilmente si possono ridurre a merce o sono già pensate per passare l’esame ed essere ammesse come romanzo-merce, poesia-merce, ecc.
Se artisti e poeti seri in passato hanno preferito procacciarsi un reddito mantenendosi con un primo lavoro (insegnamento, lavoro in banca, etc.) per evitare di sperperare completamente il loro talento o la possibilità di una vera ricerca in un'attività di pura commercializzazione, ci saranno state buone ragioni. Immagino che si siano accorti che in troppi casi non era più possibile accettare neppure quel compromesso possibile nel rapporto artista-committenza in epoche precedenti e avranno pensato di dover difendere “andando a lavurà” quel quid che distingue un'opera d'arte da una qualsiasi e semplice merce.
La battuta "l’acqua minerale non è meno dissetante perché viene venduta" non fa che saltare questi problemi reali col cinismo di chi finge di non vedere come si specula su un bisogno reale non per soddisfarlo in modi razionali (o, a essere pessimisti, meno irrazionali) ma per mantenere un rapporto di potere tra bevitori e fornitori d'acqua minerale. Dalle *enclosures* a Bill Gates è tutto uno sbeffeggiare chi deve subire la frusta. È il capitalismo, bellezza! Equi Marx c’entra ancora e citarlo significa proteggere «le nostre verità» (Fortini).
Proteggere??? Credo che la verità, se è tale, si protegga da sola con la sua evidenza, non col fideismo in un'autorità superiore. E questo è significativo del modo di affrontare le questioni.
L.T.
Ennio Abate a L.T:
Infatti nel tuo modo di affrontare le questioni ogni cosa si protegge da sola. Il mercato. La verità. Tutto è EVIDENTE. Allora non si capisce perché polemizzare con chi non è d'accordo. Prima o poi anche a loro sarà tutto EVIDENTE. E questo, ovviamente, non sarebbe "fideismo"...
Concordo con chi afferma che oggi parlare di "critica militante" rasenta la blasfemia; è chiaro che qui (nel libro di Giuseppe Pedota e nei miei scritti critici) si tratta di argomentazioni e di valutazioni che mettono a fuoco che cosa è acccaduto (in poesia) negli ultimi 30 anni della poesia italiana. La tesi forte da cui parte Pedota (la medesima tesi esposta nei miei libri) è che negli anni Sessanta la poesia italiana ha imboccato la via del «riformismo moderato» inaugurata da autori come Giovanni Giudici con "La vita in versi" (1965) e Vittorio Sereni con "Gli strumenti umani", ed ha camminato per quella via accumulando un ritardo storico rispetto alle esperienze poetiche che intanto si erano fatte (e si facevano) in altri paesi. In questo blog c'è una bellissima poesia di Milosz che è l'esemplificazione di un «altro» modo di intendere la «poesia» che in Italia non ha mai attecchito. Ma c'è un perché in Italia una poesia come quella di Milosz non ha mai attecchito? È lecito porsi delle domande? È lecito chiedersi invece come è accaduto che in Italia si sia instaurato un consenso (un conformismo di facciata) su un tipo di poesia come quella di Zanzotto? E perché questo è accaduto? Come è accaduto che un poeta intraducibile e incomprensibile con il suo sperimentalismo idiolettico è stato recepito come il maggior poeta italiano?
Il libro di Pedota si pone delle domande, domande inquietanti, domande scomode, Pedota legge la poesia di Antonio Riccardi, di Maurizio Cucchi, di Mario Benedetti e si chiede: come mai il «reale» sfugge dalle mani degli esistenzialisti milanesi che vorrebbero catturarlo? C'è una spiegazione a questo fenomeno? E Pedota si pone la domanda finale: Il «reale» sfugge alla poesia italiana? E perché?
Perché la poesia di Milo De Angelis dopo il suo brillante esordio con "Somiglianze" del 1980 si è accartocciata su se stessa? E si è isterilita in giochi sintattici e in inversioni di immagini? E Pedota si chiede: perché la poesia dei minimalisti romano-milanesi è diventata una congerie di commenti a luoghi comuni e luogo comune essa stessa? E Pedota si chiede: vogliamo svoltare pagina? Vogliamo chiudere, e per sempre, il libro del minimalismo?
Domande legittime, mi sembra.
Che Pedota sia un eretico? Ma eretico di che, di quale ortodossia? E chi l'ha stabilita l'ortodossia? Io penso molto semplicemente che Pedota sia un critico che pensa il proprio oggetto, che non è mai stato interessato a far da sponda a questo o a quello, i suoi non sono «giudizi» tribunalizi, lui non è un giudice monocratico che emette sentenze, è un essere pensante che esprime valutazioni e argomentazioni.
A mio avviso, un libro come quello di Giuseppe Pedota, se fossimo in un paese serio, intendo se fossimo in un consesso di intellettuali credibili, dovrebbe essere analizzato e discusso; e invece nulla di tutto ciò. È per questo che io ritengo che in Italia gli effetti devastanti della «stagnazione economica, spirituale e stilistica» si propagano a macchia d'olio su tutti gli aspetti della vita associata. Perché? vogliamo dirlo? La poesia è una attività pubblica, che si fa in privato ma si esercita in pubblico. Ma, ovviamente, il luogo pubblico della poesia non coincide con quello del MERCATO.
Quando si cerca di far passare la propria incapacità di farsi leggere, per un merito: quello di volersi sottrarre al mercato, allora da incapaci si diventa colpevoli.
Leonardo Terzo
It is very difficult to get a man to understand something when his tribal identity depends on his not understanding it.
L.T.
Dopo aver letto sul blog i vari duelli tra critici militanti o meno, vorrei segnalare che a volte l’umiltà invece della saccenza potrebbe rendere quello che scrivono più fruibile (stavo per dire digeribile).
Visto che [un commento qui sopra] era in inglese, forse per chiudere la bocca a chi non lo sa, propongo questa meditazione pure in inglese...
I recently heard a woman say, “least but not last.” She meant to say the usual, “last but not least,” but somehow, due to a slip of the lip, or perhaps because of some mild form of dyslexia, she inverted the words in this somewhat humorous way.
And this got me thinking about humility, which people sometimes confuse with low self-esteem, thus viewing it as an inferior quality. To think of oneself as “least” is the last thing one would want to do.
Cerco di tradurre...io non sono professore di inglese:
Di recente ho sentito una donna dire: "poco importante ma non ultimo". Voleva dire il solito, "ultimo ma non meno importante ", ma in qualche modo, forse per uno svarione, o forse a causa di una lieve forma di dislessia, ha invertito le parole, in questo modo un po’ divertente.
Questo mi ha fatto pensare all'umiltà, che la gente a volte confonde con la bassa autostima, così come una visualizzazione di qualità inferiore. Pensare a se stessi come "ultimo o piccolo" è l'ultima cosa che uno vorrebbe fare.
Umiltà fino a suicidarsi nell'anonimato?
L.T.
trascrivo unmessaggio che il critico Sabino Caronia ha inviato alla mia e-mail:
Caro Giorgio
come sai, la mia opinione, o meglio la mia elementare conclusione, è che,nella nostra attuale condizione, non potendo esistere figure esemplari ,come asuo tempo ad esempio un Emilio Cecchi, cui sia demandato di esercitare stabilmente,con continuità e indipendenza di giudizio, dalle pagine di autorevoli testate giornalistiche o riviste ,un magistero critico significativo per competenza,autorevolezza e apertura intellettuale, ci si deve purtroppo accontentare di delegare all'accademismo e all'astrattismo quello che una volta era prerogativa
del gusto di "lettori innamorati", per riprendere un celebre giudizio relativo a Serra.
Benedetti gli anni '50! E magari anche i nostri tanto vituperati anni 60 !Ma bisogna essere ottimisti se è vero che quanto più buio è il cielo tanto più chiare si vedono la stelle.Un caro saluto.
Sabino Caronia
Per Ennio Abate:
La metafora della «ragione sotto scacco» si fonda su due assunti, uno a] interno, ontologico, e uno b] esterno, storico-culturale, alla nozione di «ragione».
Perdendo la sua stretta connessione all’armonia della logica classica, la «ragione» moderna, tra fuzzy logics e strapotere delle retoriche (propagande/pubblicità), è implosa: l’individuo si dibatte in un mondo dominato dall’insolubile alternativa tra fondamentalismi e relativismo, tra l’affermare che «la verità esiste» o che «la verità non esiste». Dove sta lo «scacco matto» della ragione? L’affermazione «la verità esiste» è stata messa in crisi dal falsificazionismo (origine di ogni relativismo); l’affermazione «la verità non esiste» è un non-senso logico (intuito sin da Nietzsche). L’alternativa tra un falso e un non-senso cagiona una crisi, senza via d’uscita (a).
Col tardo-moderno le transazioni economiche, viaggiando sui binari del cyberspazio, abbattono ogni tempo di reazione dei «ragionamenti», ancorati agli spazi locali dell’agorà. Il nuovo capitalismo nomade, cyberspaziale, condanna all’immobilità ogni agorà (trasformando ciò che nel moderno, cioè la solidità dell'agorà, era considerato un vantaggio, in un terribile fardello), sacrificando ogni «ragionamento» alla transazione economica. Condannata all’immobilità in un mondo che non smette di muoversi, ogni piazza, localizzata, si decentra, esce di scena, si allontana dai meccanismi di reale deliberazione che, lontani dalla consistenza dei «ragionamenti», acquisiscono la forma delle transazioni (economico). Dove sta lo «scacco matto» della ragione? Nella crisi del «ragionamento», inteso come dialegesthai costruito in agorà (b).
Per «buttare all’aria la scacchiera» occorre, ad esempio, uscire dal loop ontologico della nozione trado-moderna di verità e togliere di dosso la forma della transazione (economica) alla deliberazione politica. E molte altre cose ancora… Perciò, con la verità in loop, e in un mondo senza comunità politiche, non ha senso discutere di critica (verità) militante (ragionamento).
Caro Giorgio, io posso testimoniare come ci sia un abisso tra ora e una quarantina di anni fa in quello che era il panorama culturale italiano. La sola idea di parlare di "mercato" o di "industria editoriale" e "industria culturale", come fossero dati acquisiti e di fatto, come fossero la quotidianità ineluttabile, al di là della preveggenza di pochissimi (forse lo si faceva per l'America da cui abbiamo preso il peggio) era cosa inimmaginabile. Erano ancora attivi intellettuali veri, onesti, combattivi e avevano spazio. La loro voce si sentiva. Non so se il mio appartenere a una élite privilegiata in questo senso mi rendesse quotidiana l'idea che fosse così, mentre invece quello rimaneva comunque un mondo a sé, che non incideva sullo stato delle cose. Il fatto è, però, che oggi non esiste nemmeno più quello spazio.
La sensazione è di soffocamento. Vedo da una vita e dall'interno le politiche degli editori italiani e anche qui c'è un abisso col passato.
L'esercizio di rimpiangere il passato, se limitato a questo, è sterile e improduttivo. Dunque, che ci sia o meno spazio per quella che molti chiamano "critica militante" e io chiamo semplicemente critica (esiste una critica autentica che non sia anche militante e sovvertitrice dell'accademia e dell'establishment?)è assolutamente necessario (sì, proprio più che mai necessario) che chi ha i necessari strumenti per esercitarla non molli la presa.
Gli editori che pubblicano i Saviano, i Baricco, le Merini, le Mazzantini, i De Angelis, i Bellezza &Co non si sentiranno forse troppo minacciati, ma molto, molto infastiditi sì.
