Vorrei riprendere su
questo nostro blog ( in più spirabil aere
spero) la questione che Giorgio Linguglossa ha sollevato sul Poesia 2.0 (qui). Per
approfondirla e diradare l’offuscamento ideologico abbondante tra i commenti
letti. Un certo mio dissenso si rivolge
anche a Giorgio, ma so di potermelo permettere. Del resto egli ed altri/e sanno
che possono permetterselo con me. Vediamo se ci si intende di più …Mi scuso se negli appunti ci sono refusi e qualche incongruenza, ma ci tengo a pubblicarlo subito. [E.A.]
1.
Ha
avuto coraggio Giorgio Linguaglossa a sollevare il nodo in questione.
E
specie in questo momento, in cui Milo De Angelis è presentato come “il più
grande poeta vivente italiano” e a Fortini viene negato persino un Meridiano
della sua poesia, concesso invece a molti altri.. (Cfr.qui)
2.
È
un grande nodo generazionale ( tra un “padre del ‘68” e quei “Fratelli
amorevoli” che ebbero prima a che fare col ’68, poi col il “ritorno al privato”
e alla “parola innamorata”), politico e di storia della poesia, che andrebbe
indagato al di là dell’aneddotica apologetica che vorrebbe Fortini mentore del
giovane De Angelis e poi maestro
superato dall’allievo più giovane e geniale (quasi un ricalco del rapporto tra
il giovane Nietzsche e il suo maestro filologo evocato da Fortini in uno
scritto di Insistenze…). Ma
sollevarlo oggi in un post, presto
invaso da fans più o meno agguerriti di De Angelis, è stato
controproducente e insoddisfacente -
credo - per lo stesso proponente. Perché la sua proposta critica e ben presto stata affondata e deviata in una
sterile diatriba tra fans di De Angelis (molti) e qualche obiettore.
3.
Linguaglossa,
contrapponendo nettamente Fortini a De Angelis, notava in quest’ultimo un
prevalere di «rapporti predicativi (aggettivali)» rispetto a «quelli
operativi», ovvero, «sintattici». Detto in parole meno tecniche, riprendeva una
tesi di Mengaldo, che appunto ha sottolineato come elemento distintivo di
Fortini rispetto alla lirica novecentesca italiana proprio questo suo
“ascetismo aggettivale” (controllo della soggettività del linguaggio) per dare
il massimo risalto alle cose, ai sostantivi. (Andrebbe ricordato, cosa che
Linguaglossa in questa occasione ha forse dato per scontato, lo sfondo teorico
marxiano che corroborò tale poetica fortiniana).
Linguaglossa
ha dato un giudizio nettamente negativo
di questo successo nell’ultimo trentennio presso poeti più giovani e presso il
“pubblico della poesia della poetica deangelisiana. Se confrontata poi con
l’eclisse di quella fortiniana (minoritaria, va detto, già lui vivente), vuol
dire che essa risponde bene ( come
quella della Merini per fare un altro esempio) al pathos sentimentale
coltivato dal pubblico ampio della poesia (dal ceto medio poetico). In poesia esso vuole - semplifichiamo un po’
- aggettivi e non sostantivi, emozioni e
non pensieri (o, con Linguaglossa, si ritrova più a suo agio nel principio aggettivale che nel principio sostanziale e sostantivale).
4.
Certo,
per non apparire critici bacchettoni e “invidiosi”, questo successo di De
Angelis andrebbe spiegato più a fondo e inquadrato appunto nel clima
postmoderno dominante ma anche nelle sue lontane radici culturali (un certo
niccianesimo, l’orfismo, l’ermetismo) che in Italia sono profonde. Come
andrebbe spiegato perché ««linea di resistenza difensiva» fortiniana ( e non solo) sia
«rimasta inascoltata».
Linguaglossa non lo fa a sufficienza (in questa
occasione) ed è un punto debole del suo discorso. Ma i suoi interlocutori e
avversari giocano davvero duro ( e a volte sporco) e sembrano non avvedersi che
egli giuidichi quella di De Angelis una «poesia di indubbia caratura». Non gli
basta. Voglio l’inchino al nuovo Vate.
5.
Linguaglossa
non lo fa a sufficienza, perché, a mio
parere, a lui preme di più fare un discorso critico generale sulle poetiche
(cioè su quella somma di suggerimenti, espliciti o impliciti, che influenzano la
produzione poetica e la ricezione dei lettori). Ma insiste troppo sulle “responsabilità” del
solo De Angelis lasciando in ombra la complessità delle cause che hanno portato
alla crisi attuale della poesia.
Certo
in una ottica “militante” è anche un
segnale chiaro denunciare chi, con la sua poetica “aggettivale”, ha ridotto «
gli spazi di manovra e di affermazione di una poesia «diversa» che si
richiamasse alla via fortiniana del principio sostanziale rispetto a quello aggettivale». Ma così
la discussione si restringe al piano estetico-lingustico; e sottolineare con
troppa insistenza quanto l’aggettivazione di De Angelis sia «incantatoria,
convalescenziale, febbricitante» o una «ricerca dell’originalità a tutti i
costi» o che siamo di fronte ad un abuso
di «metaforismi» (o più semplicemente delle metafore) non intacca lo spirito
“superstizioso” con cui gli estimatori innamorati di De Angelis reagiscono.
Essi in lui vedono e vogliono vedere ben altro (non valendo per lui le
categorie che valgono per gli altri poeti, come appare bene nell’intervento di
Azzolini).
6.
Attenzione.
Linguaglossa non si spinge a dire che la poesia non debba raffigurare
sentimenti e emozioni. Non può farlo.
Sarebbe un errore se lo facesse. Ma se ha giustamente citato Fortini («La
poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non
quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della
commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».) non si è
fermato a sufficienza sulle ragioni politiche che fanno dell’atto lirico
(deangelisiano, in questo caso) una conferma del sistema. (Quale sistema? Solo
quello poetico?)
7.
E
questo mi pare un’altra debolezza della sua critica. Egli trova «piatto» il modo con cui De Angelis raffigura
sentimenti e emozioni, trova, «scontata
e prevedibile» e abbondantissima ormai la « inversione dei nessi logici e
causali del linguaggio strumentale» ( l’es. del verso «Il citofono chiede
ancora la tua voce») , che ha come effetto indubitabile «un isterilimento della significazione». Ma
questo isterilimento della significazione, che gli sta a cuore (e stava a cuore
anche Fortini) non è un fenomeno che riguardi solo la poesia e gioverebbe
estendere lo sguardo alla politica, alla società, all’industria culturale, alla
società dello spettacolo per vederne la tremenda portata. De Angelis, insomma, a me pare uno che ha
ceduto a questo clima, vi si è adattato e le sue responsabilità di poeta,
secondo me, andrebbero indagate anche sul piano etico, ma soprattutto politico.
Capisco che quello che è diventato uno stile «quasi inconsapevole da parte dell’autore milanese», l’abito fisso che De Angelis indossa in poesia, fatto di «inversioni, ellissi, accentuazioni, iperboli, ablativi al posto di nominativi, e viceversa» possa non piacere al «lettore intelligente», che così respinge « un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo in stato di dormiveglia» e perché è vero che «il mondo» così diventa «più lontano e incomprensibile». Ma questo non basta a spiegare il successo di De Angelis e rischia di non vedere che esso si fonda su ben altro. Direi su una Tradizione.
9.
L’obiezione
che farei a queste osservazioni di Linguaglossa sulla poesia di De Angelis è la
seguente: esse reggono se oggi (in poesia e non solo) l’unico «mondo» possibile
fosse quello che raggiunge sempre e
immediatamente la significazione.
Non
è così e non è più così da molto tempo.
Non
si può trascurare che un secolo di psicanalisi ci ha mostrato, l’esistenza di
un mondo psichico, in cui i parametri
logici non sono dominanti, che segue altri parametri. (Si ripensi a quel che
Francesco Orlando diceva su Matte Blanco e ho riportato in un vecchio post…) Non si deve trascurare
che, comunque, con un faticoso e intelligente lavoro d’interpretazione (dal
pionieristico L’interpretazione dei sogni
di Freud) certi segni ellittici, invertiti,
ecc. possano significare.
Si
può cioè considerare che esiste, se non
un rapporto stretto (o addirittura deterministico) tra notturno e diurno, tra
sogno e quello che comunemente chiamiamo realtà (quella del senso comune
pratico, che ci guida nella vita
quotidiana; ma anche quella delle scienze, che di fatto anch’esse sono spesso
in rottura con questo senso comune …), una sorta di indefesso tragitto di un pensiero “da contrabbandieri”
dal notturno al diurno e viceversa. Esso
riporta alla luce i segni del sogno e, grazie al lavoro dell’interpretazione,
può arrivare ad un certo tipo di significazione ( starei per dire anche di
nuova significazione), non limitiandosi più alla netta bipartizione
razionale/irrazionale.
Per
cui - ne deduco - anche quello che in De Angelis ( e non solo in lui o nei
poeti di questa tradizione) si presenta effettivamente ed è forse senz’altro «
un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo
in stato di dormiveglia», non solo può affascinare o attrarre poeti e lettori,
ma può e deve essere sottoposto ad una lettura che ne rilevi i significati a
prima vista reconditi o solo “irrazionali”.
Tutto
un discorso teorico andrebbe qui fatto, scomodando Lukács, denigratore ad es. dell’”onirico” Kafka e
Adorno estimatore delle avanguardie storiche…
10.
Linguaglossa,
insomma, fotografa ottimamente la differenza tra Fortini e De Angelis. E se si
vuole la sua proposta di poetica è un ritorno alla significazione fortiniana
(ma non so se ne accoglie anche l’impostazione marxiana, che ne è il fondamento
di pensiero..).
Ma non riesce a fare il passo avanti successivo
e spiegare perché De Angelis ha avuto successo e Fortini è in eclisse.
Il
suo discorso dovrebbe cominciare da qui. Altrimenti si blocca di fronte a
questa “deviazione” dalla giusta “linea fortiniana”, senza capire che cosa essa
può significare di per sé ( e non dico
solo in bene, magari anche in male…).Certo una poetica come quella di Fortini
sarebbe “migliore”, ma perché un autore
pur dotato come De Angelis l’ha respinta? Solo per “odio del padre”? Solo
perché ha annusato i tempi cambiati ( da La
parola innamorata in poi)
11.
Linguaglossa constata il “cambio d’epoca” («…noi
oggi sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti. Noi sappiamo che nell’epoca
del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle
piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande
narrazione» si è risolta in una «Piccola narrazione», nella narrazione di
piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto
e la rivivibilità del «privato») ma sembra non poterlo spiegare e la ripresa
della significazione fortiniana appare nostalgica e volontaristica. Come se non tenesse conto
delle condizioni “reali” che hanno favorito l’imporsi della poetica di De
Angelis, come se ne sottovalutasse il
potere suasorio, l’aderenza maggiore al QUESTO presente, ma anche la forza che
gli viene dall’appoggiarsi ad una secolare
e maggioritaria tradizione.
12.
Il
commento di Manzi mi permette di chiarire questo punto. Considerare
fondamentale ( cosa su cui facilmente sorvolano gli “innamorati” di De Angelis «la questione poesia aggettivale/ poesia
sostanziale» dovrebbe significare anche prendere atto di una spaccatura in poesia tra poesia più “soggettiva” e che pone al centro
l’io autointerrogantesi e poesia tendenzialmente più “oggettiva” e che pone al
centro un noi possibile(altrettanto ma diversamente autointerrogantesi).
Non
è una spaccatura recente. Se vogliamo
possiamo risalire alle famose due linee
presenti nella storia della poesia italiana: quella petrarchesca e quella dantesca, continuamente
ripropostesi fino ai nostri giorni.
Non
è affatto, dunque, una questione recente, una «antinomia» in cui si
dibatterebbe soltanto «la poesia
attuale».
Avendo
lavorato in queste settimane agli Atti del Convegnodi Siena «Dici inverni senza
Fortini 1994-2004»), ho a portata di mano una citazione di Tito Perlini che mi
pare pertinente. E la ripropongo qui. A
proposito della contrapposizione tra Leopardi (ma si potrebbe sostituire con
Petrarca…) e Dante, su cui Fortini aveva tenuto una conferenza al Piccolo
Teatro di Milano ( negli anni Ottanta, data da recuperare…), Perlini così
riassume:
«Questa
contrapposizione lui [Fortini] la spiegò così: preferiscono Leopardi coloro che
sono convinti che per conoscere il mondo - si ( p. 271) badi bene che qui c’è
un modo per alludere a tutta la figura del lirico moderno - bisogna prima
conoscere se stessi. A questo contrappose invece la convinzione, che emerge
dall’opera sterminata di Dante, secondo cui bisogna conoscere il mondo per
conoscere se stessi»
Ora
si può, a proposito di De Angelis,dimenticare che egli in quel filone
petrarchesco e poi ermetico in fondo si è immesso?
Non
mi pare esatto che Manzi scriva che « la fortiniana poesia sostanziale
ripropone la priorità della poetica rispetto alla poesia (il critico prima del
poeta!». Qui, come giustamente ha messo
in luce Linguaglossa, abbiamo, semmai,
due poetiche contrapposte. E non «la poetica» da una parte e la poesia
dall’altra. E, tra l’altro Fortini è poeta ( magari poeta-critico in modo
diverso da come lo è anche De Angelis, che mica è *soltanto* poeta) e non ha
mai proposto a nessuno di essere critico
«prima» del poeta.
13.
I
commenti successivi a me paiono del tutto appiattiti su questioni secondarie:
non mi pare che sia il solo De Angelis il responsabile addirittura
dell’avvelenamento dei «pozzi della poesia italiana», anzi della interruzione
delle «sorgive» (Ludovici); non mi pare che sia il solo ad essersi “spaventato”
della «civiltà industriale in fase avanzata» (Luciana Sanguigni); non mi pare
interessante, come è stato notato da vari, prendere una poesia di De Angelis,
esercitarvi sopra una critica “impressionistica” per dimostrare che vale o non
vale; E a proposito della “discussione da blog”, oltre a non condividere i toni da tifoseria o
vipereschi, c’è da notare secondo me l’inefficacia dell’inserimento di testi di
riflessione ( quello di Bertoldo, quelli successivi di Linguaglossa, quelli
inseriti in abbondanza da Nicola Borletti ( di Verdino, Aglieco, Casadei,
Isella, Antonio Porta): ciascuno di essi
richiederebbe un’attenta riflessione e discussione, ma in un contesto da blog e
di scontro tra estimatori e critici di De Angelis rischiano di essere buttati
sulla bilancia solo per averla vinta, non per ragionarci su. E del resto non
sono una risposta che abbia una qualche influenza sui commenti più accessi,
viscerali o tendenti all’attacco personale.