Non ovunque succede quello che sta succedendo in Italia. Per chi ci vive questo muro di cemento armato appare indistruttibile e impenetrabile e soprattutto appare la norma. Invece il nostro paese - a parte la crisi generale - è l'eccezione, almeno tra i paesi occidentali. Non va dimenticato.
In fondo si è sgretolata anche l'URRSS. L'editoria italiana campa di romanzetti comprati nelle fiere dei libri di mezzo mondo, fatti alla catena di montaggio e spacciati per grande letteratura straniera (basti l'esempio di Neri Pozza, un tempo editore all'avanguardia e che ha pubblicato i maggiori saggisti, critici e autori e ormai, dalla morte del suo fondatore molti anni fa, ridotta a traduttificio di finti bestsellers stranieri.
Anche se libri come i tuoi, o quelli di Pedota non sono pubblicati dai grandi gruppi editoriali e non si vendono nei centri commerciali e nei supermercati, tuttavia ci sono.
Io propongo una nuova dicitura: invece di critica militante, perché non chiamarla "critica della resistenza?)
Nella postmodernità, ossia in un mondo come quello descritto da Pozzoni (con il quale concordo), certo non ha più senso affidarsi alla Verità (ideologica) con la V maiuscola (anche nel campo dell'estetica, che è campo politico), quanto alle molte verità (non meno forti, anzi) con la v minuscola. Verità messe sempre in discussione, ma non per questo assiologicamente meno importanti (in modo più profondo, e da filosofo, ha detto queste cose, in Italia, Roberto Bertoldo, a partire da Nullismo e letteratura). E la critica, impegnata o meno a leggere, attraverso l'arte, il mondo (non è, semplificando al massimo, questo il senso di 'critica militante'?), non può sfuggire al suo tempo. Lo aveva capito già Pasolini, diversi decenni fa, ormai, in Petrolio (romanzo postmodernamente 'forte'). Ma proprio per questo, oggi non si può - se si vuole leggere le 'piccole verità', molto concrete, della nostra realtà - non vedere che la critica che appare nei grandi media è solo la voce dell'Accademia (ricordo, tra l'altro, che Saviano era stato indicato, tempo fa, come esempio encomiabile di nuovo intellettuale proprio dal gruppo di Allegoria...) - realtà totalmente autoreferenziale, sotto tutti i punti di vista -; o quella del giornalismo pagato dalle stesse case editrici che possiedono i giornali dove scrivono, i libri che recensiscono e che hanno anche qualche buon interesse (economico) nelle trasmissioni televisive che li pubblicizzano. Non è un caso, infatti, che molti tra i 'più grandi scrittori' di oggi vengono dal giornalismo (o dall'Accademia). Un mondo chiuso e asfittico (concordo con Francesca Diano), che lentamente imploderà. Perché se è vero che il Mercato ha nel passato (cioè soprattutto fino al secondo dopoguerra) veicolato anche veri artisti, oggi non è più così, perché è il Mercato stesso (nel campo della cultura) ad aver scelto, consapevolmente, la via 'riduttiva' del 'pop', perché economicamente più vantaggiosa (anche se, certo, mantiene anche quella dell'élite, ma ormai solo, direi,nel campo delle arti figurative). Ma se un prodotto non vende più bene in un mercato di massa scompare, e con lui tutto ciò che gli gira attorno (perché ci si preoccupa così tanto della crisi del libro (come oggetto)?...). E il rischio si evita abbassando sempre più il livello, fino a che il prodotto non esiste più...Si è citato, giustamente, più di un nome all'interno della letteratura, a proposito di Mercato - io ne aggiungerei uno nel campo della musica: Giovanni Allevi (che ha il potere di 'emozionare', come Baricco...). Ebbene, la gran parte dei musicisti che non appartengono alla serialità del prodotto di mercato (la maggioranza,sia nel campo della composizione che in quello dell'esecuzione) hanno apertamente denunciato e con forza l'operazione che con Allevi si voleva fare in campo musicale. Cioè, ridurlo a quello che è attualmente la letteratura. e sono riusciti ad arginare il danno (almeno per il momento). Ecco, questo dovrebbe essere il compito della critica (chiamiamola anche militante - i nomi sono relativamente importanti). Dovrebbe servire a distinguere, denunciare, leggere, indicare costruttivamente (intendo proprio costruendo teorie) le strade che gli artisti percorrono, e farlo seriamente (non seriosamente), attentamente, e con passione (senza il livore tipico dell'Accademia che deve autoproteggersi, dal momento che non ha più alcun senso - se ne ha mai avuto uno). E con onestà (senza essere pagata, per questo - se è vero, e concordo con Abate che lo è - che molti poeti e artisti, nel passato e nel presente, hanno preferito mantenersi con 'altri' lavori, piuttosto che sottostare a qualche padrone, questo dovrebbero valere anche per i critici). Sì, la scacchiera va buttata per aria, innanzitutto quella del Potere.
«Sì, la scacchiera va buttata per aria», sono d'accordo con Ivan Pozzoni e Francesca Tuscano, ma per far ciò occorre un «pensiero critico» (con la minuscola se no Leonardo Terzo si arrabbia!). E che cos'è un «pensiero critico»? sembra di parlare di ircocervi in scatola! Dove si trova? Negli Almanacchi? Nelle innumerevoli Antologie auto promozionali? Nelle riviste auto promozionali?
Sì, dobbiamo uscire anche dal "pathos dell'autenticità" del pensiero militante (ormai storicamente tramontato) e prendere atto che il mondo della chiacchiera letteraria è consustanziale al mondo della chiacchiera poetica; nella misura in cui la poesia E' FUORI MERCATO, essa, la poesia corrente è anche fuori della storia, abita il presente, il presenzialismo, la fugace visibilità, la performance; è diventata fluida, liquida, elusiva, esclusiva il senza-espressione (o l'intensificazione forsennata dell'espressione) tende a prevalere sulla formulazione di un discorso poetico organizzato sulla finalità della conoscenza dell'oggetto.
Non mi meraviglia che la poesia corrente sia finita FUORI MERCATO; se ciò è accaduto è perché il livello qualitativo della poesia corrente (quella proposta dai Grandi Editori) è stata ed è terribilmente basso. Si pubblica per ragioni di contiguità, di affinità e di visibilità accademico-mediatica. Ma andando per questa via in discesa, abbassando sempre di più il livello qualitativo della poesia proposta, si è giunti al punto di non ritorno: non è più possibile scendere più in basso, abbiamo toccato il punto più basso dagli inizi del Novecento, ed i lettori si sono rivolti altrove. Inoltre, la poesia corrente è sempre più idiolettica, auto esasperata, impreziosita di ologrammi e di fantasmi, posticcia, falsa come una moneta falsa e la puoi sentire dal tinnire fesso della sua materia. In queste condizioni che fare?
Gianmario Lucini afferma che se dovesse ascoltare le tesi esposte nel libro di Giuseppe Pedota "Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea" che lui ha editato, non dovrebbe più pubblicare la poesia che pubblica, tranne al massimo 3 o 4 libri l'anno. Ebbene, lui l'ha detto, fprse sarebbe bene non pubblicare i libri di tutti i dilettanti che si affacciano alla finestra, sarebbe già questo un buon proposito per tentare un nuovo inizio. Pubblichiamo di meno. Anzi, come qualche tempo fa scrisse Luigi Manzi, non pubblichiamo affatto, facciamo una serrata di 10 anni non pubblicando alcun libro di poesia! Sarebbe già qualcosa. Ma, ovviamente da solo questo non basta. E bisogna ritornare a mettere in onda un "pensiero critico" applicato alla poesia. Non c'è altra strada, credo.
Ennio Abate:
Trovo troppo fatalismo distaccato nell’opinione di Sabino Caronia, uno sconforto per la situazione di degrado dell’editoria e della cultura italiana in Francesca Diano (condivisibile perché non arriva a conclusioni nichiliste e auspica una «critica della resistenza»), una rischiosa liquidazione di ragionamenti e ragione e di ogni tipo di critica, accademica o militante (quasi un elogio della «distruzione della ragione» tanto contrastata dal vecchio Lukács) in Ivan Pozzoni.
Più in particolare:
1. Non mi pare giusto che, essendo scomparsi i cosiddetti «intellettuali legislatori» ( Cecchi, Croce, etc.) capaci di « un magistero critico significativo per competenza,autorevolezza e apertura intellettuale», ci si debba accontentare solo dell’accademismo. O finire per vedere, o addirittura auspicare, che il cielo sia tutto buio in modo da far meglio risaltare le stelle.
No, il cielo non è tutto buio. C’è grande confusione sotto il cielo più che buio totale. E bisognerebbe fare un po’ di ordine.
2. Sarebbe il compito della critica, quella buona, che per me può venire sia dagli accademici sia da quelli che si chiamavano o si chiamano ancora (con qualche approssimazione) critici “militanti”.
Se si uscisse da certi pregiudizi (reciproci) e da certi arroccamenti, per cui i primi sono solo impersonali ed aridi e i secondi solo improvvisatori e ipersoggettivi.
Il che non è facile come ben nota Emanuele Zinato:
«In epoca postmoderna sembra essersi estremizzata in una caricatura la contrapposizione tra l’immagine “eroica” del critico militante, incline a un rapporto diretto con le opere, libero nei propri giudizi di valore, e quella del critico accademico, chiuso nelle istituzioni e arroccato nel filologismo e nella contemplazione dei testi del passato. Quanto più il sistema culturale, nel suo complesso, tende a fare a meno della mediazione culturale, tanto più ciò che resta della critica “tradizionale” si è attestato su posizioni difensive, mentre specularmente, una critica “giovane”, precaria e irregolare simula la possibilità di verginità d’approccio, manifestando, specialmente in rete, soggettivismo, risentimento e aggressività verbale» ( E. Zinato, Le idee e le forme, Carocci, Roma 2010)
3. Anche in questa discussione emergono i diversi «immaginari di partenza» di ciascuno.Quando traboccano in battute liquidatorie o affermazioni apodittiche producono anche effetti spumeggianti, ma impediscono proprio i «ragionamenti» che a me paiono essenziali, se non ci si vuol sottomettere alla “dittatura della forma blog”, come se essa c’imponesse di essere sempre e solo sprezzanti, ultimativi, frettolosi, drastici.
Questi «immaginari di partenza» si affaccino pure, si esprimano, ma facciano i conti con la realtà e non blocchino il dialogo e l'interrogazione. Così forse praticheremo davvero una qualche «critica della resistenza» o “critica resistente”. Che si continua a fare e si può continuare a fare, se non accettiamo deterministicamente la visione della realtà che altri, con mezzi potentissimi, c’impongono.
Viviamo nella crisi di quelli che parevano i “nostri” saperi. Certamente. Tu pensi che hai da dire una verità, ma appena la pronunci arriva il “fasificazionista” che ti dice «la verità non esiste». Tu rispondi con cura a una mail, tieni su un laboratorio, una rivista, ma poi ti fanno notare che «il nuovo capitalismo nomade, cyberspaziale, condanna all’immobilità ogni agorà» . Se ci caschi e ti fermi, sei fritto.
Guardiamo e ingoiamo il presente
con occhi abbagliati
da incontrastati colori
si riconosce la testa del maestro
ancora in aurea e cinta d'alloro
rotola nella polvere del nuovo
giunge ai piedi ormai mutata ferita
ma ancora sacrifica una parola
al pencolante vivere quasi un urlo
che nessuno aveva mai sentito
prima.
Emilia B.
@Ennio
Come hai ben notato, il mio non è disfattismo, soprattutto perché, per molte vicende personali, sono abituata a lottare e persino a stare sulle barricate e non mi sono mai tirata indietro. Ma lottare significa anche saper attendere, quando necessario. Tuttavia l'attesa non deve essere passiva, ma attiva. Sono proprio i momenti più cupi quelli in cui è possibile vedere con maggiore chiarezza, perché si comprende meglio cosa manca e cosa non si vorrebbe. Il valore di Linguaglossa sta nel suo essere un Davide, che usa la sua fionda contro il colosso apparentemente invincibile. E si sa che Davide puntò la sua frombola alla testa di Golia.
Ad Emilia.
I frustrati si sfogano
Con mille balle fiorite,
Olezzando di funebri
Citazioni da salme.
Ma anche si divertono:
Sterili amaramente,
Lo sfogo è una gran cura.
Bersagliano il mercato
D’avidi sguardi vuoti,
Sogni infranti di glorie
Di cui sono le rese.
L.T.
A Leonardo
Del mercato mai
ho ascoltato la voce
se non quella del fruttivendolo
che per vendermi sei mele acerbe
mi regalò due banane acciaccate.
Emilia B.
Per Giorgio:
«Ebbene, lui l'ha detto, forse sarebbe bene non pubblicare i libri di tutti i dilettanti che si affacciano alla finestra, sarebbe già questo un buon proposito per tentare un nuovo inizio. Pubblichiamo di meno. Anzi, come qualche tempo fa scrisse Luigi Manzi, non pubblichiamo affatto, facciamo una serrata di 10 anni non pubblicando alcun libro di poesia! Sarebbe già qualcosa. Ma, ovviamente da solo questo non basta. E bisogna ritornare a mettere in onda un "pensiero critico" applicato alla poesia. Non c'è altra strada, credo». Pubblichiamo tutto, invece, e tutti: facciamo dell’arte ciò che non è avvenuto con la scheda elettorale! Facciamo dell’arte la voce di chi è decentrato, localizzato, immobile. Facciamo dell’arte un surrogato, nomade, come sono nomadi i nostri “nemici”, delle agorà svuotate! Facciamo di ogni artista un guerrillero, da guerrilla nomade, contro ogni scacco della ragione (politica).
Comprendo che a chi, come te, stia sinceramente a cuore il destino della poesia, tali progetti di democrazia lirica creino enorme preoccupazione. Ma se cultura deve essere intesa come un dovere civico, non c’è dolore nel sacrificare l’estetico all’etico.
Per Ennio:
«una rischiosa liquidazione di ragionamenti e ragione e di ogni tipo di critica, accademica o militante (quasi un elogio della «distruzione della ragione» tanto contrastata dal vecchio Lukács) in Ivan Pozzoni» Con l’unica differenza che, mentre Lukács, in pieno moderno, affrontava un’IDEA di degenerazione moderna coi mezzi della filosofia, noi, immersi fino al collo nel tardo-moderno, siamo costretti ad affrontare il FATTO della degenerazione coi mezzi della sociologia.
«Viviamo nella crisi di quelli che parevano i “nostri” saperi. Certamente. Tu pensi che hai da dire una verità, ma appena la pronunci arriva il “fasificazionista” che ti dice “la verità non esiste”. Tu rispondi con cura a una mail, tieni su un laboratorio, una rivista, ma poi ti fanno notare che “il nuovo capitalismo nomade, cyberspaziale, condanna all’immobilità ogni agorà”. Se ci caschi e ti fermi, sei fritto» La soluzione non è arrendersi: è trovare in noi domande differenti in modo da uscire dalla nostra situazione di scacco matto. Nel tempo che ci occorre a rispondere ad un’email, il grande capitale è in grado di affossare intere nazioni. Risponderemo loro con le nostre schede elettorali?
Mi regalò due banane acciaccate.
E tu le hai comprate?
L.T.
Non si capisce perché un non frustrato (tra l'altro accademico) come il prof. L.T. venga qui a mescolarsi coi frustrati.
Avverto che la satira va bene, ma dopo un po', se ripete la stessa solfa, stufa.
E di duetti irridenti-folleggianti ne abbiamo già avuti su questo blog. Con scarso vantaggio per tutti.
E quindi avviso: o si sta al tema o sono costretto di nuovo a moderare i commenti.
Ennio Abate a Ivan Pozzoni:
Anche se questo ‘Noi’ (inesistente) di cui tu, singolo, ti fai portavoce avesse il potere di pubblicare tutto di tutti, non si farebbe fare alla crisi della poesia alcun passo avanti.
A parte il fatto che già si tende a pubblicare tutto di tutti ( e il Web ha dato una spinta straordinaria a questa pseudo-democratizzazione, sulla cui ambiguità t’inviterei a leggere almeno una delle riflessioni di Carlo Formenti qui : http://www.alfabeta2.it/2011/05/08/i-guri-pentiti-rileggono-mcluhan/), chi legge e riflette su questo “tutto di tutti” e chi fa dei bilanci, dei resoconti anche provvisori di questa produzione, distinguendo come minimo spazzatura da non spazzatura?
Altro che fare «di ogni artista un guerrillero»! Qui si finisce per trasformare potenziali artisti o potenziali guerriglieri in consumatori ancora più manipolati. Altro che «democrazia lirica». Qui si ammazza ogni residua lirica con la falsa democratizzazione. Altro che « sacrificare l’estetico all’etico»! Qui si cancella estetico, etico, politico…
Vedo che, anche nel campo della poesia, si vanno moltiplicando le iniziative di costruire dizionari o enciclopedie dei poeti contemporanei per dare “visibilità” ai tanti che scrivono poesie. Non faccio nomi, ma ho seguito la gestazione di alcune di queste iniziative e le ho trovate inaccettabili.
Nel 2006, quando cominciai l’esperienza del Laboratorio Moltinpoesia, ebbi l’idea di un Dizionarietto dei moltinpoesia costruito sul criterio “oggettivo” di documentare il fenomeno della “moltitudine poetante” (o “nebulosa poetante” come la chiamai).
Oggi ritengo che, in assenza di un discorso critico capace di indicare criteri di giudizio relativamente chiari, rigorosi e distinguibili da quelli correnti (vecchi o bassamente pragmatici o addirittura non dichiarati dai curatori di questi dizionari o enciclopedie e quindi, alla faccia della democratizzazione, incontrollabili ), tali «panoramiche» serviranno al massimo a dare un piccolo, ambiguo, compenso al bisogno narcisistico di una parte dei tanti autori che vivono il loro essere in ombra o clandestini senza consapevolezza del significato politico di questa loro condizione e non vedono ( o fanno finta di non vedere) quanto esse siano parassitarie, altrettanto consumistiche e subordinate al liberismo capitalistico trionfante, pur presentandosi come “alternative”.
Sì, è vero, «nel tempo che ci occorre a rispondere ad un’email, il grande capitale è in grado di affossare intere nazioni», ma se le schede elettorali non servono a difenderci, tantomeno servono a difendere la poesia o noi che viviamo nelle nazioni affossabili le pseudo-democratizzazioni liriche.
È per questo che difendo il pensiero critico e i «ragionamenti». Meglio servi consapevoli che liberti che credono addirittura di fregare il Capitale sul suo stesso terreno imitandono le movenze "nomadi".
La poesia delle nuove generazioni impiega l’arma dell’ironia, fa le capriole, assume pose attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico; l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa di possesso d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato, socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime, assonanze interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il «gioco» tra presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita mistificazione del poeta di corte.
Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina».
Sono gli indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno.
Mentre l’eterna Arcadia italica si esprime «nella lingua della clericatura», nella lingua di uso pragmatico (sempre più periferica e marginale) suonando il plettro delle viandanze turistiche, la migliore poesia dei giovani dell’ultima generazione preferisce esprimersi nell’idioma della propria marginalità assoluta, marginalità linguistica e stilistica che è stata scacciata dai circuiti della produzione-consumo (quel coacervo di superconformismo di una sottoclericatura destinata al servizio di corte): la marginalità della merce riciclata e riutilizzata dell’epoca della stagnazione stilistica.
La gran parte della odierna poesia oggi in voga (una sorta di sub-derivazione del minimalismo), con tanto di sublime nel sub-jectum, scrive in un super latino della comunità internazionale qual è diventato il gergo poetico in Europa (di cui l’italiano è una sub componente gergale). Ma, è ovvio, qui siamo ancora (e sempre) sul vascello di una poesia leggera, che va a gonfie vele sopra la superficie dei linguaggi neutralizzati del Dopo il Moderno: srotolando questo linguaggio come un tappeto ci si accorge che ci sono cibi precotti, già confezionati, da esportazione: non c’è profondità, non c’è spessore, non ci sono più limiti. La leggerezza rimbalza sulla superficie, non ne affronta cause ed effetti drammatici, non c’è indagine della superficialità fino a indagarne e metterne a nudo le profondità.
Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può. C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso lo stile lapidario; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi neutralizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.
Per Ennio:
Fortunatamente non ho mai auto-assunto e mai auto-assumerò un ruolo d’organizzatore della “raccolta differenziata” dell’arte, interessato a distinguere spazzatura e non spazzatura. Lascio volentieri alle élites nomadi internazionali, e ai loro sgherri locali, l’incombenza di distinguere rifiuti umani e consumatori funzionanti: in arte non c’è spazzatura o non spazzatura; in cultura non c’è spazzatura o non spazzatura. Ogni filo di voce è non spazzatura; ogni concetto, introdotto da chiunque, nel tempo, è non spazzatura, e nasconde l’immenso valore d’essere origine di cultura (non trovo differenza alcuna, paradossalmente, tra Petrarca e un’iscrizione su vaso etrusco). Né mi convincono richiami, di sapore ottocentesco, alla «falsa democrazia», alle false idee, alle false weltanschauungen, come se valori, idee, concezioni del mondo fossero vere o false, avessero consistenza ontologica smentibile.
Le «costellazioni di frammenti» dell’arte tardo-moderna, ciò che tu chiami «nebulosa poetante», rischiano, hai ragione, di cadere vittima del narcisimo consumista; è urgente, allora, come sostengo in ogni mio editoriale e in ogni spazio che mi creo, creare consapevolezza del narcisimo, magari, seguendo le orme di Luciano Troisio o Massimo Sannelli, puntando su antologie anonime (benchè di difficilissima organizzazione editoriale). In fondo, a me non interessa difendere la «poesia»; mi interessa, anche attraverso l’arte, difendere ogni rifiuto umano. Considero massimo dovere di resistenza contro l’anti-cultura dominante (anziché sui mondi di carta, fondata sui movimenti di banca e sulle sinusoidi degli spreads) mappare e strappare ogni cartografia infernale del tardo-moderno, mappare e strappare, mappare e strappare, strappando dagli artigli della dominanza tardo-moderna i rifiuti, i consumatori malfunzionanti, i consumatori funzionanti (cioè noi, me, e te, che, in qualsiasi momento, come tutti, diventeremo vittima dell’esclusione). Che vuoi che me ne importi di antologie, readings, cattedre, convegni, pulpiti, palcoscenici, incontri artistici, concorsi, bla bla bla bla bla bla? L’urgenza non è salvare la «poesia»; è salvare e basta, anche mediante essa.
Necessariamente, la nostra «poesia» non cammina: nuota (a camminare sull'acqua, non ci hanno mai insegnato).