14.
Anche i commenti pacati e apprezzabili di
Bertoldo rischiano di smarrirsi
nell’intrico dei commenti “da rissa”. A me pare che Bertoldo sia giustamente cauto nel giudizio sulla poesia
di De Angelis. La sua produzione non è liquidabili in quattro e quattr’otto. Credo pure che abbia posto corrette
questioni ( il dubbio sull’autenticità della poesia di De Angelis), ma sia
estraneo alla questione posta da Linguaglossa, anche perché condivide con De
Angelis la “fonte romantica” come quella più autentica («La sottrazione salva
la scrittura, salva la conoscenza e universalizza l’una e l’altra nel
comprendere. Questa nostra dantesca e montaliana presbiopia consiglia dunque di
tentare, come i romantici, la comprensione, che si attua nello sfinire della
conoscenza». Qui c’è un punto di vicinanza o di concordanza di fondo, più che
di cedimento al fascino di De Angelis. Bertoldo, in fondo, privilegia (come De
Angelis) il legame eticità-poesia («quel vedere / sfioriti i versi e la morte»
(Storiografia) e «insieme diverremo quel pianto / che una poesia non ha potuto
dire» (Cartina muta). Conclusione che ripropone la sofferta eticità del poeta,
eticità che qui acquista, come in molti altri passi, quell’affettività che ne
evidenzia il profondo valore poetico») ed è meno propenso ad accogliere il
legame poesia-politica che Linguaglossa pur affronta su un piano, a mio parere,
ancora esclusivamente, estetico.
100 commenti:
Si hai ragione, Abate, sono cauto, come sempre la tua lettura è corretta e acuta, e non solo riguardo a ciò che dico io. Sono cauto ma molto attento ai pericoli insiti nelle scritture come quella di De Angelis (infatti attaccai in un articolo “Tema d’addio”), proprio perché l’assunzione etica, di per sé insufficiente alla poesia, non può disgiungersi dall’impronta dantesca, ovvero politica, per quanto più larvata della forma fortiniana.
Riguardo al discorso ‘monco’ di Linguaglossa, credo sia stata effettivamente una sua scelta, del resto Linguaglossa aveva già affrontato una questione simile in chiave più politica diversi anni fa in un saggio su Dante e Petrarca, quindi l’impostazione che ti auspichi non gli è aliena.
Roberto Bertoldo
@ Ennio Abate
il discorso è lungo e complesso per affrontarlo in un blog. Se leggi il mio penultimo commento a poesia 2.0 lì c'è una chiarissima liquidazione critica della poesia deangelisiana. Ma a me quello che sta più in mente è un 'altra questione, tutta politica (ovvero, di politica estetica). Ma ovviamente, su questo campo non vedo, se mi volto indietro, dietro di me molti generali, e neanche molti soldati... i più si sono rintanati nelle tricee per vedere che piega prende la battaglia e se darsi alla fuga o attendere la sospensione delle ostilità.
Credo opportuno, anzi necessario, che tu posti questo tuo commento anche su poesia2.0 per partecipare, in quella sede, da attore protagonista alla qerelle che si sta svolgendo. Come avrai visto c'è una regia dietro le trincee che utilizza letterati della domenica pomeriggio per tentare di infangarmi e di insultarmi. Le tentano tutte pur di mettere a tacere un pensiero critico.
Giorgio Linguaglossa
con «spostare il centro di gravità del discorso poetico» intendo qualcosa di molto complesso (: cambiare registro, voltare la pagina novecentesca, cambiare punto di vista (sguardo) e cambiare ottica (retina) per vedere più in profondità e con più chiarezza cose che una critica accademica e una critica acquiescente e benevola hanno invece ostacolato; occorre cambiare le categorie estetiche con cui siamo stati abituati a guardare alla «cosa» chiamata poesia.
Facciamo una ipotesi molto semplice e molto terra terra, facciamo un esercizio ginnico-mentale: mettiamo per un momento tra parentesi le vecchie e logore categorie tardo novecentesche dello sperimentalismo (con il suo epifenomeno: il post-sperimentalismo), della poesia lombarda (che rimane un fenomeno al 90% lombardo e non nazionale); mettiamo tra parentesi le poetiche tardo novecentesche fondate su una riutilizzazione del mito. Insomma, mettiamo tra parentesi tutto ciò che ci hanno detto e spiegato gli interessati, quello che risulterà è l'esistenza di un grande campo di autori (rimossi? dimenticati? devalorizzati? designati come minori? dei non allineati?) che vanno da Fortini con "Composita solvantur" del 1994, da Helle Busacca con la sua monumentale trilogia su "I quanti del suicidio", "I quanti del Karma" e "Niente di nuovo da Babele" degli anni Settanta; da Angelo Maria Ripellino con lo stile formidabile e inimitabile delle opere degli anni Settanta; ed arriviamo agli autori degli anni Novanta: Maria Rosaria Madonna con "Stige" del 1992, Giorgia Stecher con "Altre foto per Album", Giuseppe Pedota con "Equazione dell'infinito" del 1993 e "Einstein. I vincoli dello spazio" del 1995, fino a Maria Marchesi con "L'occhio dell'ala" del 2002 e "Evitare il contatto con la luce" del 2005; ah, dimenticavo: perché non rileggere l'opera della moglie di De Angelis, Giovanna Sicari? così presto caduta nel dimenticatoio?. Ho volutamente ricordato solo l'opera di poeti morti e dimenticati per evitare le facili accuse dei denigratori.
Siamo arrivati al secondo decennio del nuovo millennio ed è incredibile che si continui a riproporre la solita mappa geografica dei soliti autori noti. Quello che tocca fare è un lavoro di dissodamento della poesia nascosta e dimenticata degli ultimi decenni del Novecento, un lavoro immenso, che ho intrapreso in completa solitudine in mezzo a violente resistenze, a silenzi ovattati e a ostilità manifeste, con i miei libri "La nuova poesia modernista italiana" del 2011, "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) del 2012, lavoro che sarà completato con un libro in corso di stampa per la Società Editrice Fiorentina "Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea", dal titolo inequivoco. Certo, le questioni che affronto sono complesse e variegate e possono essere solo accennate in questa sede ma neanche riassunte se non rischiando di raccontare un sunto delle questioni semplficato e superficiale. In questa sede, però, mi sia concesso di spezzare una lancia in favore della poesia di un autore contemporaneo che ha anche preso la parola anche in questa rubrica: Roberto Bertoldo la cui opera (da "Il calvario delle gru" del 2000 a "Pergamena dei ribelli" del 2003 fino a "L'archivio delle bestemmie" del 2008) merita una attenta considerazione.
Direi, per concludere, che per un critico del contemporaneo è importante non il grado di consenso che riceve, quanto la quantità di semi e di germogli delle sue idee, le idee che riesce a trapiantare nel terreno asfittico della poesia. È utile ricordare che per questo mio lavoro ho raccolto una grande resistenza e ostilità, spesso hanno tentato il vilipendio e la calunnia, hanno tentato di circondare le mie idee con un cordone sanitario di silenzio, anzi, hanno tentato di ridurmi al silenzio mediante una aperta e dichiarata censura del mio nome e una occulta rete di denigratori e di letterati della domenica pomeriggio come Stefania Monti (che parla ovviamente a comando di una regia esterna).
Il resto è storia dell'oggi.
Giorgio Linguaglossa
Dante Maffìa nel saggio gentilmente ricopiato cita due poesie di «Millimetri» (1983):
Al timone di una goccia
ritorna
un calendario in
sangue di cicogne. E più tardi
- fino a chi – lo sparo risoluto
che mira.
Si conficcano lì, unghia, come
tu nella tua bianchezza
quando un rito purosangue
dichiara tempo
e ci sono sassi in un angolo
della viva”.
*
«Ma il pane nelle fermate
del terremoto non basta più e il ladro ha
una scarpa sola.
Così sia. Nella testa
sbranata da una primavera
porge il latte a chi
posseduto e l’ha rotto.
Con tutti i denari,
soffiando pari o dispari, un capogiro tornerà
tra i ferri vecchi. Allora
noi donne lo daremo, alla luce
E così commenta: «Millimetri”, è chiaro, è collocabile epigono d’avanguardia, ma per fortuna non rigurgita di scampoli. Assistiamo allo sfacelo del narrato in una frammentazione solo apparentemente analogica ma che invece mira a raccordarsi col ritmo degli eventi, con la vita e non vi riesce, se non per scansioni approssimative».
Ineccepibile.
Il problema della poesia deangelisiana si può riassumere così: il suo puntare tutte le sue fiches sulla roulette della «catarsi», delle «commozioni», dei «sentimenti»; su un dis-argomentare strutturale di enunciati privati di soggetto o di soggetti privi di enunciati predicativi. Il risultato è un linguaggio da carbonari con tanto di indiziati e di giuramenti segreti, risultato raggiunto attraverso il principio del «montaggio» e del fotomontaggio di enunciati dichiarativi, sentimentali, commotivi, febbricitanti, in bollizione (come bene ha scritto la Canciani) in sconnessione tra di loro, mediante salti mortali di enunciati dichiarativi e omissione di quelli argomentativi che sono il tessuto non solo della prosa narrativa ma anche della poesia, ché altrimenti diventerebbe un idioletto comprensibile solo agli iniziati alla carboneria. Il risultato è un coacervo irto e frastagliato di espressioni dichiarative intenzionalmente prive di calcestruzzo, di legamenti sintattici e semantici, enunciati grammaticali che alludono ad un «protocollo di sensazioni» e a un «cifrario di quadri commotivi»; un abecedario di quadretti sentimentali infirmati tra il tu e l’io che adombra e ammicca a chissà quali ansie adolescenziali e di vissuti non mai vissuti prototipiche di una cultura di massa che vuole sognare la propria libertà nei termini di una super stilizzazione metamorfica che confonde empiria e finzione poetica; e che così precipita nel buco senza fondo dell’incomprensibilità. Ma l’incomprensibilità non equivale a profondità né equivale ad autenticità. Qui sta il punto. La poesia deangelisiana abbagliata dal suo successo d’esordio, ha poi seguitato a percorrere la via di un certo maledettismo piccolo borghese tutto moquettes e disperazione prefabbricato e fittizio, dis-autentico, falso.
È venuto il momento di dirlo con tutta chiarezza: questo tipo di poesia non ci interessa, è morta e sepolta con i suoi piccoli trucchi, i suoi alambicchi e la sua distilleria del «dolore». Non è autentica. Non è vera. È pasticceria del «dolore», è finta, esagerata, scomposta, posticcia sempre fuori dalle righe, come ad intendere una sua invulnerabilità e inaccessibilità quando invece è semplicemente dis-autentica e, a tratti, addirittura buffa per gli eccessi da setta segreta, da carboneria che coltiva «in vitro» per i suoi lettori di massa.
È una poesia di secondaria importanza che dobbiamo lasciarci alle spalle come una sciarpa ingombrante e inutile.
giorgio linguaglossa
Io ho un'ipotesi, molto modesta, molto terra terra, un po' da casalinga di Voghera, per quello che si vede in giro. Senza voler negare l'importanza del discorso critico, ma riassumendolo in parole da sempliciona, non sarà che i vari "maggiore poeta italiano moderno, contemporaneo, vivente ecc." siano semplicemente dei mediocri che, proprio per essere tali, non risultano minacciosi - anche intellettualmente - per chi detiene il potere editoriale, culturale, politico e dunque sceglie personaggi facili da gestire, da elevare a Vati (il Poeta La Qualunque) senza che questi mettano in discussione il potere che li controlla? Senza che questi minino dall'interno quelle fragili strutture d'arrogante ignoranza che hanno invaso ed eroso come una ruggine corrosiva la cultura del nostro paese?
Non so, è solo un'ipotesi mentre preparo le verdure per una bella caponata di melanzane.
Per la logica esiste, ci deve essere, c'è un confine estremo che separa, per un nonnulla, la poesia dall'idiozia. Con la logica è facile creare nuovi pre-giudizi, specialmente se si ha l'obiettivo di rimuoverne di vecchi. Qualora non bastasse si può far ricorso a certa baldanza futurista, verso la quale provo comunque della simpatia, come: "È venuto il momento di dirlo con tutta chiarezza: questo tipo di poesia non ci interessa, è morta e sepolta con i suoi piccoli trucchi, i suoi alambicchi e la sua distilleria del «dolore»..."
E spunta d'improvviso un NOI, come uscito dal cappello a cilindro. Da lettore, mi diverte. Pensare che sono stato allevato nella commedia del brutto e del cattivo moderno, nella storia senza passato della periferia, e che ho colto nelle parole, grazie anche a Milo De Angelis, un tunnel per fuoriuscire dal significato senza perdere nulla delle proprietà visive della parola! Senza questo incontro probabilmente, amando la scrittura, mi sarei fermato all'aneddoto. Che poi la poetica esistenzialista di De Angelis si esprima meglio nelle minuzie piuttosto che nei grandi temi dell'esistenza, non so dire. Allude sì a grandi tematiche, ma in definitiva sembra più interessante perdersi lungo il percorso. Come nelle fiabe, il narratore sa incantare con le parole, e capisco che possa infondere il desiderio di giocarci ad oltranza. Pur credendo che la fascinazione non possa bastare, nondimeno m'aspetto che la ragione sappia fare altrettanto.