Comunque, nel punctus contra punctum, io sono il «vecchio» e Giorgio il «giovane».
trascrivo questa riflessione di Sarah Tardino che è giunta alla mia e-mail e che ritengo abbia un valore pubblico:
Gentile Giorgio Linguaglossa,
Non è che sia scomparsa la critica militante è che è scomparso il pensiero critico. Non è che i giovani non abbiano opinioni, mire e slanci è che non c'è lo spazio politico (cioè pubblico, condiviso) per esprimerle. Io sono stata fra gli ultimi allievi di Gianni Scalia critico militante molto vecchio e ancora molto saggio. Officina era in gran parte una rivista autofinanziata (Roversi paga ancora i debiti) perché quella generazione aveva il danaro per farlo: insegnavano al liceo.
In secondo luogo la comunità letteraria alla quale la critica militante si rivolgeva era ancora avvezza alla riflessione, perché era una eite -humeianamente intesa.
il mondo della cultura italiana alta si è adeguato allo slogan, che è propaganda, è apodittico, il contrario della critica né c'è da meravigliarsi vista la contaminazione di illetterati che infesta concorsi, cenacoli, manifestazioni. Io ho trentadue anni e sono una poetessa matura, classificata ancora fra l'ultima generazione, mi assumo come e quando posso la responsabilità di scrivere su riviste ciò che penso, ho riconosciuto i miei maestri ho rifiutato di essere un epigono , ho pagato caro per questo.
La militanza oggi è una questione privata, oserei dire clandestina, come lo è stato per la mia generazione:sono accessibile ai giovani che hanno qualcosa da chiedermi sul mio mestiere, ma vivo isolata, come dice Alfonso Gatto"l'universo che mi spazia e m'isola" .L'esperienza della critica degli anni cinquanta- settanta è conclusa perché il mondo è cambiato.
Ci sono dei diktat impliciti che impongono di non dire che il libro di questo o quel poeta affermato fa schifo perché altrimenti il sistema ti emargina. Io non scrivo recensioni per questo motivo, invito i ragazzi di vent'anni a non curarsi della critica militare dei nostri tempi perché:
a)Il tempo smaschera gli impostori,
b) dal crollo di un'esperienza ne nasce un'altra e bisogna impegnarsi perché sia più virtuosa:
la letteratura non è quella che si commenta ma quella che si scrive. Un'eccezione quando la glossa è evidentemente il frutto di una relazione amorosa con il testo e ne diventa il controcanto, ne è l'esempio l'opera di Cristina Campo.
La migliore stroncatura è l'indifferenza. Io sono un frutto esemplare della scuola minimalista milanese, Giuseppe Pedota ha letto i miei libri? si chiede qual'è l'esito degli ultimi trent'anni della poesia italiana? La mia poesia potrebbe sorprenderlo magari se la leggesse,la mia come quella di altri, non è che io m'offenda se non mi leggono, è che m'annoia sempre la stessa polemica: cambiamo polemos, accorgiamoci che ci sono due generazioni di poeti vivissimi che vivono audacemente seguendo percorsi originali, interessanti, interroghiamo i poeti per sapere che fine ha fatto la poesia e non scoraggiamo i giovani che sono preziosi.
Il mondo avrà sempre bisogno della poesia e avrà spazio per accoglierla. La grande poesia ha dalla sua parte il Tempo-ripeto- che smaschera i mentitori e premia i poeti.
La questione è molto più complessa e meriterebbe attenzione ma ho una bimba di due mesi che ne reclama altrettanta. Le questioni che lei pone sono sempre molto interessanti e intelligenti i commenti che leggo. La saluto e le faccio molti auguri.
Sarah Tardino
Ennio Abate a Sarah Tardino:
Evviva i giovani e le giovani (specie se madri che hanno una bimba di due mesi da curare)?
Alla sincera e simpatica Sarah farei notare che:
1. se la critica è “militante” come fa a non nascere da un «pensiero critico»;
2. Uno « spazio politico (cioè pubblico, condiviso)» per esprimere « opinioni, mire e slanci» non manca solo ai giovani, manca forse all’80% circa della popolazione di questo Paese; e, dovrei aggiungere, mancava anche in passato ( e l’esempio di «Officina» autofinanziata è una prova, ma altre prove se ne trovano in giro anche oggi);
3. la vera sfida è fare critica in molti e non più in pochi in una comunità letteraria spappolata, non più avvezza o meno propensa alla riflessione ( se però ogni riflessione o ragionamento viene squalificato in partenza perché lento e faticoso e il turbo capitalismo va veloce e bisogna inseguirlo…);
4. la «militanza» (in parole più semplici: dire ciò che si pensa il meglio possibile, dire quello che uno crede vero…) può essere «clandestina», cioè non visibile sui mass media, ma non può essere «una questione privata» (titolo di un romanzo di Fenoglio… tra l’altro neppure quella di Milton, il protagonista, era davvero una questione privata se si svolgeva dentro un grande moto collettivo come fu la Resistenza!); e anche quando fosse «isolata» (per ragioni storiche più che ontologiche o metafisiche, penso io) può avere due accenti ben diversi: un isolamento da ‘io-io’ (individualistico) e un isolamento da ‘io-noi’ (non individualistico, che presuppone gli altri anche se non li ha “sottomano”… un Leopardi, tanto per intenderci);
5. Non ci sono « diktat impliciti che impongono di non dire che il libro di questo o quel poeta affermato fa schifo» se non si ha paura, se non li si accetta, se si è disposti (perché convinti) a lottare contro «il sistema» che «ti emargina»; e poi la critica non si deve fermare a dire che «quel poeta affermato fa schifo», deve argomentare a fondo e pubblicamente perché «quel poeta affermato fa schifo», altrimenti non è critica , è solo ripicca, snobismo dal basso di chi si sente o è davvero ai margini che si specchia nello snobismo dall’alto di chi si sente o è davvero in posizione di vantaggio;
6. Non è vero che «il tempo smaschera gli impostori». E’ un‘illusione simile a quella di chi pensa «Solo un Dio ci salverà» (Heidegger). Gli impostori verranno smascherati solo se ci sono mutamenti reali costruita *criticamente*.
7. «Non scoraggiamo i giovani che sono preziosi». Non tutti. Non sempre. Non in quanto giovani. E poi criticarli (quando ci sono le ragioni per farlo) non è scoraggiarli, semmai è spingerli a diventare davvero «preziosi» e a non illudersi che lo siano già (tutti, sempre, in quanto giovani).
Per finire. « La questione è molto più complessa e meriterebbe attenzione», ma ho altre cose che ne reclamano altrettanta.
Ennio Abate a Ivan Pozzoni:
Sarò “ottocentescamente” pedante. Molto nobile, molto nicciano-stirneriano questo tuo modo di tirarti fuori da quella che - troppo metaforicamente! - definisci “raccolta differenziata” dell’arte (o della poesia). Ma lo pratichi davvero? Coerentemente? Non ci credo. Per forza, e non solo tu ma tutti, anche se avessimo questa utopia di mai « distinguere spazzatura e non spazzatura», siamo costretti a SCEGLIERE (o ad essere scelti). Sarà banale, ma non credo che in casa tua fai entrare tutti o di tutto. Almeno di tanto in tanto fai pulizia, chiudi la porta in faccia a qualcuno (magari ad un piazzista che ti viene a vendere qualcosa prodotta dalle « élites nomadi internazionali» e smerciata dai «loro sgherri locali»).
Mi dirai che in poesia è diverso: « Ogni filo di voce è non spazzatura; ogni concetto, introdotto da chiunque, nel tempo, è non spazzatura, e nasconde l’immenso valore d’essere origine di cultura (non trovo differenza alcuna, paradossalmente, tra Petrarca e un’iscrizione su vaso etrusco)».
Non è così. Le differenze ci sono ( e il problema enorme sarebbe gestirle, “fludificarle”, impedire che diventino gerarchie fisse, naturali, ovvie…). Semplicemente tu le neghi. E te la cavi dicendo che SCEGLIERE è ottocentesco, come se prima e anche adesso, al di là dell’ideologia di un presunto liberalismo o libertarismo assoluti, gli uomini non avessero scelto e non scegliessero a partire da condizioni determinate ( la maledetta storia!) da altri prima di loro. (A voler fare il pignolo fino in fondo, già questa tua affermazione è una SCELTA: scegli di non essere «ottocentesco», scegli di non accettare una concezione del mondo che distingue valori e idee utilizzando la categoria vero/falso. Anche se non lo dici. E non è in base ad una SCELTA che cerchi di avvertire gli altri a non « cadere vittima del narcisismo consumista»? E le «antologie anonime»? Non sono una SCELTA che contrapponi a chi sceglie di fare antologie “non anonime”?
E poi le antologie “anonime” non portano il nome del curatore? E poi ancora, se «difendere la poesia» è un’astrazione generica e non si capisce cosa significa, altrettanto lo è «difendere ogni rifiuto umano» o «salvare e basta» mediante «essa» (cioè la poesia, specie se non si SCEGLIE di definirla sia pur in qualche modo approssimativo). Altrimenti “tutto è poesia”. Altrimenti “nulla è spazzatura”. E così via…
Gentili interlocutori più giovani,
l'ho già raccontato, tanto tempo fa,a metà degli anni Novanta con il "Manifesto della nuova poesia metafisica" uscito su «Poiesis» nel 1995 (altra rivista auto finanziata dal sottoscritto), io ho stipulato un patto con me stesso (e con Giuseppe Pedota con il quale collaboravo nella rivista), cioè che avrei scritto (giusto o sbagliato) quello che pensavo dei libri di poesia che leggevo. Ebbene, a distanza di venti anni si può dire che sono rimasto un isolato, sono stato "punito" per la libertà di pensiero che mi ero preso? Non lo so ma non mi sono pentito di quel patto di fedeltà che avevo stipulato con me steso.Lo ripeto ancora una volta, io non sono un critico ma mi sforzo di pensare come un critico perché ritengo che i tempi richiedano da me un impegno "critico" che non posso deludere né eludere,pena la mia capitolazione intellettuale (ed etica, che poi è la stessa cosa). Il mio sforzo critico è diretto verso i giovani (non contro igiovani), sono i giovani che debbono ereditare l'esempio e le tesi dei miei lavori critici, siete Voi che dovete ricevere il testimone,io non posso fare altro che offrirvelo ma sta a voi prenderlo in eredità; i miei lavori critici (e quello di altri pochissimi contemporanei tra i quali metto Giuseppe Pedota) è rivolto quindi ai più giovani affinché essi riprendano a pensare con la propria testa e non si facciano intimidire dalle punizioni (dirette e/o indirette) o altro. Ritengo che anche in letteratura bisogna avere coraggio, il coraggio delle proprie idee, altrimenti si finisce tutti nella melassa epigonica dei poeti che scrivono come vogliono gli Ottimati. Se io, e altri come me, Ennio Abate, Giuseppe Pedota facciamo della critica è perché questo è un lavoro che riteniamo ineludibile, necessario.
Certo, ho dovuto pagare un certo prezzo per questa mia libertà di critico. Degli esempi? Bene ve lo dirò: ho proposto negli ultimi tempi dei miei scritti a LE PAROLE E LE COSE a LA NAZIONE INDIANA e a LA POESIA E LO SPIRITO che sono stati passati sotto silenzio; alcune riviste come "L'imamginazione" si sono rifiutate, a priori, di recensire libri che avevo scritto io perché, è stato detto, avevo osato criticare autori come Cacciatore e Sanguineti. E la lista potrebbe continuare. Ma nel nostro povero paese tutto ciò è diventato normale: non c'è più la censura del regime ma c'è la censura degli epigoni degli epigoni che è occhiuta e salace quant'altri mai.
Tutto ciò non solo non miscoraggia ma mi dà più forza e convinzione di non tradire quell'antico patto che ho stipulato con me stesso.
Io non scoraggio i giovani perché i giovani sono preziosi, ma sappiano i giovani che essi non andranno da nessuna parte se non faranno chiarezza su quello che è accaduto nella patria delle belle lettere nel passato recente e remoto.
Il tempo farà chiarezza? Non nutro molta fiducia nel tempo, il tempo lo scrivono gli arroganti e i mediocri, ma il tempo se li scrollerà di dosso come mosche nocchiere, non vedo chi possano interessare i loro scialbi compitini letterari, non certo i contemporanei i quali hanno problemi più seri cui far fronte.
Penso che moltissimi giovani, e molti meno giovani, apprezzino te, Ennio e Pedota, accettando, inoltre, con o senza rassegnazione, anche il silenzio (a priori) su ogni propria iniziativa. L'unica cosa che non ci torna, che temiamo, applicata al tuo discorso, è ben rappresentato da una importante metafora fantozziana: stadio semivuoto, candelotto di dinamite acceso, con miccia corta, come testimone, e noi, ultimi nella staffetta, senza una visione concreta dell'arrivo. Gli ultimi, destinati alle miniere di Sassu Scriptu (frazione di Carbonia)... Comprenderete chi fugga, chi si fermi, chi butti a terra il testimone...
Ennio, sinceramente non ho mai affermato di non voler scegliere (come studioso del pragmatismo, sono particolarmente suscettibile sull'interpretazione della nozione di scelta, e sull'applicazione problematica di essa nozione nel tardo-moderno). Semplicemente, cerco di scegliere (scegliere è ancora fattibile nel tardo-moderno?) di scegliere tutti, che non vuole dire acquistare a scatola chiusa. Cade il tuo discorso, molto interessante, sulla scelta, che, a rigor di logica, mi ricorda molto una delle due tesi di scacco matto al ragionamento (la tua critica all'affermazione, da me non fatta, che non esiste una scelta, si fonda sullo stesso armamentario logico, epimenideo, della critica fondazionale all’affermazione «la verità non esiste»).
A casa mia, non faccio entrare tutti (non sono un comunista, nel senso etimologico del termine): la casa della cultura è casa MIA? Nella casa della cultura entrano tutti, DEVONO entrare tutti: io non me la sento di fare il buttafuori, fermo davanti alla casa della cultura. Mi vedo come un buttadentro. Liberi voi di fare i buttafuori: come buttafuori, io non mi ci trovo.
Le antologie anonime non devono riportare il nome del curatore: è un esperimento interessante, che stiamo progettando. L'unica fregatura è trovare una casa editrice disponibile a seguirci. Le antologie anonime, essendo anonime, non si integrano bene nelle logiche del mercato librario.
Per le definizioni, intese o meno come ridefinizioni, ci sarebbero migliaia di pagine da scrivere e da leggere (sopratutto sul versante dell'analitica novecentesca, da cui filosoficamente nasco). Ma mi auguro non tocchi farlo a me o a te.
Il tempo fa giustizia solo se resta qualcosa su cui far giustizia. Nel caso dell'Italia, il meccanismo ben oliato e ben sperimentato dalla Chiesa nei suoi millenni di vita, è quello di ignorare, insabbiare, tacere, sopire, mettere il mordacchio. Nei casi più pericolosi, eliminare, se non fisicamente, magari con la calunnia. Se l'opera di insabbiare e impedire l'emergere di voci diverse ha successo, non resterà traccia di quanto hanno detto. Dunque la voce deve lasciare traccia. poi sarà possibile, si spera, in un qualche futuro, ascoltarla. Sarà possibile anche attraverso il clangore, il frastuono del presente, che prima o poi si dovrà affievolire, perché ha in sé i semi della fine, dell'implosione.
Dunque essere letti ha importanza eccome. Dire, ha importanza eccome. In certi casi il silenzio non è d'oro.
@Giorgio Linguaglossa.
Quando è nato Le Parole e le Cose, andavo spesso e commentavo spesso, anche se il livello di quanto pubblicano non è sempre quello che pretendono di avere e francamente certe cose sono pietose. Poi, un po' alla volta, ho notato lo stile aggressivo contro chi non era allineato (me compresa), il trattare dall'alto in basso chi non era nella ghenga solidamente compatta di questi professorini e professorine graziati da un qualche ruolo universitario, come se fossero chissà chi. La loro arroganza mi ha disgustata. Ho anche imparato a capire i legami, le amicizie, i favori reciproci, sia tra loro sia con un tizio che si passa per grande traduttore, poeta e scrittore e poi salta fuori che traduce da traduzioni inglesi, ma che riveste uno di quegli inspiegabili ruoli di potere che si affibbiano in Italia. (Sono stata io a smascherarlo educatamente e non ne è stato contento). Dunque non ero più persona grata.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando hanno pubblicato un compitino della figlia del noto editore che ha pubblicato un mio lavoro e non mi ha mai pagata, ma che seguita a pubblicarlo e a trarne "illecito guadagno", nonostante gli abbia più volte scritto il mio avvocato.
Mi sono ripromessa d tempo di non andarci più e tanto meno di commentare la roba loro. E così ho fatto. Ho comunque ben visto come ti trattavano. Che hai tu a che spartire con questa gente, o con Nazione Indiana, che è lo stesso?
La cultura italiana è piena di intoccabili (ti faccio notare che questo termine però in India indica i paria, gli impuri) e di loro famuli, tirapiedi ecc.
Ovvio che, dato il loro livello, si prestano poi a vere e proprie truffe, come Sanguineti, Merini &Co Per forza.
Il meccanismo è semplice, perfino primitivo. Se ammettessero voci dissonanti, se lasciassero dire che l'imperatore è nudo, poi crollerebbe tutto il castello di carte, sarebbero smascherati e tutti loro sanno anche troppo bene che non valgono una cicca schiacciata. Lo sanno Giorgio, lo sanno. E tanto più si disprezzano perché si conoscono, tanto più tremano di fronte a chi rischia di mettere a nudo i loro cadaveri ambulanti. Tanto più è dura e compatta la censura e l'esclusione.
Il fondatore di Luxottica, l'unica azienda italiana in salute e in attivo, rispettato in tutto il mondo per quello che fa e come lo fa, rompendo la sua discrezione e la sua riservatezza, ha da poco sparato a zero sul sistema italiano e sui bancari che vogliono fare gli speculatori, essendo invece degli emeriti imbecilli, con il risultato di aver distrutto l'economia italiana e col beneplacito anche di questo governo. Li invita a tornare a fare il loro lavoro di bancari.
Ecco, anche nelle maggiori case editrici, ai posti decisionali ci sono degli imbecilli e degli ignoranti, che però fanno come quei bancari. Si piccano di far cultura e di guadagnarci. Loro e ovviamente gli amici loro, perché solo a quelli possono affiancarsi.
Coi risultati che si vedono.
Ti avevo risposto dettagliatamente. Non so cosa sia successo: il blog s'è mangiato la risposta. Mannaggia!
Ennio Abate:
Continuando a lanciare segnali di fumo da questo post a giovani e vecchi, terrei a precisare che:
1. il campo della «critica resistente» o dei «critici resistenti» mi pare molto più affollato di quanto si creda e sarebbe davvero fuorviante ridurlo a pochi nomi ( i nostri o dei nostri amici) o a qualche nostra rivista;
2. farei attenzione alla contrapposizione che Giorgio fa tra Ottimati e critici “invisibili” o “puniti” per la loro «libertà di pensiero»; insisto su quanto detto in un precedente commento: la buona critica o, se vogliamo essere severi, spunti per una buona critica per me vengono « sia dagli accademici sia da quelli che si chiamavano o si chiamano ancora (con qualche approssimazione) critici “militanti”». Che poi ci siano quelli che “giocano sporco” o che guardano «dall'alto in basso chi non [è] nella ghenga solidamente compatta di […]professorini e professorine graziati da un qualche ruolo universitario», come vedo sottolineato da Francesca Diano, non c’è dubbio. Ho riportato in un precedente commento una citazione dal libro di Emanuele Zinato, che per me è un buon critico e offre ottimi spunti, anche se lavora nell’università e anche se su alcune su prese di posizioni non sono d’accordo e l’ho scritto anche su LE PAROLE E LE COSE. È giusto generalizzare o distinguere? Vorrei la vostra opinione;
3. Personalmente non mi sento “punito” per la mia libertà di pensiero. E riconosco anche agli altri, ai miei avversari, un’altra, la loro, libertà di pensiero. Ci sono differenze culturali e politiche non aggirabili che ci fanno trovare su posizioni opposte. Ci sono due o alcune libertà di pensiero. Anch’io ho polemizzato in alcune occasioni con NAZIONE INDIANA o LA POESIA E LO SPIRITO e polemizzo con LE PAROLE E LE COSE. Ma la loro diffidenza o ostilità non me la spiego solo con la loro arroganza o saccenteria. O con una volontà punitiva nei miei confronti. (Ad es. Guido Mazzoni col quale mi sono scontrato sul discorso della selezione Dedalus-Pordenonelegge, poi ha discusso con me e con noi sulla traduzione di Stevens in modi pacati e rispettosi). Credo che veniamo da una storia (letteraria e soprattutto politica, io direi) controversa e la intepretiamo in modi diversi. Le «patrie lettere» in cui avremmo potuto discutere più dialetticamente sono finite da tempo.
[continua]
Purtroppo il blog s'è mangiato due volte una mia risposta ad Ennio. Mannaggia! Smetto di ritentarci...
Ennio Abate (continua):
Francesca Diano dice: «Se ammettessero voci dissonanti, se lasciassero dire che l'imperatore è nudo, poi crollerebbe tutto il castello di carte, sarebbero smascherati e tutti loro sanno anche troppo bene che non valgono una cicca schiacciata».
A me pare una semplificazione eccessiva. Le vicende politico-letterarie degli anni ’60-’70 hanno prodotto prima fratture e poi rimescolamenti. Non esiste ( e non può esistere per me) una «memoria condivisa» neppure in letteratura o in poesia.
Un Cacciatore o un Sanguineti legati al neosperimentalismo davvero non si conciliano con i poeti selezionati da Giorgio nel suo «Dalla lirica al discorso poetico» o da Pedota in «Dopo il moderno» con un’ottica di forte impronta heideggeriana (come ho già detto nel post dedicato a Pedota e dirò nel prossimo).
Giorgio e Pedota fanno rientrare nel campo della “buona poesia” certi nomi e ne escludono altri. E lo stesso fanno, dal canto loro, «L’immaginazione» o gli altri siti. Io non mi scandalizzerei per questo.
«L’immaginazione» di Manni rifiuta certi scritti, ma non è una delle maggiori case editrici. Io non me la sento di dire che dappertutto «ai posti decisionali ci sono degli imbecilli e degli ignoranti, che però [...] si piccano di far cultura e di guadagnarci. Loro e ovviamente gli amici loro, perché solo a quelli possono affiancarsi».
Approfondirei di più le ragioni della contrapposizione tra "noi" e "loro"; e argomenterei sempre più a fondo e meglio le filosofie, le poetiche, i giudizi particolari diversi o contrapposti. Anche se so che possono essere e spesso sono anche paludamenti ideologici che coprono realtà più meschinelle.
Se poi vogliamo proprio usare il termine «censura», direi che è reciproca. Anche se la loro conta di più perché opera da una posizione di maggior potere.