Comunque io nella neoavanguardia ci ho sempre sentito del pop ( in linea con quando scriveva nell'altro post Francesca Diano), non mi meraviglia per niente, e so che c'è un filo bizzarro, ma diretto, che unisce De Angelis a De Gregori. Le mie affinità con questa poesia non vanno oltre, ma un debito di riconoscenza sento di averlo.
mayoor
ah, bentornato Ennio! constatato una continuità evidente con quanto avevi scritto, mi pare a fine luglio, nel tuo "manifesto" della Poesia Esodante, particolarmente nelle aperture che s'intravedono in relazione al pensiero marxista ortodosso (ma che sto dicendo?). Mi riferisco a: "Non si può trascurare che un secolo di psicanalisi ci ha mostrato, l’esistenza di un mondo psichico, in cui i parametri logici non sono dominanti, che segue altri parametri" e via di seguito. Quindi c'è una ricerca introspettiva, che non ha mai smesso di crescere in questi anni, di cui si dovrebbe tener conto a proposito della polis e delle varie istanze sociali. Il punto se mai sta nella critica al pessimismo esistenzialista, che De Angelis ha rinverdito senza però uscirne fuori.
mayoor
…sono Laura Canciani di Roma, chiedo ancora una volta il permesso di commentare la poesia citata da Eraldo Affinati nella prefazione al libro di poesie di De Angelis uscito per Mondadori nel 2008, poesia contenuta in “Biografia sommaria”. Se l’ha scelta il prefatore ciò significa che la ritiene una composizione riuscita, e in tal senso farò dei commenti senza volare sulle nuvole e tirare in ballo Dioniso o Nietzsche o non so che altro ma cercando di rimanere con i piedi per terra, volando basso basso. Ecco la poesia:
… “C’è Donata De Giovanni?
Si allena ancora qui?” “Come no, la Donatella,
la velocista, la sta semper da per lé.”
Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
che trema lievemente, ma sorride. “Eccola, guardi,
nella rete del martello… la prego… parli piano…
con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.”
“Chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.
“La tenga lei, signore, si graffia le gambe…
… povera Donata… è così bella… Lei l’ha vista…”
“Forse il punto luminoso della pista
si è avvitato a un invisibile spavento, forse
quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:
era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio
e ha deciso di ospitare tutto il gelo”
“O forse, si dice, è successo quando ha perso
il posto all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte… per non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato… mezza Milano”
“Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo
quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore
c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla
come un’orazione nel suo corpo, di baciare
le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
e così all’improvviso si avvera, come un frutto”
“Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto
lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
desiderio – è così bella – e capiranno che la luce
non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da lei, la Donatella.”
È un raccontino, in chiave patetico-mielosa. C’è una «Donatella» che lavorava alla «Oviesse» (che fa rima con quella rima telefonata del verso successivo «piangesse»), ed è una operaia che è stata licenziata. Pare che questa signorina di Milano fosse brava nella corsa a ostacoli o che altro non si capisce, ma, insomma che fosse una velocista, e che fosse «bella». Insomma, ci sono tutti gli elementi del patetico e del nuovo feuilleton che tanto piace alle masse femminili che si abbeverano alle rubriche femminili dei rotocalchi femminili.
È un compitino da scolaretto, con quella inserzione oleografica del vernacolo milanese che mi fa letteralmente rabbrividire per il cattivo gusto di voler a tutti i costi intenerire il cuore del lettore e delle lettrici. E poi c’è l’istanza della «morte» che giganteggia in quanto non nominata ma soltanto evocata indirettamente ma in modo direi elementare con un procedimento da Sveva Casati Modignani… una morte in diretta che avviene fuori quadro.
Un compitino povero povero. E scontato. Con tanto di operaia per ammiccare al cuore tenero dei progressisti e con allusione alla crudele civiltà del capitalismo avanzato.
Davvero, non si poteva scegliere un compitino più infelice e modesto di questo. E qui, paradossalmente, sono costretta a prendere le difese di De Angelis il quale ha scritto cose migliori di questa, ma il fatto che il prefatore prenda questo compitino come exemplum della poesia del Nostro la dice lunga sul suo gusto e sulla sua qualità di critico.
Piena di retorica e di patetismo la poesia deangelisiana è magistra nel nostro tempo di straordinaria povertà intellettuale. Forse i giovani non se la sentono di dire pane al pane e vino al vino per non inimicarsi le gerarchie ecclesiastiche che fanno capo alla Mondadori ma io, alla mia età, non ho nulla da perdere e non posso certo unirmi al coro dei critici che acclamano questa poesia come uno dei vertici degli ultimi 40 anni; io vorrei suggerire un distinguo: sì, è uno dei vertici ma in basso della poesia italiana contemporanea.
Laura Canciani
il fatto e che la poesia del primo de Angelis puntava tutto sul principio del montaggio, puntava sullo choc. Ma dopo che lo choc ha perso ogni mordente, oggi, dopo 40 anni, si e scoperto che quella poesia che puntava sullo choc e sul montaggio, oggi mostra tutti i segni di “costruttivismo”, dell intervento attivo del soggetto. Oggi lo choc e diventato materiale indifferente e il costruttivismo che di quell effetto estetico faceva dogma invece suona lo strumento del piffero. Oggi e necessaria una critica del principio del montaggio e di una critica del costruttivismo. E cambiata la sensibilita e la percezione della poesia. Direi che non e semplicistico il procedimento critico di Linguaglossa ma che e semplicistico il procedimento del montaggio della poesia di de Angelis, il quale punta a stupire il lettore, punta allo choc con inversioni, ellissi gratuite, salti non giustificabili tra il soggetto e gli enunciati, abbonda di frasi nominali slegate da ogni costrutto razionale per rifugiarsi nei costruttivismi soggettivistici, dove, tutto e possibile. Diciamo che De Angelis (da Somiglianze in poi) ha vissuto per 40 anni di rendita, ha ripetuto svogliatamente gli stessi artifici retorici.
Penso che sia giunta l ora anche per lui di cambiare spartito e strumenti musicali.
Laura Canciani
… che qualcuno abbia cercato di infangare la mia reputazione dicendo che finanziavo la collana di poesia Scettro del Re che ha pubblicato gratis importanti autori italiani e stranieri, mi ha fatto invece un grande complimento: sì, tiravo fuori dalle mie tasche i soldi per la stampa dei libretti di poesia senza chiedere nulla agli autori. È un peccato? È un reato? È un comportamento scorretto?
… qualcuno mi ha accusato di incoerenza e di essere un valtagabbana per aver scritto cose «favorevoli» sulla poesia di De Angelis in un articolo contenuto su “Appunti critici” del 2002 e aver scritto cose «negative» in questo ultimo scritto. Ebbene, io dico soltanto che questa semplificazione, questa schematizzazione creata ad arte tra un prima e un poi, oltre ad essere fatta in malafede dimostra che chi l’ha fatta non sa neanche leggere uno scritto di critica letteraria, dimostra di essere un «amatore» della prosa critica (la quale presenta spesso delle difficoltà per chi non ne comprende la terminologia e il linguaggio). In verità, già nello scritto critico del 2002 formulavo delle osservazioni e sollevavo delle questioni che, ad una lettura frettolosa e improvvisata, sono passate del tutto inosservate.
… Passiamo ad altre cose più serie. Il dato di fatto indubitabile è che dopo “Somiglianze” del 1976 la scrittura poetica deangelisiana è diventata una scrittura di «costruzione», costruttivistica, che ha di mira il montaggio di pezzi di lessico avulsi da qualsiasi legamento con la sintassi e con la fonematica: è diventata un montaggio libero (ma io direi sempre più gratuito e arbitrario) per colpire un lettore poco attento e poco letterato. La cosa è diventata enormemente evidente negli ultimi tre libri di De Angelis… evidentemente l’autore si è fidato troppo dei giudizi lusinghieri che «critici» benevoli, interessati a non inimicarsi la sua simpatia non gli hanno lesinato. Ma, si sa, la critica benevola è come il medico buono che fa la piaga purulenta. Non ha senso fare una critica benevola (come oggi va di moda), così si fa del male all’autore e alla sua poesia e si inquina il dibattito letterario.
Al Sig. Russo vorrei dire (con la sua disponibilità a fiancheggiare i sostenitori dei «buonisti» proponendo le critiche«favorevoli») che qui non siamo allo stadio dove c’è una curva Sud per i romanisti e una curva Nord per i laziali, qui il terreno del contendere è leggermente diverso e non si divide in fazioni di tifo ma in qualità e profondità di pensiero critico espresso.
Giorgio Linguaglossa
Stefania Monti afferma adesso c’è:
«il giustiziere Linguaglossa, l’uomo nuovo, quello ripara i torti e ristabilisce i diritti, quello che ruba ai ricchi per dare ai poveri»;
«C’è poi il suo linguaggio “filosofico”, che incute timore ai lettori più timidi»;
«Negli ultimi trent’anni nessun editore serio ha mai pubblicato Linguaglossa, che rimane dilettantesco sul piano del pensiero e si conferma un uomo cieco sul piano testuale».
E via di questo passo con le infamità e le calunnie.
Ma davvero signora Monti, le dà così fastidio un critico non allineato e libero da pregiudizi? Mi dica una cosa: lei che conosce bene tutti gli scritti di Linguaglossa per permettersi una liquidazione così sommaria da far impallidire, questa sì, i processi staliniani ai dissidenti: ma lei ha mai letto i libri di critica e di poesia di Linguaglossa? Se Sì, come non ne dubito, perché non ci fa un RAGIONAMENTO critico severo e dettagliato per spiegare ai lettori di questo blog, su quali metodologie e quali riflessioni testuali si basa il suo atto liquidatorio? Attendiamo con fiducia il suo testo. Grazie
Luciana Sanguigni
da Rita Simonitto
Se posso inserirmi, da ingenua, in questo ‘agone’, vorrei partire da questa citazione (toh, fa anche rima) di Perlini: *«Questa contrapposizione lui [Fortini] la spiegò così: preferiscono Leopardi coloro che sono convinti che per conoscere il mondo - si ( p. 271) badi bene che qui c’è un modo per alludere a tutta la figura del lirico moderno - bisogna prima conoscere se stessi. A questo contrappose invece la convinzione, che emerge dall’opera sterminata di Dante, secondo cui bisogna conoscere il mondo per conoscere se stessi»*
Personalmente ritengo che non esista un ‘prius’ né logico né ontologico. Parafrasando Machado, il cammino della conoscenza avviene attraverso una interrogazione continua che pesca sia in se stessi e sia nella realtà esterna. Certo, in alcuni momenti storici, più nell’una che nell’altra.
L’arte e la scienza (ognuna delle due con le sue specifiche regole) rappresentano la strumentazione conoscitiva di cui disponiamo, strumentazione *compatibile* con la nostra Storia Occidentale.
Dersu Uzala (nell’omonimo film di Kurosawa) utilizzava strumentazioni altre, e a volte più efficaci, per muoversi nella taiga siberiana, in zone non ancora toccate dalla *civilizzazione*. Teniamo conto che Dersu e realtà circostante non erano così scissi: lui si sentiva parte integrante con essa, vivendo in armoniosa e religiosa simbiosi con la natura, parlando col fuoco e con gli animali (ma ciò senza che nel film appaia nessuna concessione al mito del buon selvaggio).
Ma OGGI siamo QUI, alle prese con un sociale frammentato: *noi oggi sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti… La “Grande Narrazione” si è risolta in una “Piccola Narrazione”, nella narrazione di piccoli mondi*, così scrive G. Linguaglossa. E, in altra parte, continua: *Ormai non vi sono più che soggetti empirici. L’uomo come soggetto scompare per diventare soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato democratico. In una parola: soggetto della democrazia*. Ovvero, persosi “l’Uomo” con la sua trascendenza, è rimasto un coacervo di omini empirici che dovranno pur darsi una facciata di importanza (magari chiamandola ‘democrazia’)!
Quello che Linguaglossa chiama ‘soggetto’ non è però un ‘soggetto di esperienza’, magari lo fosse: avrebbe, pur nella sua specifica specializzazione, una *visione d’insieme e una capacità poietica*, come auspica Francesca Diano nel suo intervento, e porterebbe a quel ‘noi’ che Ennio tanto sogna. Ma così non è. Si tratta di un ‘soggetto’ nel senso di essere assoggettato alla bieca attualità, al frammento, all’’événementiel’ con il quale ha un rapporto di ‘mimesi’ e non interpretativo. Questo ‘rispecchiamento mimetico’ fa sentire ‘onnipotenti’ perché non ci sono iati, non ci sono fratture fra il sé e la realtà. Non c’è conflitto, se non quello prodotto dai rompiscatole che tolgono i veli, quelli che non accettano questo stato di cose e si chiedono, come fa Ennio: *ma quali sono le condizioni “reali” che hanno favorito* il ‘serpente’ che ha potuto strisciare senza che ce ne rendessimo conto? Com’è che la *rivivibilità del “privato”* (G. Linguaglossa) ha portato ad una esondazione di pathos sentimentale buttando alle ortiche ogni laccio e lacciolo che legava l’affettività all’intelletto? F. Diano:*E' come se fossimo usciti da un mondo deflagrato i cui frammenti vagano nello spazio vuoto senza più i legami che li tenevano saldi.*
Il ‘dovere poetico/politico’ dovrà pur rendersi *conto delle condizioni “reali” che hanno favorito l’imporsi della poetica di De Angelis*.
Questa realtà *risponde bene ( come quella della Merini per fare un altro esempio) al pathos sentimentale coltivato dal pubblico ampio della poesia (dal ceto medio poetico). In poesia essa vuole - semplifichiamo un po’ - aggettivi e non sostantivi, emozioni e non pensieri (o, con Linguaglossa, si ritrova più a suo agio nel principio aggettivale che nel principio sostanziale e sostantivale)* (Ennio).
Ecco la famosa recensione di Fortini a De Angelis
Franco Fortini
COME CERTE DANZE DEL CAUCASO
"Terra del viso" di Milo De Angelis, Mondadori, 1985, pagg.79, lire 18.000
Cinquantasette brevi poesie: le legga oggi chi si occupa di poesia nuova e domani anche chi non se ne occupa mai. L'autore, trentaquattro anni, è alla sua terza raccolta. Versi difficili: che non volano però al vento sulle foglie della Sibilla, ma se ne stanno ostili come scacchi a partita giocata e vogliono che noi la si ripercorra all'indietro, fin dall'inizio. Danno il labirinto e il filo, non la pianta. Il titolo intende che la faccia umana è terrestre, un'area misurabile e coltivabile, come si dice Terra Nova o Terra del Fuoco. Materia e basta. Ma quando a dirlo è una voce così esasperata, è come gridasse: spirito e basta. Tra i versi vengono avanti ragazzi e giovani in gara e in rischio, come per un'educazione greca; e la luce può ricordare quella dell'alba di Platone, dopo il convito. Con l'aiuto di grandi di ieri, come Campana, Mandel'stam e Celan, De Angelis vuole imprimere una regola rigida e razionale a un modo di immaginare il proprio discorso, che può invece procedere solo per balzi e scatti, come certe danze virili del Caucaso.