[Fine]
Ai giovani che amo molto:
ognuno parli per se stesso
ognuno pianga con se stesso
Che nessuno vi ascolti origliando , nemmeno il vostro più grande maestro saprà cosa racchiude il vostro cuore, non fidatevi delle regole, la poesia sarà vostra solo se sarà coraggiosa. Emilia Banfi
Cari Francesca Diano e Ennio Abate,
vorrei precisare che né lo scrivente né Giuseppe Pedota eravamo (o siamo) heideggeriani; certo Heidegger è un filosofo che non si può eludere ma ritengo che l'impostazione critica mia e di Pedota non possa essere liquidata e inquadrata come heideggeriana (come se fosse una parolaccia!). Quando ero più giovane avevo una formazione marxiana, adesso non so, seguo sempre il mio istinto quando leggo un libro. Mi considero un eclettico. Ogni volta che leggo un libro mi impongo la norma di mettere da parte tutte le mie precedenti convinzioni estetiche. Credo che chi voglia fare critica oggi debba avere il coraggio di sottoporre le proprie valutazioni a costante e quotidiana autocritica: il mondo è sempre nuovo e offre una grande quantità di cose nuove apparentemente inspiegabili se le guardiamo con gli occhiali che ci siamo costruiti.
Cara Francesca Diano, hai ragione io non credo di avere nulla in comune con quelli del LE PAROLE E LE COSE, LA POESIA E LO SPIRITO, L'IMMAGINAZIONE etc., e loro lo sanno benissimo che apparteniamo a due razze distinte e separate. Questo lo so, l'ho sempre saputo, avverto sempre la puzza degli intellettuali di corte, di sagrestia e dei Parioli fa lo stesso. Con questa gente non è possibile neanche andare a prendere insieme il caffé al bar.
A Ennio Abate dico che non ho il complesso dell'assediato, non mi ritengo un CRITICO DI OPPOSIZIONE o un CRITICO PUNITO, prendo semplicemente atto che c'è una strategia del "silenzio" non soltanto nei miei confronti ma verso chiunque non si attenga alle regole del "gruppo", del clan di appartenenza e di riconoscibilità. A questi intellettualini di corte non interessa alcun confronto o dibattito a loro interessa soltanto recintare con il filo spinato del "silenzio" il loro piccolo potere di corte. Un potere miserabile, ovviamente. A ciascuno il suo. Ma certo io ne traggo le dovute conseguenze. E le conseguenze che traggo sono queste: che io vado e andrò per la mia strada della indipendenza intellettuale e della non appartenenza a nessuna fratria o clan. Certo, c'è un prezzo da pagare. Tutto qui.
Ritengo che Ivan Pozzoni, che è giovane e al quale mando i miei saluti, sia ancora nella fase del "movimentismo", condivido il suo proposito "di buttare gli scacchi e la scacchiera per aria", ma per farlo in Italia occorre una vera e propria rivoluzione (non solo culturale). E allora diciamolo: che occorre fare una vera rivoluzione: cioè cacciare le élites dirigenti (sclerotizzate e corrotte) e sostituirle con altre più democratiche. In fin dei conti, la poesia è l'ultima tra le cose, e, come ci insegnava Fortini occorre tornare a cambiare le cose che stanno al di fuori della poesia (le Istituzioni, Le università, le case editrici, gli assetti del potere, le Accademie, le piccole corti...)
No, no, io non ho mai parlato di Heidegger. Dicevo solo che la compattezza del sistema dell'esclusione e del silenzio è tale da lasciare poco spazio alla dissidenza. Perché qui si dovrebbe cominciare a parlare di dissidenza. Diciamo che questo sistema si autoprotegge, ha le sue paratie, le sue camere a tenuta stagna. Però anche il Titanic aveva un ottimo sistema di camere stagne e di paratie, ma quando il livello dell'acqua è salito troppo, non sono più servite.
Fortini aveva ragione. Il cambiamento deve operarsi altrove. Certo che non è facile, perché Istituzioni, università, case editrici, corti e cortili vari sono invasi da cellule cancerose pervasive e proliferanti. Frutto non solo del ventennio di berluscoma maligno, ma di molto altro che l'ha preceduto e che ha costituito un ottimo terreno di coltura. Ma sono una convinta sostenitrice del divenire eracliteo e dell'eterno mutamento come l'I Ching insegna, e dunque nutro buone speranze per l'avvenire. Vicino o lontano che sia.
La rivoluzione, in un mondo sferico, come lo concepisce Lombardi Vallauri (nella sua personale visione cattolica del tardo-moderno), è diventata impossibile. Dobbiamo concepire nuovi modi di resistenza.
P.s. Comunque, in un mondo che non smette mai di muoversi, siamo tutti "movimentisti", anche a non volerlo.
Per Ennio:
Non ho mai sostenuto di non voler «scegliere». Da studioso del pragmatismo moderno, sono sempre stato molto interessato all’interpretazione della nozione di «scelta», e alle sue applicazioni (sempre che, nel tardo-moderno, sia ancora giustificabile un ricorso alla nozione di «scelta», radice teoretica del concetto di «responsabilità»). Semplicemente, scelgo di scegliere tutti, che non vuole dire “acquistare” a scatola chiusa. La tua interessante discussione sulla «scelta», non si riferisce alla mia posizione (benchè in essa, assai jamesiana, ci trovi molto della struttura di ogni critica fondazionalista, epimenidea, all’affermazione «la verità non esiste», origine, insieme all’inversa critica relativista, di ogni scacco matto al ragionamento)!
A casa mia non faccio entrate tutti. Ma la casa della cultura, è davvero casa MIA? Io non ho nessuna intenzione di assumere il ruolo del buttafuori appostato davanti alla casa della cultura; mi trovo meglio ad essere un buttadentro. Chi desideri fare il buttafuori, libero di farlo: è sicuro di star facendo davvero cultura, cadendo nella dialettica inclusione / esclusione?
Nelle antologie anonime dovrebbe essere anonimo anche il curatore: è un progetto a cui stiamo lavorando, benchè sia molto difficile reperire un editore disposto a coofinanziarlo. L’anonimato non si integra nelle logiche consumistiche di mercato.
Sulla natura delle definizioni, intese o meno come ridefinizioni, rischieremmo, sulla scia del dibattito analitico novecentesco (e dall’analitica, io nasco), di dover leggere o dover scrivere migliaia di pagine. Mi auguro che non tocchi a me o a te farlo.
Ennio Abate a:
- Giorgio Linguaglossa
No, ‘heideggeriano’ non è un insulto. Ma molto astoricismo heiddegeriano e riecheggiamento della critica alla “chiacchiera” massmediologica ho trovato negli appunti di Pedota su «Dopo il moderno».
Un solo esempio che riguarda proprio l’analisi della tua poesia:
«Gli uomini che vanno *contro* il flusso della Storia sono coloro che Linguaglossa sembra prediligere. È intervenuto *qualcosa che prima non esisteva*. D’ora in avanti il mondo non sarà come prima. L’azione di un singolo muta, può mutare il corso della Storia. Il linguaggio (*das Wort, die Sprache, die Sage*) diventa *discorso poetico, l’Evento ( *das Ereignis*) costituisce l’*individualità* della storia; il *Dichten* e il *Denken* diventano i *Leit-worte*; qui Linguaglossa adotta l’ottica di Heidegger (secondo cui «ogni pensatore pensa un unico pensiero» e «ogni grande poeta poeta movendo da un unico poema») rovensciandone le conseguenze in ambito poetico» (G. Pedota, Dopo il moderno, CFR Ed. p.69).
Neppure essere «eclettico» è un atteggiamento astrattamente condannabile (da quale pulpito poi?). E mi pare ottima cosa che nel criticare si abbia « il coraggio di sottoporre le proprie valutazioni a costante e quotidiana autocritica» (che è modalità vicina alla fortiniana «verifica dei poteri»).
A patto, aggiungerei, che autocritica sia revisione delle proprie posizioni, della propria esperienza; e non liquidazione di esse. Insomma che l’autocritica non ce la mettano in bocca, senza che ce ne accorgiamo, i nostri nemici (anch’essi da valutare costantemente ecc.).
Io pure ho l’olfatto sensibile alla « puzza degli intellettuali di corte, di sagrestia» ( e di Via Montenapoleone invece che dei Parioli). Vorrei solo evitare di generalizzare e di farne un’Unica Puzza (un po’ fantasmatica). Resto dell’avviso che s’impara anche *studiando* i nostri nemici.
E sono convinto che le «regole del “gruppo”, del clan d’appartenenza» e i discorsi degli «intellettualini di corte» vadano INTRALCIATI, RIDICOLIZZATI, SMASCHERATI anche nei loro luoghi di ritrovo o di aggregazione di adepti, discepoli, clientes (i siti su nominati o altri luoghi). Il mio motto è ancora «dialogare, criticare, polemizzare». Ovviamente valutando caso per caso quale modalità adottare. Certo, dovremmo essere in tanti a farlo. Uno sciame di "vespe critiche" conta più di una singola. E contemporaneamente non esaurirsi in guerricciole ma avere un “nostro” (virgolette necessarie) alveare. Ma so di sognare per ora…
[continua
Ennio Abate (Continua):
- Francesca Diano
E se si analizzassero più da vicino, più scientificamente, più storicamente le « cellule cancerose pervasive e proliferanti» che sono al lavoro nelle « Istituzioni, università, case editrici, corti e cortili vari» invece di nutrire «buone speranze per l’avvenire» in compagnia di Eraclito e dell’I Ching? Non sarebbe meglio darci una mossa ricordandoci anche della famosa frasetta di Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”?
- Ivan Pozzoni
«Nuovi modi di resistenza»? Sì, certo. Il rischio è una “resistenza senza contenuti” che diventa retorica. (La stessa cosa vale per il tuo slogan « siamo tutti "movimentisti"».A me fa venire in mente quelli operaisti alla Lotta Continua anni Settanta: «siamo tutti delegati»).
Se te ne stai sempre sulle generali, non capisco cosa voglia dire «scelgo di scegliere tutti» o «essere un buttadentro» invece che un «buttafuori» o non cadere nella «dialettica inclusione / esclusione».
Facciamo l’esempio delle antologie dei poeti contemporanei. Ammesso che tu decida di farne una anonima e che anche il curatore sia anonimo e che trovi un editore-finanziatore, cosa fai?
Scegli di includere tutti quelli che ti mandano qualche testo e, magari senza neppure leggerli? (Tanto devi includere tutti).
Ora, se questi testi ti vengono da autori emarginati o “invisibili”, anche se pubblicati in un’antologia “demoKratica” (come tu la definisci) emarginati e “invisibili” più o meno resteranno. Perché tu ( o io o un altro) non hai nessun potere reale per includerli (= farli riconoscere validi, farli accettare) in quel campo material-simbolico pubblico rappresentato dalle «Istituzioni, università, case editrici, corti e cortili vari» o da quella «casa della cultura», di cui tu stesso riconosci non essere il proprietario («Ma la casa della cultura, è davvero casa MIA?»).
Insomma, così si finisce per parlare in astratto e non valutare i reali RAPPORTI DI FORZA; e come "noi" - singolarmente o come gruppi - siamo collocati in essi; e se sia possibile organizzarsi e in modo efficace, eccetera.
[Fine]
caro Ennio,
Giuseppe Pedota in "Dopo il Moderno" scrive:
Nel suo libro di memorie, Nadezda, la moglie del poeta russo Osip Mandel’stam, mette sulla carta alcuni riflessioni del marito straordinariamente importanti per la poesia del Novecento. Parlando di alcune poesie del marito, scrive che «Mandel’stam il quale non aveva mai mosso un passo per venire incontro ai suoi lettori, che non si preoccupava mai d’essere capito, considerando ogni suo ascoltatore e interlocutore alla sua stessa altezza e che perciò non diluiva e non semplificava i suoi pensieri, ha reso proprio questi versi accessibili a tutti, facili, aperti». Il problema posto da Mandel’stam con grande chiarezza e perspicuità è il seguente: ogni grande poesia conquisterà i propri lettori nell’avvenire e il poeta non si deve affaticare a ricercare una facile riconoscibilità ed un facile applauso presso i contemporanei. E in un saggio giovanile intitolato «Sull’interlocutore» (pubblicato in traduzione italiana sul n. 1 di «Poiesis», 1993), il poeta russo indicava nell’interlocutore il problema centrale della poesia del Novecento. La poesia moderna aveva, per il poeta russo, perduto il proprio «interlocutore» (concetto da non identificare e appiattire con quello sociologico di «pubblico»), e questa perdita avrebbe condotto la poesia moderna nel vicolo cieco della «scatola acustica», nel «laboratorio per impagliature» della tarda poesia del «simbolismo». Rivolgendosi alla «scatola acustica» dell’ascoltatore o del lettore per edificarlo, sedurlo, corteggiarlo con la narcisistica esposizione della propria musicalità, la voce del poeta simbolista nasce, per Mandel’stam, già sedotta, radicalmente impotente ad esprimere il «messaggio» ultimativo che i tempi richiedevano alla poesia. Per il poeta russo l’eclisse dell’«interlocutore» coinvolge il problema della destinazione finale della poesia; per il poeta acmeista non c’è destinazione senza destinatario, come non v’è destinatario senza interlocutore, essendo questi l’obiettivo ultimo, e quindi più importante, del proprio lavoro di poeta. Questo nesso problematico, che il poeta russo coglie con grandissima chiarezza già negli anni dieci, è di grandissima importanza per cogliere gli snodi fondamentali della poesia del Novecento. E comunque, un esito significativo della crisi dell’interlocutore è dato appunto da un certo tipo di arte, diremmo noi oggi, autoreferenziale, che si rivolge alla «scatola acustica» (dizione di Mandel’stam) del fruitore o del lettore (inteso in senso sociologico). Non si capisce nulla della poesia di Mandel’stam se non si tiene ben fermo il criterio orientativo della sua poesia: la ricerca di un «nuovo» interlocutore e di un «nuovo» «sistema architettonico» della forma-poesia. Ecco qui spiegato il grande interesse che sul poeta russo esercitò l’architettura, da quella semplice ed elementare dell’alveare delle api, fino alla complessità delle facciate neoclassiche di San Pietroburgo, fino allo studio della stratificazione tettonica dei «sassi» trovati a Koktebel, sulle rive del mar Nero, nei tardi anni Trenta, che gli dischiuderanno i segreti della «costruzione» della Commedia dantesca. La ricerca di una nuova configurazione del sistema simbolico coincide con la presa d’atto della scomparsa del mondo in cui il poeta era ancora inserito in una società dove la comunicabilità del suo «messaggio» non era affatto posta in predicato. Insomma, alla fin fine un problema apparentemente secondario ed astruso come quello dell’«interlocutore» coinvolge e trascina con sé quello ben più complicato della nuova configurazione del sistema simbolico in poesia.
A me sembra che qui Pedota abbia toccato uno dei nervi scoperti della poesia italiana del Novecento: quanta poesia it. può rientrare nel concetto di «poesia tridimensionale»? A me sembra quasi zero. E non è questo uno dei ritardi storici della poesia it. rispetto a quella di altri paesi?
Caro Ennio,
quando Pedota parla di «das Wort, die Sprache, die Sage», credo voglia intendere che il mio linguaggio poetico è costruito con i materiali di tutti e tre i modi di intendere il linguaggio (poetico e non), credo, in quanto ormai Pedota non è più tra i vivi. E anche quando parla di «Ereignis», l'Evento da cui muovono i personaggi del mio "Paradiso", sono i momenti in cui la Storia richiede loro l'azione, la lotta in un punto preciso dello svolgimento della Storia degli uomini. Il senso del discorso critico di Pedota non è affatto contemplativo, come non è contemplativo l'atteggiamento degli innumerevoli personaggi che abitano le mie opere (dove non vi si trova mai l'«io»). Al di là della terminologia heideggeriana a me pare che Pedota capovolga, con la sua applicazione concreta, il modo passivo invalso presso i critici epigoni di adoperare le categorie heideggeriane, e lo fa appunto in termini materialistici! Quindi è un Heidegger rivoltato quello che Pedota impiega con un procedimento di traduzione materialistica delle sue categorie...
a Francesca Diano, Ivan Pozzoni e altri di buona volontà,
dico che l'unico modo per fare argine di fronte allo stragrande numero di letterati riuniti in fratrie e clan è quello di mantenerci integri e liberi da ogni forma di monetarizzazione e di scambismo... una sorta di comunità dei migliori e di leali... perché, non c'è dubbio, Pedota era una persona che non si è mai piegata alle regole del gioco delle fratrie e dei complimenti "virtuosi". Anche caratterialmetne era spigoloso, non era affatto disponibile ai commerci sottobanco.
Rita Simonitto 06.05.12
Non conosco il poeta Mandel’stam ma prenderei come spunto il pensiero che di lui ci propone Linguaglossa a proposito dell’*eclisse dell’interlocutore*: “il poeta russo indicava nell’interlocutore il problema centrale della poesia del Novecento. La poesia moderna aveva, per il poeta russo, perduto il proprio «interlocutore» (concetto da non identificare e appiattire con quello sociologico di «pubblico»), e questa perdita avrebbe condotto la poesia moderna nel vicolo cieco della «scatola acustica», nel «laboratorio per impagliature» della tarda poesia del «simbolismo»”.
E, di seguito, “non c’è destinazione senza destinatario, come non v’è destinatario senza interlocutore, essendo questi l’obiettivo ultimo, e quindi più importante, del proprio lavoro di poeta”.
Credo che questa perdita abbia molto a che vedere con la trasformazione dell’individualità, che si è ‘persa’ e confusa nell’individualismo numerico: ci differenziano i codici (da quello fiscale a quello sanitario a quello bancario e via via) ma non siamo differenziati noi come persone dotate di una individualità. Essa si dovrebbe configurare tramite relazioni in ‘orizzontale’ (con i pari di cui vengono colte le differenze) e in ‘verticale’ (con i padri, con chi detiene il potere, con il passato – la Storia -, con ciò che è dato e che non può essere manipolato a piacere. Il confronto con i limiti, in poche parole, che può farci sentire ‘in-potenti’).
Pedota, parlando del critico scrive “il critico è oggi un controsenso, una controfigura del museo irreale della cultura del conformismo, un don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Un intellettuale monodico e monadico, senza alcuna «verità» da indagare”.
Il critico autentico è oggi (al pari del poeta) rimasto senza interlocutore.
Ma anche l’editore, parlando del lettore, sostiene “Per il lettore moderno il bello, l’estetica, non coincide con la cultura ma coincide con quello che gli serve per vivere meglio. tende dunque ad avere un rapporto im-mediato con l’arte, un rapporto personale. Si serve del critico, quando lo fa, per avere una traccia, una chiave per aprire l’opera, e poi va avanti da solo, congettura da solo e deduce quello che gli pare e che gli serve, pregandosene altamente del giudizio del critico”. Nello stesso tempo, questa ‘cosiddetta’ cultura non ostacola, non osteggia l’idea di questo tipo di lettore ma lo asseconda in un perverso gioco di rimandi e di conferme.
O Linguaglossa che afferma: “ C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica…. c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, …”.
Che fare in questo panorama che, come Francesca Diano scrive è “frutto non solo del ventennio di berluscoma maligno, ma di molto altro che l'ha preceduto e che ha costituito un ottimo terreno di coltura”.
Che cos’è quell’ “altro che ci ha preceduto”? Qui cala il velo della cataratta sui nostri occhi. Perché – chi in un modo e chi nell’altro – c’eravamo anche noi in quella pre-cessione. Noi, quando ci sentivamo “l’ipse dixit” della situazione scippandola ‘di diritto’ (ma quando mai!!!) a chi ci aveva preceduto, senza voler passare attraverso il conflitto intergenerazionale. Così abbiamo azzerato ogni possibilità di confronto con le diversità, producendo un conseguente appiattimento di massa. Si nega il conflitto, si nega la crisi e si nega anche la possibilità di critica.
[continua]
Giusta la posizione di Linguaglossa : “Quando ero più giovane avevo una formazione marxiana, adesso non so, seguo sempre il mio istinto quando leggo un libro. Mi considero un eclettico. Ogni volta che leggo un libro mi impongo la norma di mettere da parte tutte le mie precedenti convinzioni estetiche. Credo che chi voglia fare critica oggi debba avere il coraggio di sottoporre le proprie valutazioni a costante e quotidiana autocritica: il mondo è sempre nuovo e offre una grande quantità di cose nuove apparentemente inspiegabili se le guardiamo con gli occhiali che ci siamo costruiti”.
Ma se seguiamo l’istinto, o l’eclettismo, mantenendo come unica ‘barra’ la quotidiana autocritica e accantoniamo come inservibile ciò che invece andrebbe messo tra parentesi in una epoché husserliana, per essere ripreso se e quando necessario, diventa più facile cedere a quanto descrive Mayoor: “Ci stiamo abituando alle immagini in movimento, alle comunicazioni brevissime, alle spiegazioni teoretiche in nuce, alle emozioni dovute a contatti rapidi e sensoriali, intellettivamente impreviste, che scuotono nell'immediato. Cambia la velocità d'apprendimento, la velocità del pensiero. Si è formata un'anticamera mediatica dove è possibile sapere di tutto, e chi lo vuole passerà poi all'approfondimento ( se ha la fortuna di trovare i testi che gli servono).”
….. L'élite culturale oggi vuole essere popolare, è volta in questa direzione, ne ha i mezzi e non è sempre vero che manchi di cultura”.
“L'élite culturale oggi vuole essere popolare…” : gli errori del passato, quando precipitano nel presente, non si mostrano mai con le stesse fattezze. Il mito di Proteo, che cambiava continuamente forma e non si lasciava mai catturare fintantoché Menelao (*con cuore costante*) non lo mantenne forte a terra, ce lo insegna. Ci insegna, in questa società proteiforme, ambigua, per-versa quanto ci sia bisogno di tenere i piedi per terra, la terra del “pensiero critico e dei ‘ragionamenti’”, come dice Ennio Abate.
Chi ha dato scacco matto alla ragione? Chi ha irriso Goya, per il suo “il sonno della ragione genera mostri”? Alla ragione si è sostituita l’emozione, non integrata, ma sostituita a piè pari. Evviva allora le emozioni a go-go; oggi è tutto un parlare di emozioni, anzi, di “emozzioni”. Sono invece le emozioni che devono essere messe in sonno, anzi, per la precisione, in sogno, per poter essere sognate, elaborate e utilizzate come utili strumenti anziché propagandate come le sole vere e genuine espressioni del soggetto.
L’emozione non tollera ‘critica’, perché la critica appartiene al campo del razionale. Essa, invece ‘è’, appartiene al campo del soggettivo più arcaico, più in-fans. Quindi meno suscettibile alla critica. Vedi anche il detto “Non è bello quello che è bello (universale), ma è bello ciò che piace (soggettivismo)”. Poco diverso da “Ogni scarrafune è bbello ‘a mamma soja”.