Il personaggio-autore attacca le parole a mano armata, attento a punirsi subito d'ogni moto di compassione. Ma, per fortuna della sua poesia, vedi a occhio nudo la fragilità del cristallo che specchia siffatto atletismo. La sua solitudine è tanto più vera quanto più recitata; la fine della sua giovinezza è reale, non solo fantasticata. Così, di poesia in poesia, il lettore paziente assiste, come in teatro, a un movimento a vista. Quando scrive "la rada gioia del paradiso" o "soltanto il mio turno, benché eterno", è ancora nel proprio ruolo "sublime"; ma quando scrive "ritrovo una sintassi nei secoli già studiati" o "da un punto decrepito qualcuno ritorna e spara" oppure "l'armadio dei pochi vestiti / con cui cambiare una civiltà", senti che al di là della perentoria angoscia di assoluto e di apocalissi, il poeta sta passando dalla ricerca di fratelli a quella di amici.
"Sì, l'aveva giurato", dice l'ultimo verso di una bellissima poesia-dialogo ("31 agosto 1941") su di una podista sovietica che già morta taglia il filo di lana; e quello è ancora un giuramento solitario. Mentre, della più ricca contraddizione tra ira e pietà, testimonia, con altre, una poesia di pochi versi che mi sembrano memorabili. Ha titolo "Nei polmoni", ma meglio le converrebbe quello di due altre composizioni: "Colloquio con il padre". "La coperta, la sua forza mentre crescevamo. / O gli occhi che ieri furono ciechi, / oggi tuoi, ieri l'inseparabile. Le fiale, / il riso in bianco diventano l'unico / mondo senza simbolo. Materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia, / cobalto, padre, nulla, pioppi".
Franco Fortini, "Panorama", 2 giugno 1985
Ho seguito il caotico blog in Poesia 2.0. Tra i cento e più interventi, quasi tutti inutili o reattivi, mi ha persuaso questo di Elena Francisci.Per ragioni di lunghezza, lo dvido in due parti.
Ho saputo, amica mia,
che sei stata in un limite. Anch’io
negli intervalli di una sola e grande morte
dormivo tra i casolari
dove si raccolgono d’inverno
con la parola disunita e il fitto
delle idee: entrava
un profumo di uva passa e la neve
dell’incontro ha percepito
la mia notte nella tua.
Ho saputo, amica mia...". L' abbiamo letta tante volte, nel nostro gruppetto, questa poesia di Milo De Angelis. Io, devo dire, non mi stanco mai di leggerla. E' una poesia tragica. Mi ferisce a sangue. E mi conduce in un limite, come l'amica a cui è dedicata. Attenzione: qui non si tratta di "giungere al limite", ma di entrare in questo limite. Trascorrere la notte, addirittura, in un limite. Non si può uscirne illesi. E' qualcosa che Milo De Angelis deve avere provato. Ne parla sempre. Ma mai come in questo libro, che io giudico il suo più grande con "Biografia sommaria", si intuisce l'origine naturale e insanabile della lesione. Il tragico, appunto. "Ho saputo, amica mia,/che sei stata in un limite". Non sappiamo da chi giunge la notizia, non sappiamo dove o quando. E' avvenuto, naturalmente e per sempre. Ed è avvenuto a un'amica. Fermiamoci un attimo. Non a una moglie, a un'amante, a una figlia. No, a un'amica. Solo l'amicizia ha lo sguardo impietoso che perfora. Solo a lei si può dire la verità. Questo è tipico di De Angelis e delle sue compagne di giochi, di gare, di squadra. L'amica valorosa. Valorosa e trafitta. "Ho saputo, amica mia". La notizia è giunta. Partiamo da qui. "Anch'io/negli intervalli di una sola e grande morte". Ecco, a poco a poco, si squarcia il velo. "Anch'io". C'è un uomo assediato dalla morte, che può respirare solo nelle brevi pause concesse. Può parlare soltanto negli intervalli di questo demone, grande e unitario, conosciuto con il nome di morte. "Anch'io dormivo tra i casolari/dove si raccolgono d'inverno". I casolari. Immagine di campagna, rara in De Angelis. E per di più immagine invernale, anch'essa rara negli ultimi libri. "Dove i pazzi si raccolgono d'inverno", era scritto in una precedente versione su rivista. Scompaiono i pazzi. Troppo facile. Ora non sappiamo più chi sono gli abitanti. Ma ci sono. Si raccolgono lì e ci riguardano. Hanno la parola disunita e qualcosa di troppo fitto nell'idea. Disunita. Non significa solo divisa. "Divisa" mostra le parti già separate, l'amputazione già eseguita. "Disunita" mostra invece l'unità perduta da poco, ancora visibile (continua)
Le idee si urtano in uno spazio angusto. Non si distendono. Non si spiegano, in ogni senso, come si dice delle ali e come si dice di un discorso. Ma proprio lì, in quel casolare, avviene qualcosa. Non sappiamo esattamente cosa e tantomeno se giungerà a realizzarsi. Tutta questa poesia è mossa dall' incompiuto. Perfino gli endecasillabi non si compiono, sfiorano il numero giusto ma non lo centrano: ipometri o ipermetri, proprio come il titolo del libro, "Quell'andarsene nel buio dei cortili". Dunque avviene qualcosa: un antico profumo di passito, come l'uvetta dei dolci, un odore festivo di compleanno, solenne come una nevicata. "La neve dell'incontro ha percepito/la mia notte nella tua". Anche qui dobbiamo stare accorti: il poeta non dice "attuato" o "congiunto". Non è detto che avvenga, l'incontro tra le due notti. Per ora è stato "percepito". E anche noi rimaniamo così, sospesi, nell'imminenza. Detto per inciso: mi ha sempre impressionata questo participio, "percepito". Che non è "sentito" o "provato", ma qualcosa di più netto e oggettivo, come quando una pantera percepisce nella notte la presenza di un'altra pantera e si mette in ascolto con le orecchie tese. Milo De Angelis, l'ultima volta che è venuto in Toscana, ci ha parlato di come è stato difficile arrivare a questo verbo. "Avevo bisogno di un participio passato della terza, possibilmente non breve, per mie ragioni ritmiche...e per qualche giorno mi sono spaccato il cervello. Niente da fare. Alla fine l' ho trovato su un vecchio rimario: per-ce-pi-to, quattro belle e lunghe sillabe". "Su un rimario?!?", ho chiesto un po'sbigottita. "Sì, su un rimario, scusate, ma è successo così...mi è successo proprio questo".
Basta, mi sono dilungata a dismisura. Prometto che non scriverò più! Perché mi piace questa poesia? Perché è classica e dilaniata. Non trema, ma dice il terremoto segreto di chi è stato "in un limite". Perché c'è una costruzione severa (pensate all'alternarsi di passato prossimo e imperfetto, ossia di attuale e leggendario) che lascia tuttavia intravedere il suo crollo, la sua parte indifesa e indifendibile, mortalmente ferita. E poi, insomma, lasciatemi in pace: una poesia è una poesia, una poesia, una poesia.
Elena Francisci
Ma che senso ha? A parte l'intervento di Abate (che è discutibile ma comunque nuovo e interessante), ci sono sempre gli stessi nomi e gli stessi toni. Pro o contro Milo De Angelis, devoti o nemici, ci sono sempre gli stessi interventi che passano da Poesia 2.0 a qui, trasportati come pacchi da un blog all'altro!
Ritorniamo, per favore, al rapporto Fortini/De Angelis. Non divaghiamo. Su questo controverso rapporto, ho qualcosa di preciso da dire, qualcosa che riguarda una passione per la Totalità comune ad entrambi. Da una parte il Marx profetico di Fortini. Dall'altra il Nietzsche tragico di De Angelis. Entrambi (nella loro visione) ammalati di assoluto. Lukacs come Blanchot, invasi da un'esigenza totale. Un paradosso? Vedremo. Su questo punto tornerò, sicuramente tornerò.
Nel frattempo riporto un giudizio di Giorgio Manacorda ("La poesia italiana oggi", ed. Castelvecchi, 2006, pag. 176/177) su questo legame che tutti definiscono "sorprendente".
"A proposito del sorprendente legame Fortini-De Angelis,io me lo spiego solo così. Fortini non era un poeta, ma un letterato. Di grande livello, ma pur sempre un letterato. E soprattutto un ideologho. Esattamente come i neoavanguardisti,esattamente come de Angelis. Mi rendo conto che può sorprendere l'affermazione che De Angelis sia un ideologo. Ma lo è. E lo è a prescindere dai suoi scritti di poetica. De Angelis "vuole" essere un'idea di poesia in carne e ossa. De Angelis è disposto a rischiare la vita per essere la reincarnazione del poeta, l'ombra di Holderlin o di Novalis. E vive così, e soffre così, ed è questo che ha reso credibile la sua poesia, questa colossale finzione "vera". Un'ideologia della poesia che s'incarna in una persona. La quale crede, come un monaco tibetano o un mistico medievale, di essere in contatto privilegiato con l'assoluto. Un equivoco spaventoso, in fondo tragico, per De Angelis. Comico nei suoi imitatori, compreso Cucchi, che diopo il"Il disperso" si è messo a fare il verso a De Angelis. Tragico e quindi affascinante, come è affascinante ogni figura eroica, quanto più il suo eroismo è insensato, inutile, gratuito, infondato. De Angelis è una figura tragica perché questo delirio è la sua vita (di scrittore)"
Saltando passaggi obbligati, con meno parole si estende il significato. Così facendo la lingua italiana, il volgare italiano, si fa meno rudimentale. Per fare questo bisogna contare sulle qualità evocative dei termini. Ma quel che più conta è che, cambiando il linguaggio, cambia il sentire. Cioè cambiano le persone, nel senso che cambia la sensibilità del lettore, se non definitivamente, almeno durante l'atto della lettura. L'alterazione del linguaggio, nel poetese, agisce sulla sensibilità visiva (immaginativa) col risultato che i significati acquistano altro nitore, sia emozionale che descrittivo. Quanto detto vale per la poesia in generale, ma in De Angelis diviene prassi d'altro linguaggio perché in senso stretto non fa uso di costruzioni appartenenti alla tradizione, se mai accoglie aspetti del parlato che sono di derivazione moderna. E mi pare evidente che in questa sede si tenti, facendo leva su De Angelis, una critica estesa alla modernità.
Soggiornando a Milano in quegli anni, li conobbi ambedue, Fortini e il più giovane De Angelis, parecchio simili nel carattere. Persone serie, non lo pongo in dubbio, ma altresì caricate di tormento e come buie, in quanto che latitava in ambedue il gusto dell'umorismo o dell'ironia, ch' essi anzi ripudiavano, e ne scaturiva uno stato d'ininterrotta tensione in loro.
"E un giorno
diventerò patetica
quando con mani insicure
rovisterò il passato
per trovarvi l'appiglio
alla sopravvivenza
e nel sorriso dei figli
la condiscendenza annoiata scoprirò
che si riserva ai vecchi
e non saprò
se sia meglio morire
o aggrappati ai relitti tenacemente resistere."
Questa "meravigliosa" poesia è di Giorgia Stecher, una delle autrici consigliate da Linguaglossa. Ora io non metto assolutamente in dubbio le sue qualità come critico. Anzi, mi sembra che i suoi discorsi e i problemi della poesia contemporanea che affronta siano sempre interessanti e niente affatto scontati. Anche le perplessità che nutre per certi poeti potrebbero essere ben più che sensate: sopratutto per quel che riguarda Cucchi e tutta la schiera asettica del ridicolo e sciatto minimalismo. Su De Angelis io ci andrei invece più cauto, sopratutto per il fatto che non si può accusarlo di non avere una sua idea filosofica di poesia. Anzi, direi che per questo ha le idee molto chiare. A differenza dei minimalisti la cui idea di poesia è debole e inconsistente. De Angelis si appella ad una idea antica di poesia, ad una tradizione tutt'altro che banale. Penso a Nietzsche e al concetto di tragico, all'antica Grecia e a quel senso di ineluttabilità del fato che nutre gran parte della sua poesia. Adesso vengo al punto. Io nella poesia sopra citata di Giorgia Stecheri , francamente non ci vedo niente di speciale. Mi sembra banale, sciatta nella forma, "patetica" come suggerisce l'autrice stessa. Si accusa De Angelis di puntare quasi esclusivamente sull'emozione e sul sentimento(e non sono molto d'accordo). Ma come mai anche una delle poetesse citate da Linguaglossa scade in questo difetto, in questo nudo patetismo, privo di qualsiasi spessore? Non credo francamente che si esca dal novecento con un simile diarismo lirico intriso di sentimentalismo. Qui non c'è nulla di nuovo. E' lo stesso problema che riguarda per esempio un'Alda Merini. E si capisce anche il successo che ha avuto una simile poesia.
Caro Anonimo,
la poesia da te scelta di Giorgia Stecher non è delle migliori, io ne avrei scelte altre di gran lunga superiori come quelle raccolte nell'ultimo libro "Altre foto per album" uscito postumo nel 1996. Ma veniamo al punto. Tu affermi che anche questa composizione cade nel patetico. Io ribatto che i primi quattro versi invece tengono a distanza il «patetico», e precisamente dicono:
E un giorno
diventerò patetica
quando con mani insicure
rovisterò il passato
a questo punto la poesia ha una flessione che fa pendere tutta la poesia verso il tono elegiaco con quell'accenno troppo diretto «alla sopravvivenza», tipico errore dei poeti che prendono dall'empiria un pezzo di reale e lo trasportano tale e quale nella composizione.
per trovarvi l'appiglio
alla sopravvivenza
Ma quello che fa: «e nel sorriso dei figli...»; ecco, questo inciso, con la deviazione verso il memoriale che ne consegue fa precipitare il livello prosodico verso l'elegia, la tenuta antielegiaca della poesia accusa il colpo. Ripeto però che la Stecher ha scritto delle cose nettamente migliori.
Per quanto riguarda il «tragico» di De Angelis, il Nietzsche e all'antica Grecia, francamente a me sembra tutta una abile regia, una montatura (in cui sono caswcati critici diciamo benevoli e ossequiosi) buona per gabbare gli sciocchi... la sua Milano non ha nulla a che vedere con l'antica Gracia né con l'Olimpo; riguardo al senso di ineluttabilità del Fato ho l'impressione che nella poesia di De Angelis degli ultimi 30 anni c'è molto patetico e molto sentimentalismo, se si escludono i primi due libri Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983, almeno lì questi difetti (che diventeranno sempre più vistosi e ingombranti) erano ancora contenuti e, diciamo, un po' sotto controllo.
Sono d'accordo con Alda Merini, ma almeno lei negli anni Cinquanta e Settanta una cinquantina di belle poesie le ha scritte... anche se la sua scrittura poetica è una tipica scrittura da legato testamentario, cioè che riposa interamente sulla tradizione, non innova, non procede avanti ma gira e rigira in cerchio sempre di nuovo, sempre sui soliti temi, in modo ossessivo, maniacale e, alla fine, in modo molto noioso.
Il vero nodo del successo della poesia deangelisiana (ma il successo presso di chi?) presso le giovani generazioni è un pessimo segnale sia della impreparazione culturale dei giovani sia della poesia del Nostro. È probabile che quando cambierà il gusto medio del Ceto Medio Mediatico cambierà anche la valutazione della sua poesia. Ma chi fa critica non deve seguire il gusto del ceto medio, ovviamente.
giorgio linguaglossa
che spettacolo triste, come iene sulla carne della parola poetica,ma la poesia ha altri e più segreti tempi e la sua verità è incommensurabile.
Caro Ennio,
credo che siamo d'accordo sulla denuncia del degrado della poesia italiana post-fortiniana quando un De Angelis viene acclamato dai suoi tifosi come il più grande poeta degli ultimi 40 anni. Ma si tratta di tifo, e di fede. E, notoriamente, con i tifosi e con i credenti non si può discutere. Il problema centrale l'aveva già visto Fortini con quella frase che anche tu hai riportato:
«La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema». Tu dici: Linguaglossa «non si è fermato a sufficienza sulle ragioni politiche che fanno dell’atto lirico (deangelisiano, in questo caso) una conferma del sistema. (Quale sistema? Solo quello poetico?)».
Ma caro Ennio, qui il problema non è stilistico, non è solo estetico ma politico in senso generale; il consenso sui fondamenti del patetismo (fondamento del consenso del Ceto Medio Mediatico) è il fondamento che tiene insieme i ceti sociali più disparati. In chiave politica questo fenomeno è trasversale a tutti i ceti, e non fanno eccezione i ceti cd. delle professioni intellettuali e degli stessi letterati. In chiave politica il patetico, il sentimentale, l'ambascia dell'io con i suoi problemi con il tu della poesia post-deangelisiana (due nomi per tutti Mariangela Gualtieri e A. Anedda) formano il quadro, diciamo, politico-estetico, lo zoccolo di un gusto, di un modo di sentire, di vedere il mondo. È il fondamento dei fondamenti che produce consenso e omologazione a vari livelli, nel politico e nell'estetico «diffuso».
In questo fenomeno macro culturale, ovviamente, la poesia di De Angelis passa in secondo piano.
Il fondamento del gusto estetico diventa la Moda.
linguaglossa
Credo sia una distonia critica il pretendere dai poeti il mantenimento continuativo della spinta del loro esordio per 20-30-50 anni. La "carriera" poetica e' molto spesso un solo libro, quando non alcune poesie estratte da un solo libro. Credo anche che la poesia di Cucchi, di De Angelis, di Magrelli resti degna di menzione soprattutto per i suoi esordi. Sappiamo tutti e possiamo intuire serenamente come ci siano decine, se non centinaia di poeti ignoti che non hanno avuto e mai avranno alcuna visibilita' ed impatto, seppur esteticamente migliori, ma la letteratura e' anche una pratica sociale, sebbene sempre meno diffusa. E se la pratica contemporanea e' dominata socialmente ed economicamente dal Grande Ceto Medio linguaglossiano, cosa aspettarsi?
Non credo, peraltro, come scrive Bertoldo, che le sorgenti editoriali odierne inquinate di connivenza e gioco al ribasso comprometteranno la ricezione nel domani dei valori estetici piu' profondi, non messi oggi in giusta luce. Credo pero' che ognuno abbia una idea limitata di quelli che i reali valori estetici dovrebbero essere e dunque destinata all'oblio non solo nell'oggi, ma anche nel domani. Voglio sinteticamente dire che non c'e' nessuna ragione fondata per credere che le griglie di Linguaglossa, di Bertoldo, di Abate o le mie siano piu' efficaci di quelle dei minimalisti mondadoriani di Milano: sono griglie in competizione nello stagno sempre piu' piccolo della poesia italiana. Ogni griglia manovra fantocci o burattini scelti piu' o meno casualmente nel mucchio, alla stessa maniera, visto che nessun burattino incide realmente su nulla, ne' quelli di Milano ne' quelli di altrove.
Voglio anche dire che non credo che le migliori menti e i migliori cuori di questo Paese si occupino oggi di poesia e che la figura dell'intelettuale poliedrico e capace di tracciare linee e tirare un filo per traghettarci al futuro vada ricercata altrove, al confine fra scienza applicata e filosofia pragmatica, liddove la Moda (vituperata da Linguaglossa ma generatrice di pratica sociale) si incrocia col Marketing virale di questi nuovi strumenti telematici: videogiochi, videoclip musicali, pratiche fidelizzanti, miti figli della scienza e dell'ingegneria (dal bosone di Higgs scoperto al CERN di Ginevra per mezzo della piu' grossa macchina sperimentale costruita da un consorzio umano alla macchinina radiocomandata Curiosity che passeggia su Marte).
(continua)
A parlare di etica, politica e cuore resta una retroguardia di persone drammaticamente indietro rispetto al turbinio del presente, ancorate ad un passato che e' forse nostalgia della propria gioventu' perduta. Una retroguardia, insomma, che si prende facilmente gioco dei giovanilismi a la Pezzato di qualche settimana fa su questo stesso blog, ma che non incide su niente perche' non ha piu' una spinta propria, ingenua e sfacciata ma anche creatrice, ma solo l'ancoraggio ad una Tradizione e ad un diffuso sentimento di accerchiamento.
Non e' che Linguaglossa o Bertoldo o chi altri volete voi venga ignorato perche' c'e' un complotto per tenerli fuori. E' che nell'inconsistenza e nell'insussistenza del presente editoriale italiano, nonche' nel mortificante e quasi nullo riscontro culturale e di seguito anche economico, i messaggi e le forme veicolate dalla poesia sono stati sorpassati da messaggi e forme diversi, che quello stesso sistema editoriale tanto invidiato non riesce ad afferrare.
Stiamo insomma parlando di fantasmi, di gente che ha costruito un piccolo potere per mezzo di una cattedra o di una posizione di lavoro percepita, fra le retroguardie, di prestigio. Robette da paese, quando la paesologia (portata brillantemente avanti da Franco Arminio) dice espressamente che i paesi in Italia stanno morendo e con loro piu' della meta' di chi ci abita, stanno morendo al presente e alla possibilita' di incidere su altro che sia la propria drammatica decadenza verso l'oblio prima sociale e poi culturale.
Ripeto, l'unico ancoraggio costruttivo sono i testi: se Linguaglossa dice che Madonna e' una grande poetessa, nessuno puo' prenderlo sul serio, perche' basta leggere Lucetta Frisa o a livello piu' alto Claudia Ruggeri per capire che sostanza estetica piu' rilevante sta altrove e non servono millemila analisi come all'obitorio, pratica alla quale gli strutturalisti come me sono adusi... basta la sintesi dell'orecchio abbinata al cervello, che va sviluppata tenendo sempre la guardia alta e l'occhio ai grandi tramandati dal Canone. Troppo facile prendersela con i burattini del sistema editoriale milanese, nani che perpetuano nani ancora piu' inconsistenti, ma e' un gioco al ribasso, dal quale non esce vincitore nessuno.
Saluti e, possibilmente, scusate la lunghezza. Giuseppe Cornacchia
Nel 1912 il "Manifesto Tecnico della Letteratura futurista" afferma che non bisogna più usare gli aggettivi: "tolgono dinamismo alla parola". Aggiunge che occorre liquidare Pascoli e D'Annunzio, poeti sentimentali. Si è visto poi chi è rimasto e chi no. Nel 1962 Alfredo Giuliani, poeta e teorico del Gruppo '63, scrive che Bassani e Cassola, Pavese e Pasolini, rappresentano il patetismo: "saranno dimenticati!" Si è visto anche questo. Nel 2012 un nuovo critico sbandiera attraverso i blog che i vari Cucchi, Anedda, De Angelis, Benedetti sono "sentimentali". Insomma, ogni cinquant'anni escono dalla tomba gli avversari del sentimento, quelli che scambiano il patos con il patetismo. Patetici!
Luigi
Anonimo24 agosto 2012 19:27
"che spettacolo triste, come iene sulla carne della parola poetica,ma la poesia ha altri e più segreti tempi e la sua verità è incommensurabile."
mi associo al tuo stato d'animo, che immagino sia di entrambi i lati, razionale e irrazionale, o perlomeno questo è il mio e forse anche il tuo. Lo dico come lettrice, né come critica, né come letterato, lo dico come persona.Credo che da un punto di vista singolo nonché plurale, pochi e rari spiriti siano rimasti incondizionati al controllo emotivo-sentimentale-intellettivo voluto dal sistema dei potenti per frantumare quel poco che rimaneva di "contadino" sia nel contadino sia nel cittadino. Il loro programma è andato a buon fine in ogni settore sia di pensiero sia di azione: uno contro l'altro come in tivvì modus vivendi calato in ogni buco del pianeta, ridotto a un corridoio, in cui scorrazza di volta in volta un conduttore, che separa le due fazioni di volta in volta pro e contro..come il mondo politico bipolare, peraltro delle false alternanze, ma che ha inciso profondamente proprio per ottenere un miglior controllo, spegnendo ogni libido sia del desiderio di creare, sia del desiderio di stare insieme, di sviluppare la multipolarità necessaria a una convivenza minimamente provvisioriamente poetica.
Visto che è stato citato Arminio,che sento visceralmente come la terra, la sua tragedia... la sua poesia, lascio questa,ciao
Sono caduto dall'impalcatura. Avevo sonno la mattina. Mi era finito il caffè.Faranno processi, assolveranno o incolperanno, io sono convinto che, se il barattolo del caffè fosse stato pieno, oggi sarei ancora vivo.
Gent.mo Cornacchia,
tu scrivi: «A parlare di etica, politica e cuore resta una retroguardia di persone drammaticamente indietro rispetto al turbinio del presente». Francamente a me non sembra di aver fatto un discorso così appiattito su quella tripolarità categoriale che tu mi addebiti.
Riguardo alla accusa di «retroguardia» che condizionerebbe negativamente le valutazioni mie e di Bertoldo, ne vorrei sapere di più, intendo una disamina particolareggiata del mio pensiero critico.
Riguardo poi al punto che tu rilevi secondo cui «c'è un complotto per tenerli fuori (Linguaglossa e Bertoldo)»; non mi sembra che io abbia mai parlato di «complotto». La questione è molto più complessa, ma anche molto semplice. Direi che ogni Istituzione (compresa quella poetica)ha un istinto alla sopravvivenza, si difende dall'accogliere corpi estranei che la possano mettere in discussione semplicemente espellendoli. È un meccanismo biologico che funziona anche per i corpi sociali.
Per quanto riguarda la poesia di Claudia Ruggieri, dirò che ho letto pochissime cose su blog per potermi esprimere, è un autore che non conosco, se tu volessi essere così gentile da contattare un suo editore o lei stessa per farmi inviare qualche suo volume di poesia te ne sarei grato, ne farò una nota di lettura dopo attenta riflessione, come è mio costume.
Riguardo alla poesia di Madonna, la tua liquidazione ha un fondamento sulla lettura dei suoi testi? Tu dici: «basta la sintesi dell'orecchio abbinata al cervello», può darsi, io invece, con molta modestia, ho bisogno di leggere e rileggere un autore anche a distanza di anni. - Io studio i suoi testi da 20 anni, e sono giunto a certe valutazioni. Che possono essere anche errate, sia ben chiaro, ogni atto umano ha il rischio dell'errore. Sto preparando per l'editore EdiLet di Roma una edizione di "Tutte le poesie" (1985 - 2002) di Madonna che potrà essere un utile strumento per il suo studio.
Personalmente, ho sempre fatto finora l'esempio di autori morti tanto per togliere di mezzo la facile replica di facili recriminazioni contro questo o quello. Si sa che i morti dormono il loro sonno eterno.
Caro Cornacchia, vedi, io ho molti amici ma non mi sono mai permesso di nominare certi autori perché sono miei amici. Diciamo invece che ho perso molti potenziali amici proprio per avergli detto chiaramente quello che pensavo dei loro versi. Insomma, il critico (o chi fa le veci del critico) non deve essere un tifoso di questo o di quello, altrimenti rischia di non essere più credibile.
giorgio linguaglossa
ah, dimenticavo:
caro Cornacchia,tu scrivi: «Troppo facile prendersela con i burattini del sistema editoriale milanese, nani che perpetuano nani ancora piu' inconsistenti, ma e' un gioco al ribasso, dal quale non esce vincitore nessuno».
Vedi, caro Cornacchia, anche qui la tua gioventù ti porta all'errore. Io innanzitutto non mi sono mai permesso di appellare «nani» o «burattini» nessuno, tantomeno i milanesi ai quali va il mio rispetto tanto quanto ai calabresi o ai siciliani. O teniamo il tenore dei discorsi su un piano alto, sul piano dei concetti estetici e del confronto civile, oppure si cade nelle povere infamità di quel "Luigi" che mi addebita delle corbellerie avverso certi autori frutto esclusivo del suo piccolo cervello.
A questo "Luigi" dico soltanto una cosa: dimostri il suo coraggio (se ne ha) scrivendo in tondo il suo nome e cognome, così possiamo sapere con chi abbiamo a che fare.
giorgio linguaglossa
Vorrei segnalare che Milo De Angelis parla del suo incontro con Franco Fortini nell'intervista di Luigia Sorrentino andata in onda su Radiouno mercoledì 22 agosto e riascoltabile nel blog della stessa Sorrentino "poesia.blog.rainews24.it"
> Per quanto riguarda la poesia di Claudia Ruggieri, dirò che ho letto pochissime cose su blog per potermi esprimere, è un autore che non conosco, se tu volessi essere così gentile da contattare un suo editore o lei stessa per farmi inviare qualche suo volume di poesia te ne sarei grato, ne farò una nota di lettura dopo attenta riflessione, come è mio costume.