E non questo il paese delle mamme?... Ma qui significherebbe inoltrarsi in un ginepraio che, oltre ad essere spinoso, ci porterebbe fuori tema.
I ‘vecchi’, oggi – a differenza di quelli di ieri – non amano essere contestati dai giovani, non accettano il conflitto generazionale. Vorrebbero lavorare in amicizia.
Verrà il tempo che, eventualmente, darà loro ragione… Ma non è il tempo che deve fare chiarezza. Siamo noi. Quelli che, per fortuna generazionale, hanno conosciuto le differenze, le lotte. Il tempo futuro apparterrà a quelli che ci saranno domani: sta a noi difendere le nostre storie e le nostre memorie di modo che il tempo futuro (che tende a vincere su quello passato) non trasformi le memorie in macerie.
Così non si fa la sana ‘meglio gioventù’, bensì quella espressa nel film “La meglio gioventù”, quella che, con il beneplacito dei ‘vecchi’, tradisce il suo compito di portare il testimone, tradisce impunemente la Storia e la memoria.
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[continua]
Non “si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso lo stile lapidario” (Linguaglossa).
O, se si va (dappertutto), si sa che si sta facendo quella scelta e non altra. E’ una limitazione comunque. E dovrei comunque confliggere con questa limitazione, non far finta che non ci sia.
Il conflitto negato, non visto, non è che scompare, rimane ed è più micidiale, come esprime bene la bella poesia di Milosz, pubblicata su questo Blog.
I. Pozzoni propone che, se la ragione ha subìto scacco matto, bisogna buttare via la scacchiera… “perché si continua a giocare con regole che cambiano più velocemente delle mosse/strategie di gioco”.
Ma buttare via la scacchiera significa dare partita vinta. La scacchiera è anche mia ed è questo spazio anche mio che devo difendere.
O facciamo come quei politici che minacciano di andarsene da questo paese se….ecc.ecc. e poi rimangono incollati alle loro poltrone anche se traballanti?
Ennio Abate ad un certo punto dice: “Resto dell’avviso che si impara anche *studiando* i nostri nemici”. Questa posizione è molto importante perché veicola la curiosità che fornisce una propulsione creativa ed evita gli appiattimenti.
Impariamo, sì, ma non facciamo come loro.
Se loro ci silenziano, noi ci silenzieremo (Luigi Manzi: non pubblichiamo più); se loro ci annullano nelle nostre identità, anche noi lo faremo, saremo soltanto numeri, indistinti: solo le nostre capacità ci faranno emergere dall’anonimato. I. Pozzoni: “L’anonimato non si integra nelle logiche consumistiche di mercato”.
I. Pozzoni, descrivendo il progetto di Demokratika, si incammina a ricreare, sulla strada dell’arte, una comunità del dialegesthai, del legame interumano, in direzione della ricostruzione dell’uomo e dei valori, attraverso un esperimento di epigraficità, conformazione e difformazione insieme, volto ad annullare le differenze e a rendere anonimi testi che, lontani da una concezione aristocratica dello stile, dovrebbero scuotere i destinatari unicamente attraverso i loro contenuti
E, anche in Frammenti ossei utilizza come correttivo l’idea dell’epigraficità, propria dell’arte aedica, o trobadorica, sconnessa ad ogni riferimento narcisistico al nome dell’autore. Frammenti ossei dipinge sui muri di una antologia, come graffiti sui muri dei bordelli di Pompei, istantanei messaggi di esistenza, indici della fragilità umana, condannata a restare senza nome» [I. Pozzoni (a cura di), Frammenti ossei. Antologia Poetica, Villasanta, Limina Mentis Editrice, 2011]
Di fronte a questo desiderio di “annullare le differenze e [di] rendere anonimi i testi” e degli “istantanei messaggi di esistenza, indici della fragilità umana, condannata a restare senza nome”, mi verrebbe da rispondere in veneto (non sono veneta e quindi ci saranno errori ortografici): “ma benedeto dal Signôr, xe proprio cussì che i ne gà ridoti” (“Ma, benedetto dal Signore, è proprio così che ci hanno ridotti”).
Allora perché clonare la realtà dato che ce l’abbiamo tutti sotto gli occhi?
E, a proposito di interlocutori, non sarebbe meglio relazionarsi con degli interlocutori presi nella loro interezza e non con frammenti (ossei) di essi?
[fine]
RitaS.
Per Ennio:
Ciò che miriamo, con Limina mentis, è a una resistenza senza forma (il contrario esatto di una resistenza senza contenuti). Gli operai di lotta continua negli anni settanta, non conoscendo bene le dinamiche della legge di Hume, con l’affermazione «[…] siamo tutti delegati […]» intendevano dire «dovremmo essere tutti delegati». Io con «siamo tutti movimentisti» intendo dire, con ironia, essendo umorismo, ironia, nella pregevole lezione di Guareschi, forme di resistenza bianca, «siamo tutti movimentisti», in un mondo che ci costringe a muoverci anche se non ne abbiamo nessuna voglia.
Nell’antologia anonima (io) accetterei chiunque mandi materiale, leggendo, com’è mia abitudine, ogni testo, anche a mo' di arricchimento individuale. Fare cultura è anche arricchirsi (metaforicamente), e fare arte, insieme, è anche includersi reciprocamente in una comunità di artisti. Sinceramente, non ho nessuna capacità / velleità di integrare voci nella "comunità guardaroba" dell’arte istituzionale, non avendo nessun ruolo istituzionale, e nessuna smania da guardarobiere. Rimarremo marginali? E chissenefrega! Più che ai nostri, meritati, dieci minuti di celebrità, mireremo ad una vita intera d'emarginazione. Magari ci scopriranno dopo morti (e, come scrivo, vedremo di farci seppellire col cappotto).
Cosa serve discutere di rapporti di forza a chi non ha nessuna forza?
Per Rita:
«Ma buttare via la scacchiera significa dare partita vinta». Dipende dove butti la scacchiera! Davanti a uno scacco matto, vedo un’unica ulteriore alternativa: stare a guardare, all’infinito, lo scacco matto. «Se loro ci silenziano, noi ci silenzieremo (Luigi Manzi: non pubblichiamo più); se loro ci annullano nelle nostre identità, anche noi lo faremo». No: se loro ci silenziano, noi li silenzieremo; se loro ci annullano, noi li annulleremo.
«Allora perché clonare la realtà dato che ce l’abbiamo tutti sotto gli occhi?» Non clonarla a noi: farla sperimentare a loro.
«E, a proposito di interlocutori, non sarebbe meglio relazionarsi con degli interlocutori presi nella loro interezza e non con frammenti (ossei) di essi» In un mondo che ci muove, ci scuote, ci chiede costanti accelerazioni, sfido chiunque a conoscere qualcosa nella sua interezza.
Ennio Abate a Ivan Pozzoni:
Capisco che ami i paradossi e spiazzare i tuoi interlocutori. Ma di questo passo, troverai sempre uno che a una tua affermazione ("Magari ci scopriranno dopo morti"), ti risponderà, adottando il tuo stile: E chissenefrega!
Quanto a "Cosa serve discutere di rapporti di forza a chi non ha nessuna forza?", ribatterei: Non è vero che non si ha proprio NESSUNA forza. E' vero che le forze esistenti realmente sono confuse e disperse. E si potrebbe tentare di riorganizzarle. Si riuscirà mai più? No lo so. Ma si può ritentare.
Quanto a quel "mireremo ad una vita intera d'emarginazione", perché fare tanta fatica, se
l'emarginazione ce l'hanno già imposta?
Rita Simonitto
@ I. Pozzoni
A proposito del senso che do agli “interlocutori, presi nella loro interezza e non con frammenti di essi”, mi tornano molto utili queste frasi – spezzoni di frasi, ossificate frasi, lapidarie frasi - di I. Pozzoni:
*in un mondo che ci costringe a muoverci anche se non ne abbiamo nessuna voglia….
Cosa serve discutere di rapporti di forza a chi non ha nessuna forza?...
Se loro ci silenziano, noi li silenzieremo; se loro ci annullano, noi li annulleremo….
Non clonarla a noi: farla sperimentare a loro….
Sfido chiunque a conoscere qualche cosa nella sua interezza….*
Oltre alla contraddittorietà interna che esse presentano (infatti è un po’ difficile proporsi di annientare qualcuno se poi non c’è la forza per farlo), non è quello il problema: guai se non vivessimo delle (e nelle) contraddizioni! Il problema sta nel fatto di scambiare la parte per il tutto, isolare un pensiero e trasformarlo in reggitore dell’universo mondo. Sarebbe come se valutassi il pensiero di I. Pozzoni, che ritengo ben degno di valore e rispetto, a partire da queste espressioni che, a dir poco, mi sembrano un po’ infantili. E dubito molto che I. Pozzoni sia infantile! Certo, è vero (?!) che Davide sconfisse Golia, è vero che un piccolo granellino di sabbia può bloccare un meccanismo molto complesso, ma non possiamo confondere la possibilità con la probabilità. Possiamo allora aspettare? “Rimarremo marginali? E chissenefrega! Più che ai nostri, meritati, dieci minuti di celebrità, mireremo ad una vita intera d'emarginazione”. Bah!
“Ciò che miriamo, con Limina mentis, è a una resistenza senza forma (il contrario esatto di una resistenza senza contenuti)”: ecco, non sono una kantiana doc ma, sempre a proposito di interlocutori, presi nella loro interezza, ritengo importante questa espressione di Kant che suona pressappoco così: senza la forma il dato è cieco e senza il dato la forma è vuota.
E, poi, la scacchiera non gliela lascio, no!
R.S.
Caro Giorgio Linguaglossa, come immagino tu abbia visto e capito, da quanto sai di me, la mia vita è stata improntata da sempre a questa integrità e libertà, coi prezzi che questo chiede in un paese come il nostro. Ma sono prezzi che, pur duri, ho sempre pagato volentieri e seguito a pensare che ne valga la pena.
Io stesso risponderei: chissenefrega.
C'è differenza tra vita da carcerato e vita da anacoreta?
Per Rita:
C'è l'esempio illuminante che (almeno noi) siamo condannati alla frammentarietà. Sono disponibili a tutti, sempre, solo frammenti dei miei discorsi, che, in quanto frammenti, sono vittime di contraddizione. L'interezza del mio discorso, con le debite definizioni di "forza" o "annullamento", non trasparirà mai, in un medium molto "veloce" come internet, o in televisione, o nei dibattiti, nei readings, nei convegni. Passando frammenti di messaggi, ognuno è in grado di smentire tutti: e tale situazione di fatto, non reversibile, possiamo: a] ignorare o b] "sfruttare". Che cos'è, inoltre, una contraddittorietà interna? Interna a cosa? Al sistema di frammenti da TE organizzato? Perciò non considero significativa l'attività del critico, che pretende di dare ordine al frammento, attribuendovi, a posteriori, valore "logico".
Non credi che in guerriglia, il dhar-i-man (figura stabile), cioè la forma, sia un bagaglio troppo rischioso da mantenere, sopratutto dove il "nemico" sia immateriale? Il tuo "Possiamo allora aspettare?" non è forse un grido di battaglia?
P.s. Non mi fraintendere: non chissenefrega, mai chissenefrega alle argomentazioni altrui, che devonio essere sempre scavate, con analisi, retorica, maieutica (da cui l'impressione di "spiazzamento" o "paradosso"). Chissenefrega alle sentenze di condanna (e anche alle famose sentenze di condanna ad essere spazzatura).
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