Caro Linguaglossa, con Claudia Ruggeri ha avuto uno spunto per il suo esercizio critico, ne faccia l'uso che crede. Chiudo qui i nostri contatti, buon proseguimento per la sua attivita', che continuero' a seguire con interesse e col dovuto (a mio modesto avviso) distacco sulla pars construens.
Saluti. Giuseppe Cornacchia
@Luigi
Sono d'accordo con lei, riguardo gli esempi storici che riporta. Ritengo però che il sentimento non sia il pathos, sia invece una oggettivazione d’esso. Quindi chi fa uso di sentimento e non di emozione produce una poesia intellettualizzata. Non c’è niente di male. Per esempio Benn e Pound, che la scrivevano, sono rimasti come autori importanti. Poi si, c’è il patetismo, alla fine poco strumentalizzabile e quindi per niente pericoloso. Il sentimento purtroppo invece è strumentalizzabile dall’autore, è per questo che bisogna guardarlo con circospezione, anche se solo per le sue potenzialità. E’ la stessa differenza che c’è tra chi fa del bene perché ne sente l’esigenza emotiva e chi fa del bene perché glielo dice la Chiesa. L’esito per chi ne beneficia può essere materialmente lo stesso, ma c’è una differenza affettiva non da poco.
Per il resto, non è giusto liquidare nessuno. C’è posto per tutti. Un posto piccolo, piccolo, piccolo per ognuno, ma comunque non è che noi esseri umani, per di più se poeti, siamo poi “quel che di grande”.
@Cornacchia
Ripeto quanto già scrissi in un altro blog: non c’è nessun complotto in poesia, ci sono solo circoli privati classisti – come ci sono in ogni tipologia artistica e culturale, in politica, in società, ecc. –. C’è chi fa di tutto per entrarci e chi sta volentieri fuori. Non mi pare che Linguaglossa si sia lamentato della propria emarginazione, si è cavallerescamente lamentato per quella di altri. E neppure io me ne sono lamentato, anzi sono ben felice di stare ai margini. Ma crede davvero che vorrei stare al posto del povero Milo De Angelis a sopportare che un cretino come me dica delle ‘cazzate’ sulla sua poesia solo per rompere, scambiando due parole su questo blog, la solitudine delle proprie giornate? A volte, quando si scrive per vocazione, si pubblica anche solo per essere in pace con la propria coscienza, non per competere con chi ambisce alle alte e fragili sfere della letteratura.
Circa i difetti delle griglie, ha ragione. Certamente però se si usano in modo clientelare perdono ancora di più di efficacia. Ma ha ragione in quanto io non ho ancora trovato, né in questo blog né in quello di poesia 2.0, una persona che apprezzi poeti che anche a me piacciono. Si, anche quel poeta che sarei io di cui parla Linguaglossa non mi piace, perché nonostante gli apprezzamenti non è quello che io credo di essere. Magari ha ragione lui, ma le griglie sono proprio per questo un pericolo: ci fanno perdere di vista l’affettività che sta dietro ad ogni scrittura e che conta molto di più delle scelte di campo formali, che del resto il poeta non fa mai a priori, perché sono essenziali al valore estetico che è tutt’al più nello stile.
Per questo ha ancora ragione lei: non serve vivisezionare le poesie per ‘sentire’ la grandezza. Però purtroppo la ‘sentiamo’ sempre e solo in base alla nostra un po’ innata un po’ acquisita struttura emotiva e intellettuale.
Roberto Bertoldo
Caro Bertoldo, ho molto rispetto per la sua vocazione e credo che lei abbia capito perfettamente il senso della mia piccola tirata. Cerchero' di leggere qualcuno dei poeti che piacciono a lei, come segno di compartecipazione e stima nel suo lavoro. Cordiali saluti. Giuseppe Cornacchia
il 5 ottobre 2011 scrivevo questo commento in un dibattito avvenuto sul sito Lietocolle ma da allora non ho ottenuto nessuna risposta. Lo ripropongo:
… Alfonso Berardinelli afferma di nutrire stima soltanto verso 10 poeti del Novecento ma omette di farne i nomi, a suo dire, per non crearsi antipatie e inimicizie tra coloro che non sono segnalati… a sua volta Andrea Cortellessa afferma perentoriamene che la poesia oggi è qualitativamente superiore alla narrativa (ma anche lui omette di indicare chi siano i beneficiari della sua stima in poesia)…
di questo passo si rischia di andare avanti all’infinito a parlare, tra censure e autocensure, di un bel nulla…
io invece ritengo che la poesia la si trova nei libri di poesia scritti da persone in carne ed ossa…
A scanso di battute e di facili effetti giornalistici, mi piacerebbe conoscere l’opinione di Cortellessa e di Berardinelli sul libro di Giorgio Linguaglossa «Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010), recentemente uscito per EdiLet di Roma.
Sarei curiosa di conoscere la loro opinione sulle questioni sollevate da Linguaglossa che qui riassumo:
1)sul concetto di “Bellezza” che negli anni Ottanta e Novanta ne hanno dato i mitomodernisti;
2) il loro pensiero su concetti quali: “l’esistenzialismo milanese”, il “minimalismo” il “modernismo”; le categorie storico-temporali: “gli anni Settanta”, “gli anni Ottanta”, “gli anni Novanta”, “verso gli anni Dieci”, etc.;
3)è fondata la tesi dei nodi irrisolti della poesia italiana del secondo Novecento, affrontati nel capitolo “gli anni Sessanta”?
4) è fondata la tesi del nodo fondamentale che né Pasolini, né Montale, né la neoavanguardia né nessun altro aveva affrontato (la deriva verso la narratività)?; e che quel nodo irrisolto sarà destinato a ripresentarsi, come un bubbone, ingrossato, ad ogni generazione, in attesa di una soluzione?;
5)è fondata la tesi di Linguaglossa che parla esplicitamente di “modello maggioritario” che si è imposto dopo la “sconfitta” di Fortini e di Ripellino, con conseguente instradamento della poesia italiana nell’alveo del “riformismo moderato” della riforma sereniana?;
6) è fondata la tesi di Linguaglossa secondo il quale che il più grande poeta degli anni Cinquanta è un certo Ennio Flaiano (il quale si opponeva allo sperimentalismo e al linguaggio poetico postquasimodiano)?;
7) è fondata la tesi di Linguaglossa il quale cita un giudizio del tardo Giovanni Raboni, il quale mette in rilievo che forse la riforma sereniana, a fronte della ipotesi di riforma indicata da Franco Fortini, era una piccola riforma e che la poesia italiana che seguirà la strada aperta da Sereni si avvierà verso una poesia più facile e leggibile (e quindi più conformista)?;
mi sembra che nel libro Linguaglossa abbia messo molta carne al fuoco… l’autore dice che sono state combattute delle battaglie, ci sono stati degli sconfitti e dei vincitori, Chi sono gli sconfitti? Chi sono i vincitori? vogliamo dirlo?
9) e poi, la domanda più pressante al quale il libro tenta di dare una risposta, che ne è rimasto del minimalismo romano-milanese?
10) c’è per la poesia italiana contemporanea un futuro? C’è concretamente la possibilità che qualcuno dei balbettanti autori di oggi buchi la cortina fumogena del tetragono conformismo quale si è instaurato in Italia (anche grazie ai silenzi dei critici opportunisti)?
grazie, attendo una risposta.
Laura Canciani
Ritengo che, giustamente, così com'è avvenuto nel sito di Lietocolle, non si debba rispondere ad una persona faziosa e maliziosa come lei. Perchè mai due critici seri, Berardinelli e Cortellessa, con i loro dubbi e interrogativi a volte senza risposta o con risposte parziali e comunque aperte, o con le loro contraddizioni, sofferte anche, a volte, in ogni caso nutritive, dovrebbero regalare la loro opinione alla Santanchè della critica nei blog, che si esprime come autentica figlia dell' odio? ( "Chi sono gli sconfitti? Chi sono i vincitori? Vogliamo dirlo?" neanche fossimo al Colosseo.) Il suo non è desiderio di confronto, nè mi interessa sapere di che si tratta, so di certo che lo ritengo offensivo e lesivo e che non fa bene alla poesia e al dibattito che ruota attorno alla sua fragilità e delicatezza. Non si fa critica mettendo al rogo, dando in pasto alla folla, esigendo consenso e plauso. Impari con umiltà e garbo da chi sa far critica, non sottovaluti l" utenza", in questo modo non giova a nessuno, tantomeno alla sua causa.
d.s.
Ennio Abate a Laura Canciani e a d.s. ma a tutti gli utenti del blog:
QUESTO POST NON DEVE DIVENTARE UN DOPPIONE DI QUELLO DI POESIA 2.O NE' E' IN CONCORRENZA CON QUELLO.
HO INDICATO ALL'INIZIO IL LINK PER SEGUIRE IL DIBATTITO SU POESIA 2.O E CHI HA VOGLIA PUO'FARLO. SU MOLTIPOESIA I COMMENTI DEVONO RIGUARDARE I TEMI QUI AFFRONTATI.
AVVERTENZA PER TUTTI/E:
DA ORA IN POI CANCELLERO' I DOPPIONI.
Gentile signor Abate, le faccio presente che il primo ad aver effettuato questo travaso, è proprio Giorgio Linguaglossa con il saggio di Dante Maffia su Millimetri.
Ma sono inutili doppioni. L'invito vale per tutti.
Aggiungerei anche l'invito a commentare col il proprio nome. L'anonimato è sopportabile solo se ci fossero ragioni serie per ricorrervi.
Ennio Abate:
@ Linguaglossa
« Ma caro Ennio, qui il problema non è stilistico, non è solo estetico ma politico in senso generale».
Beh, è quello che vado dicendo io pure da tempo. Purtroppo non mi pare che in questa discussione avviatasi attorno alla figurae alla poesia di Milo De Angelis, le ragioni politiche sottostanti arrivino a piena evidenza e se ne sentano gli effetti positivi (qui o su Poesia 2.0).
Non mi pare cioè che si abbia sufficiente conoscenza del contesto storico che ha portato *anche* al «degrado della poesia post-fortiniana». Né che si scorgano i legami tra la sconfitta dell’ipotesi politico-poetica fortiniana e il disastro politico in cui è precipitato il nostro Paese dai tempi del «compromesso storico» ad oggi. Lo sguardo storico dei poeti (specie dei giovani) e dei critici s’è annebbiato. Al massimo ricostruisce apologeticamente le vicende che nell’ “orticello poetico” videro le leve scalpitanti e anti-sperimentaliste della «parola innamorata» o i «Fratelli amorevoli» (gli antenati anni ‘70-’80 del “ceto medio mediatico” o “poetico”di oggi), cioè quel pubblico della poesia che oggi porta in trionfo sulle spalle il De Angelis “mondadoriano”.
(Tra l’altro questi ragionamenti politici mancanti darebbero un segno più ambiguo alla pur rispettabile cautela di Bertoldo nel pronunciarsi sulla poesia e la figura di De Angelis, ma renderebbero meno “eroicistica” e più complicata la necessaria e paziente costruzione di una strategia di vero contrasto di queste poetiche e di questi personaggi, che è davvero vano contrastare sul piano della disamina di questo o quel testo o sul piano del gusto personale e impressionistico, come mi pare faccia Laura Canciani).
Questo nodo (politico e non solo estetico-politico) ho cercato di evocarlo non casualmente nel titolo di questo post e richiamandomi alla vicenda tra Nietzsche e il suo maestro di filologia, vicenda che qualche sotterranea analogia con il rapporto De Angelis/Fortini davvero l’ha.
Credo sia utile tornarci su più in dettaglio e, sapendo che i più non conoscono la materia, è bene che io riassuma brevemente il contenuto di * Una lettera a Nietzsche* (in * Insistenze*, Garzanti 1985).
Scrive Fortini: «Nel gennaio 1872 Nietzsche pubblica* La nascita della tragedia*, la sua prima opera». Essa suscitò molte polemiche. E Nietzsche si lamenta con un amico che dal suo maestro, Friedrich Wilhelm Ritschl, uno dei massimi filologi «di Germania cioè d’Europa», ormai di sessantacinque anni e che «solo altri quattro ne aveva da vivere», il quale l’aveva scoperto ventiduenne e «aiutato, incitato, sostenuto», facendogli pubblicare i primi studi, non gli era arrivata neppure una parola.
Gli arriverà, però, con una lettera, il 14 febbraio 1872. In essa Ritschl si domandava se Nietzsche, esaltando il momento dionisiaco e denunciando nel razionalismo socratico l’inizio della decadenza greca, non cadeva «in un immaturo disprezzo della scienza, senza acquistare in compenso maggiore sensibilità per l’arte - se insomma, invece di allargare il campo alla poesia *non* si spalancassero le porte ad un universale dilettantismo…». [Dice nulla oggi? Nota mia].
[Continua 1]
Ennio Abate (continua):
Fortini rileggeva questa lettera a Nientsche alla luce del dramma degli anni Settanta, in un momento in cui - diceva - «dobbiamo impedire che la ripugnanza per l’estremismo peggiore (e per la letteratura tragico-sublime che esso sottintende) ci nasconda il dovere di agire, di combattere finalmente quel che ci marcisce vivi».
E aggiungeva, a riguardo del rapporto tra il giovane Nietzsche e il suo maestro- padre «da distruggere»:
«Eppure, forti del senno di poi, sappiamo che Ritschl non difende solo le formule d’un umanesimo minacciato dalle meteoriti dei frammenti di presocratici e dall’esaltazione angosciosa e satiresca cara al suo audace discepolo; perché l’uno come l’altro presentono, al di là delle proprie idee, il mondo reale e terribile della grande industria, del colonialismo e delle stragi moderne».
Come si vede, ho ripescato questo scritto di Fortini, per due ragioni precise: - illumina il nodo Fortini-De Angelis, rapporto ben più conflittuale di come oggi viene presentato; - permette di capire più a fondo (a chi se ne vuol rendere conto…) la portata della sconfitta (fortiniana e della sua parte o del “ceto medio ancora non del tutto mediatico di allora) e quanto sia stato compiacente coi “vincitori” l’adattamento all’esistente di un De Angelis o dei suoi ammiratori, che nella sua poesia facilmente ( e religiosamente) si ritrovano e che, come tanti negli anni fine Settanta-Ottanta, nel «decennio neonietzschiano», vi hanno trovato «i lampi della solitudine tragica», efficace nella rimozione della realtà quanto una droga.
@ Luigi Bianchi
Ho ascoltato l’intervista di De Angelis, raccolta da Luigia Sorrentino su RAI 1. A me pare confermi quanto appena ho scritto: la rimozione dei problemi drammatici di quegli anni e l’equivocità dell’incontro tra De Angelis e Fortini. (Tra l’altro a me alcuni amici hanno parlato anche di scontro). Esso è stato in fondo irrilevante per De Angelis. Egli lo dichiara chiaramente nell’intervista: veniva da un’altra strada (si vanta di essere rimasto estraneo alla «bufera delle ideologie che imperversavano negli anni Settanta») e proseguiva per la sua strada, oggi visibile nel suo approdo. Nell’intervista si limita a dire distrattamente che Fortini era un ottimo lettore di testi poetici, capaci di affondi formidabili (e credo che si riferisca ai suoi, di De Angelis), che Fortini aveva uno «sguardo tagliente, incontentabile», ma che non c’era nessuna possibile intesa tra i i suoi riferimenti culturali (Campana, Blanchot, Céline, Pavese) e quelli di Fortini ( Brecht, Lukács, Roversi, Pasolini, Volponi).
@ Cornacchia
Quando privilegi gli «esordi» e scrivi «la "carriera" poetica e' molto spesso un solo libro, quando non alcune poesie estratte da un solo libro» fai agire un tuo canone, che mi pare riconducibile allo schema di una età dell’oro che inevitabilmente si degrada col tempo. (Trascuri ad es. quanto un saggio di Luca Lenzini * Stile tardo. Poeti del Novecento italiano* (Quodlibet 2008) ha messo in rilievo: che « Ci sono artisti – pittori, poeti, musicisti – che nelle loro opere ultime han trovato la forza per rinnovarsi e indagare territori sconosciuti e sorprendenti, aprendo strade inedite per chi è venuto dopo di loro.»).
[Continua 2]
Ennio Abate (continua):
Quando poi dici «possiamo intuire serenamente come ci siano decine, se non centinaia di poeti ignoti che non hanno avuto e mai avranno alcuna visibilità ed impatto, seppur esteticamente migliori, ma la letteratura e' anche una pratica sociale, sebbene sempre meno diffusa», dai per scontato che tale «pratica sociale» non possa che svolgersi sempre in certi binari (quelli appunto del «Grande Ceto Medio»…) e che, alla Verga, ci saranno purtroppo un po’ di «vinti» nella lotta per la Vita o il Progresso.
Sono affermazioni “realistiche”, svelano pure i problemi irrisolti della poesia e della pratica sociale che essa produce, ma assumono - mi pare - i toni del dogma…
Perché se le pratiche sociali sono irrigidite, se « le sorgenti editoriali odierne [sono] inquinate di connivenza e gioco al ribasso», non si capisce ( o lo si capisce solo in una visione che accetta supinamente una sorta di selezione “naturale”) come tali pratiche non «comprometteranno la ricezione nel domani dei valori estetici più profondi, non messi oggi in giusta luce».
Insomma, c’è da intervenire o no su queste pratiche sociali?
Se pur con le connivenze tra alcuni e il gioco al ribasso, la buona poesia verrà comunque fuori col tempo, ne concludo che non resti che aspettare, senza sprecarsi in riflessioni teoriche o in polemiche oziose.
Se poi «non c'e' nessuna ragione fondata per credere che le griglie di Linguaglossa, di Bertoldo, di Abate o le [tue] siano più efficaci di quelle dei minimalisti mondadoriani di Milano», non si capisce perché discutere oltre…
Ecco qui non capisco.
Ripeto, allora, la domanda che sta alla base di questo post: c’è o no l’esigenza di contrastare una poetica costruendo un’altra poetica? O tutto affonderà «nello stagno sempre più piccolo della poesia italiana» e qualsiasi sforzo d’interrogarsi sulla crisi o di prospettare qualche ipotesi (la mia di poesia esodante) è perdita di tempo? Davvero « Ogni griglia manovra fantocci o burattini scelti più o meno casualmente nel mucchio»? Davvero tutto questo discutere è un remare in una stanza chiusa e su un mare finto, come suggerisce maliziosamente anche Rita Simonitto ( nel post vicino: “Prosa, poesia ed altro”) commentando il quadro di De Chirico il ‘Ritorno di Ulisse’?
Per non fare gli Eroi, per non remare una barca che «naviga nel suo mare (tappeto) chiuso in una stanza, la stanza chiusa nella cornice del quadro, in un quadro che sarà contenuto in una stanza», per non perderci « negli ‘spulciamenti’ sugli autori, che sono certamente dei phantasmata, ovvero portatori di certe ideologie», mi pare proprio giusto entrare - ho cercato di farlo sopra rivolgendomi a Linguaglossa - «in merito alle ideologie stesse e alla loro funzione».
Dobbiamo uscire dalla possibile ambiguità. E ciascuno lo può fare dicendo cos’è questo altro in cui investire le nostre migliori energie.
Cos’è quest’altro per te, Cornacchia? Cos’è degno d’attenzione da parte delle « migliori menti e i migliori cuori di questo Paese»? È il campo che sta «al confine tra scienza applicata e filosofia pragmatica», tra Moda e Marketing? È il «turbinio del presente» (posizione a volte affacciatasi in questo blog anche negli interventi di Lorenzo Pezzato e Ivan Pozzoni), che noi «retroguardia di persone drammaticamente indietro» non riusciamo a vivere e a capire?
Ma le cose anche a me non pare che stanno come tu dici.
Altro che «ancoraggio alla Tradizione». Qui stiamo da tempo ripetendo che di essa restano solo rovine. E nessuno, come ha spiegato Linguaglossa, ha parlato di complotto per tenerci fuori dalla stanza dei bottoni della Poesia.
Io direi, piuttosto, che c’è una spinta unanime e massiccia a sottomettersi a questo Unico Presente di Moda e di Marketing (via anche la tua breneamata filosofia pragmatica, ma via anche le scelte editoriali mondadoriane e non solo, che pragmatiche sono in fin dei conti anche quelle…).
È questa pressione ad aver preso il posto della Tradizione.
[Continua 3]
Ennio Abate (continua):
Quando poi dici «possiamo intuire serenamente come ci siano decine, se non centinaia di poeti ignoti che non hanno avuto e mai avranno alcuna visibilità ed impatto, seppur esteticamente migliori, ma la letteratura e' anche una pratica sociale, sebbene sempre meno diffusa», dai per scontato che tale «pratica sociale» non possa che svolgersi sempre in certi binari (quelli appunto del «Grande Ceto Medio»…) e che, alla Verga, ci saranno purtroppo un po’ di «vinti» nella lotta per la Vita o il Progresso.
Sono affermazioni “realistiche”, svelano pure i problemi irrisolti della poesia e della pratica sociale che essa produce, ma assumono - mi pare - i toni del dogma…
Perché se le pratiche sociali sono irrigidite, se « le sorgenti editoriali odierne [sono] inquinate di connivenza e gioco al ribasso», non si capisce ( o lo si capisce solo in una visione che accetta supinamente una sorta di selezione “naturale”) come tali pratiche non «comprometteranno la ricezione nel domani dei valori estetici più profondi, non messi oggi in giusta luce».
Insomma, c’è da intervenire o no su queste pratiche sociali?
Se pur con le connivenze tra alcuni e il gioco al ribasso, la buona poesia verrà comunque fuori col tempo, ne concludo che non resti che aspettare, senza sprecarsi in riflessioni teoriche o in polemiche oziose.
Se poi «non c'e' nessuna ragione fondata per credere che le griglie di Linguaglossa, di Bertoldo, di Abate o le [tue] siano più efficaci di quelle dei minimalisti mondadoriani di Milano», non si capisce perché discutere oltre…
Ecco qui non capisco.
Ripeto, allora, la domanda che sta alla base di questo post: c’è o no l’esigenza di contrastare una poetica costruendo un’altra poetica? O tutto affonderà «nello stagno sempre più piccolo della poesia italiana» e qualsiasi sforzo d’interrogarsi sulla crisi o di prospettare qualche ipotesi (la mia di poesia esodante) è perdita di tempo? Davvero « Ogni griglia manovra fantocci o burattini scelti più o meno casualmente nel mucchio»? Davvero tutto questo discutere è un remare in una stanza chiusa e su un mare finto, come suggerisce maliziosamente anche Rita Simonitto ( nel post vicino: “Prosa, poesia ed altro”) commentando il quadro di De Chirico il ‘Ritorno di Ulisse’?
Per non fare gli Eroi, per non remare una barca che «naviga nel suo mare (tappeto) chiuso in una stanza, la stanza chiusa nella cornice del quadro, in un quadro che sarà contenuto in una stanza», per non perderci « negli ‘spulciamenti’ sugli autori, che sono certamente dei phantasmata, ovvero portatori di certe ideologie», mi pare proprio giusto entrare - ho cercato di farlo sopra rivolgendomi a Linguaglossa - «in merito alle ideologie stesse e alla loro funzione».
Dobbiamo uscire dalla possibile ambiguità. E ciascuno lo può fare dicendo cos’è questo altro in cui investire le nostre migliori energie.
Cos’è quest’altro per te, Cornacchia? Cos’è degno d’attenzione da parte delle « migliori menti e i migliori cuori di questo Paese»? È il campo che sta «al confine tra scienza applicata e filosofia pragmatica», tra Moda e Marketing? È il «turbinio del presente» (posizione a volte affacciatasi in questo blog anche negli interventi di Lorenzo Pezzato e Ivan Pozzoni), che noi «retroguardia di persone drammaticamente indietro» non riusciamo a vivere e a capire?
Ma le cose anche a me non pare che stanno come tu dici.
Altro che «ancoraggio alla Tradizione». Qui stiamo da tempo ripetendo che di essa restano solo rovine. E nessuno, come ha spiegato Linguaglossa, ha parlato di complotto per tenerci fuori dalla stanza dei bottoni della Poesia.
Io direi, piuttosto, che c’è una spinta unanime e massiccia a sottomettersi a questo Unico Presente di Moda e di Marketing (via anche la tua breneamata filosofia pragmatica, ma via anche le scelte editoriali mondadoriane e non solo, che pragmatiche sono in fin dei conti anche quelle…).
È questa pressione ad aver preso il posto della Tradizione.
[Fine]
Caro Abate, la ragione per cui siamo e sono qui e' per scambiare opinioni estetiche sui testi letterari. A me non importa la lotta tra poetiche o quella tra manovratori di pratiche editoriali, perche' non incidono realisticamente su nulla: nessuno di loro parla in TV, nessuno si rivolge a piu' di 100-200 persone. Se volete fare politica, gli strumenti sono ancora quelli canonici: associazionismo dal basso e poi soggetto politico vero e proprio, sempre che il rigurgito grillino / dipietresco non mandi tutto all'aria fra qualche mese.
Lo sbalzo quantico degli ultimi quindici anni -rappresentato da internet e dal suo essere divenuto accessibile alle masse- ha demolito l'aura dell'intellettuale pasoliniano / fortiniano. Chiamare questo livellamento come "Grande Ceto Medio-Mediatico" e' un modo per dare forma a cio' che e' avvenuto, ma a livello estetico l'unica novita' in Italia dalla fine del secolo XX e' l'epigonismo culturale di matrice anglo-americana, che ha prevalso sia sul realismo italiano (da Verga in giu') che sull'europeismo della seconda meta' del secolo scorso. Potremmo discutere su chi ha inoculato il virus alle masse (se Elvis Presley, Adriano Celentano o la TV di Berlusconi). Paradossalmente, la poesia di De Angelis va contro quell'epigonismo perche' si riallaccia a tradizioni orfico/ermetiche continentali e propriamente europee. Io stesso sono un epigono di matrice culturale anglo-americana.
Sull'autorialita' confinata all'esordio, non e' certo mia idea che sia giusta, ma e' l'esito sul campo dei poeti tramandati dalla pratica editoriale odierna. In poesia, prove "mature" sono state fornite da Bertolucci, Bacchini, Sereni, Caproni, Luzi per dire di altri tramandati canonicamente.
Ma mi preme sottolineare un altro concetto: la poesia non e' ancella alla politica o ad un programma sociale. La poesia accade, e' il frutto inutile di un talento individuale, come la musica. L'unico momento in cui la poesia si fa "resistenza" e' in Paesi oppressi e non democratici. Si puo' ragionare su quanto l'Italia attuale sia oppressa e non democratica, ma faremmo un discorso in gran parte ozioso, sia a livello basilare (i gulag non ci sono, c'e' stata Bolzaneto che e' un'altra cosa) che a livello piu' raffinato (siamo inconsciamente oppressi e non ce ne accorgiamo, vedi governo tecnico calato dall'alto). Voler riscrivere la Storia a partire dalla poesia pertiene ad un'idea di stampo decisamente continentale. Non condividerla e rimanere sugli esiti testuali non e' segno di disinteresse, e' un'altra maniera di approcciarsi anche al sociale.
Saluti. Giuseppe Cornacchia
Di fronte alla tua disamina, ribadisco, e poi spiegherò perché, il fatto di non essere un critico. Partendo da quanto dici su De Angelis/Fortini, io amo tanto Céline quanto Lukacs e non solo per ragioni estetiche o per il loro maggiore valore culturale rispetto agli altri che nomini ma anche per la loro passione sovversiva, al di là degli specifici rivestimenti politici. Non sono dunque un critico, purtroppo; sono un poeta (e lo dico in senso negativo, ossia di ‘mancanza’) e come tale il mio approccio alla scrittura e alla lettura è un approccio affettivo-estetico. Scrivo e giudico in base non a griglie o programmi ma al rapporto principalmente, e dico ‘principalmente’, emotivo con la realtà. Dopo, e solo dopo, indago l’esito estetico e politico dell’espressione. Questo è quello che fanno tutti i poeti veri, ossia creativi, grandi o piccoli che siano. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che il tuo discorso, che condivido, è un discorso da critico, che non riguarda l’atto creativo ma il giudizio, e c’è una distanza epistemica siderale tra l’uno e l’altro. Credo che la difficoltà, in ogni caso costruttiva, su cui si muove spesso Moltinpoesia sia dovuta proprio a questo doppio binario non interagente tra critici e poeti, tra la posizione da critico e la posizione da poeta che ognuno di noi cerca di assumere alternativamente. In altre parole, il discorso politico serve all’acquisizione piena o distorta di modelli che sicuramente agiranno sulla creatività ma, nella poesia davvero creativa, solo inconsciamente. In ogni caso, anche senza tali discorsi il poeta può assumere involontariamente una posizione politica, anzi l’assume senz’altro. Ma questo riguarda appunto la disamina del critico, che può buttare a mare un poeta in quanto a suo dire dannoso ma non può intervenire sulla creatività, come invece mi pare che sia tu che Linguaglossa vogliate fare. Ma così, volenti o nolenti, vi comportate da robespierriani come gli stessi che accusate, anche se loro spesso si comportano così per ragioni molto meno nobili delle vostre.
So che questa mia posizione può essere scambiata per qualunquista e dunque pilatesca, ma non è così. Perché è appunto corroborata da una passione per i valori vitali che non la renderà mai vittima dei mercanti. Torniamo, per chiarire ciò, a Céline: da medico serviva i poveri rinunciando spesso a farsi pagare; come scrittore ha rappresentato il ceto umile con la grandezza di Dostoevskij. Ti chiedo: perché non è fortiniano? La sua rabbia, purtroppo poi divenuta troppo autoreferenziale, nacque nel clima dell’ingiustizia sociale, quello è lo spirito della sua “poesia”, nessuna pretesa estetico-politica poteva lederglielo.
Forse anche su questo ci possono essere dei dubbi, guardando alla produzione successiva a Morte a credito; ma una cosa è palese: anche nei libri stilisticamente più manieristi, ciò che a Céline non viene a mancare è lo sguardo verso la miseria, verso i deboli, le vittime.
Si può lottare contro ciò che riteniamo privi la società dei valori in cui crediamo, lottare con le armi, con il lavoro, con la filosofia, con i ragionamenti politici o estetici, contro le caste letterarie, intellettuali o di governo, ma nel momento in cui si scrive poesia, quando cioè si agisce linguisticamente sul mondo, si raccoglie, se si è sinceri e altruisti, quanto si è seminato in questa lotta. Allora le nostre metafore, i nostri iperbati, ecc., sono la ricostruzione diretta della nostra ideologia, non l’esito.
Non posso dunque che essere cauto nel giudicare i poeti creativi come De Angelis; per esempio a me non piace ciò che ho letto di Claudia Ruggeri, citata positivamente da Giuseppe Cornacchia, ma che temperamento, che vitalità poetica! E queste caratteristiche, e altre indicative di personalità, valgono molto di più di tutti i nostri discorsi e del mio gusto.
Roberto Bertoldo
@linguaglossa @abate
Gentile Linguaglossa,
Seguo il suo lavoro sulla poesia italiana da molti anni, dai tempi della rivista "Poiesis". Ho subito apprezzato e condiviso il tono fermo con cui Lei iniziava a criticare una certa idea di poesia "minimalista" nei suoi vari aspetti, tutti comunque di piccolo cabotaggio: diaristico o quotidiano, vezzeggiativo o freddurista. Le sue letture impietose dei vari Magrelli, Lamarque, D'Elia, Frabotta, Zeichen mi sono sembrate nell'insieme efficaci e ben argomentate, convincenti.
Poi qualcosa si è inceppato nel legame di simpatia con le Sue posizioni. Innanzitutto i poeti che Lei dichiarava e continua a dichiarare importanti (Madonna, Stecher, Stace, Pedota, ecc) a me non sembrano tali, tutt'altro. In secondo luogo mi hanno allontanato da Lei sia l'uso sempre più libero di un termine come "minimalismo" sia le Sue prese di posizione polemiche verso alcuni poeti che stimo, tra cui Vittorio Sereni (a mio parere ben più nuovo e difficile del brechtiano Fortini), Mario Benedetti, Milo De Angelis, Antonella Anedda: su quest'ultima Lei, mi perdoni, ha scritto alcune pagine che ritengo tra le Sue meno felici, per il tono sprezzante che le percorre ("Appunti critici", ed. Scettro del Re, pp. 97-98).
Ma qui ritorno a Milo De Angelis, che è l'argomento del dibattito. De Angelis, a mio parere, non ha alcun tipo di analogia con la Merini: è scostante, aspro, oscuro. Non vedo in lui patetismo o cedimento sentimentale. Al contrario. Vedo semmai un rifiuto fin troppo dichiarato, quasi programmatico, della commozione, come nel requiem freddo "Tema dell'addio".
Milo De Angelis inoltre non riguarda il minimalismo. I suoi pregi e i suoi difetti vanno cercati altrove. De Angelis viene dall’emisfero opposto, ossia da una sorta di massimalismo esasperato, con domande che sono sempre puntate al limite (ma non sempre - questo è vero e di questo bisogna discutere - sono sostenute dal necessario controllo nell'affrontarle). La presenza di un titanismo tragico di ascendenza greca attraversa per intero la sua opera ed è da lì che occorre partire per comprenderla.
A Ennio Abate dico che mettere De Angelis sul carro dei vincitori (degradati comunque a "ceto medio") e Fortini su quello dei vinti (non riconosciuti e dunque gli unici davvero nobili), è un colpo basso. Come Lei sa (ma altri forse no), ci sono centinaia di studi, tesi di laurea, traduzioni, saggi e antologie scolastiche che sottolineano l'importanza di Fortini, un Meridiano già uscito e un secondo che uscirà, persino un film dei fratelli Huillet e una rivista on line che s'intitola "L'ospite ingrato". Ci sono poi altre riviste di impronta fortiniana ("Allegoria" di Luperini, "L'immaginazione") un Premio Letterario a lui dedicato, un numero imponente di voci italiane ed estere nella rete, oltre a numerosi critici (Romano Luperini, Antonio Prete, Luca Lenzini, Guido Mazzoni e altri) che continuano a riproporne la lettura. Cosa che fa anche lei, d'altronde, Ennio Abate, con ammirevole tenacia.
Marco Azzolini
@ ennio abate
Ennio Abate, se lei fa una citazione tra virgolette, deve essere preciso. Lei afferma (26.8.2012,ore 22e 58) che nell'intervista a Rainews24 Milo De Angelis si vanta di essere rimasto estraneo alla "bufera delle ideologie che imperversavano negli anni Settanta" e ne trae le sue conseguenze. Provi ad ascoltare meglio. De Angelis non dice nulla del genere. E tantomeno "se ne vanta". Ci tengo a puntualizzarlo, perché "Somiglianze" mi è sempre parso un libro pieno di quegli anni e delle loro tempeste, che lo percorrono come un filo spinato. Poesie come "Un perdente", "La passeggiata", "Litanie" o "Lo scheletro del pesce" (faccio solo alcuni esempi) sono incomprensibili fuori dal subbuglio politico di allora e "Somiglianze" esprime anche questo rapporto controverso e lacerato con lo spirito del tempo.
Luigi Bianchi
Ennio Abate:
POSTILLA
SOGNO COLLATERALE ALLA MIA RIFLESSIONE (26 ag 2012).
Proviamo a immaginare un gruppo di persone (poeti e critici) che discutessero della poesia contemporanea e dei testi di De Angelis, Linguaglosa, Bertoldo e altri, qui nominati o no, correggendo l’effetto di distorsione ideologica che viene alla valutazione dei testi dall’essere alcuni “assunti” nel “cielo mondadoriano” e altri esclusi.
Proviamo, anzi, ad immaginare i testi di De Angelis come se non fossero stati pubblicati dalla Mondadori, non avessero avuto quel supporto di riflessioni e recensioni proposte come una campagna pubblicitaria su Poesia 2.0, non avessero conquistato un certo pubblico di ammiratori che lo applaudono e condizionano.
Se riuscissimo a fare quest’operazione di depurazione ideologica, forse si stabilirebbe una diversa gerarchia, meno sbilanciata di quella di adesso a favore di De Angelis. La sua opera apparirebbe in un contesto più dinamico e ampio, perderebbe quell’ ”aura” artificiale e di potere nient’affatto “tragico” e nient’affatto dovuto alla sua “autorevolezza”, che le viene appunto dall’essere diventata “mondadoriana” ( e che in parte la deforma o danneggia, mica solo la esalta…).
Ho sempre pensato che si può leggere un poeta stabilendo con le sue parole un rapporto “privato”, ma che il rapporto “pubblico” (il dover fare i conti con quelle parole ma contemporaneamente anche con le rifrazioni che esse hanno già avuto in altri lettori e critici) è più complicato, ma anche più interessante. Nel primo caso si costruisce solo il proprio ‘io’ di lettore, nel secondo il ‘noi’, altrettanto decisivo.
È dalla considerazione delle contraddizioni inevitabili tra le due letture ( del resto qui rappresentate da quella degli innamorati di De Angelis che tendono a prescindere il più possibile dal contesto e quelle dei critici, che tendono a mettere in primo piano il contesto) che può venir fuori tutta la complessità del fare poesia…
Ennio Abate:
@ Azzolini
No, il mio non è (solo) un «colpo basso». Il rapporto De Angelis/Fortini, credo di averlo spiegato, deve uscire dall’agiografia ed essere sondato criticamente. Su “Fortini nel 2012” ci stiamo interrogando sul numero 9 di «Poliscritture» e sul sito (a questo link:http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=18&Itemid=23) si possono già leggere vari contributi. Non basterà però a farlo uscire dall’ombra nemmeno l’eventuale (e ostacolato) Meridiano sulla sua poesia. I motivi del suo attuale discredito sono più complessi. Ne parlo in un saggio di ripensamento del Convegno «Dieci anni senza Fortini (1994-2004)» tenutosi a Siena, che presto metterò sul medesimo sito.
@ Bianchi
Ha ragione. Nell’intervista l’espressione «bufera delle ideologie che imperversavano negli anni Settanta» è stata usata dalla Sorrentino e nel mio commento appare attribuita a De Angelis. Me ne scuso. Resta però aperto il problema di come quella «bufera» sia presente nei libri di De Angelis.
Ma ammetto che è un altro discorso.
In "Il bosco sacro" Eliot nel 1920 scrive:
« fa parte del mestiere del critico preservare la tradizione... là dovew una buona tradizione esiste Fa parte del suo mestiere vedere la letteratura nella sua continuità e nel suo complesso; e questo significa soprattutto vederla non come fatto consacrato dal tempo, ma come fatto al di fuori del tempo; vedere le migliori opere del presente e le migliori opere di venticinque anni fa con occhio eguale. Fa parte del suo mestiere aiutare i poetastri e a capire i loro limiti: il poetastro che capisce i propri limiti diventerà una utilissima intelligenza di seconda categoria: un buon poeta minore (cosa rarissima) o, a sua scelta, un buon critico. Quanto alle intelligenze di prima categoria, nel caso che qualcuna ne fiorisse, essa non si troverebbe danneggiata dall'essere inserita in una "corrente di idee"; la solitudine di cui saranno sempre e dovunque circondate è cosa molto diversa dall'isolamento, da quella vera e propria monarchia di morte».
Queste parole di Eliot cadono a proposito. Io, molto modestamente, mi sono accinto alla attività di critico, e cioè all'incirca attorno al 1992, quando mi sono accorto che in Italia occorreva esercitare una attività di critico libero e indipendente dalle posizioni delle Istituzioni (di tutte le istituzioni), ma a questo punto mi sono accorto che un critico militante avrebbe dovuto andare in rotta di collisione con tutte le idee ricevute e diffuse tra i più, avrebbe dovuto iniziare una attività destruens molto intensa. Parallelamente, mi rendevo conto che la via destruens non poteva essere scollegata da una construens... ma in me non c'era alcuna intenzione di stare dalla parte dei poveri ma belli contro i ricchi e brutti, e pensare che altri critici (non faccio i nomi) si sono ben guardati di mantenere una posizione così scomoda, lo stesso Berardinelli, molto prudentemente, afferma (come ha ricordato la Canciani) che lui tiene in considerazione soltanto 10 poeti ma, molto opportunamente si guarda bene dal farne i nomi. Io, invece, ho fatto il contrario, ho fatto i nomi dei poeti di cui non condividevo l'impostazione, diciamo, programmatica. Di qui anche un serto mio isolamento (di cui non mi lamento) e l'accusa di essere un robesperriano. Tutto qui.
Ripeto, la questione è politica ma nel senso di politica estetica. E poi il fatto di rivolgermi a 100 o 200 persone è un dato di fatto che avevo già preventivato. Se avessi voluto fare il capopopolo avrei fatto la scelta di Di Pietro o di Grillo...
E poi, ripeto, il compito di un critico non è quello di riscuotere consenso ma di seminare delle idee... che forse un giorno germoglieranno. In un certo senso, il suo compito è quello di scompigliare i luoghi comuni e i valori estetici dati come assoluti e indiscutibili.
Mi limito a ricordare che se fare poesia è cosa complessa, anche il fare critica è cosa complessa e molto più rischiosa...
giorgio linguaglossa
Ennio Abate:
Caro Cornacchia,
capisco e rispetto le tue convinzioni e ammetto che la tua sia «un’altra maniera di approcciarsi anche al sociale». Ma insistere, anche se le nostre posizioni divergono, mi pare esercizio sempre utile (per me, il mio interlocutore, gli eventuali quattro lettori).
Perciò obbietto:
1. No, siamo arrivati al punto in cui chi volesse far politica, non dispone più di strumenti canonici. Se li deve trovare. E io appunto li cerco (non è detto che li trovi…) lontanissimo da grillini e dipietristi e - guarda un po’ - persino “in zona poetica”.
2. Troppo ambiziosamente (o da don Chisciotte) vorrei criticare proprio quella che tu presenti come « l'unica novita' [in campo estetico] in Italia dalla fine del secolo XX» e cioè - banalmente - l’americanizzazione (culturale e politica, non solo estetica…).
3. La poesia di De Angelis «si riallaccia a tradizioni orfico/ermetiche continentali e propriamente europee». D’accordo. Non la ritengo però un argine all’americanizzazione (o, nel tuo linguaggio, all’epigonismo culturale di matrice anglo-americana). Per me si colloca ambiguamente nel loculo predisposto dagli americanizzati “mondadoriani”. (Del resto anche la tradizione ermetica del primo Novecento se ne stette a cuccia nel loculo predispostole a suo tempo dal fascismo).
4. Ti sbagli a ritenermi un fautore della poesia ancella della politica o della poesia d’”impegno sociale” o uno che vuole «riscrivere la Storia a partire dalla poesia».
Ho parlato (anche nee ben 5 post sulla poesia esodante) di io/noi, da distinguere dall’io-io (individualismo) e dal Noi (collettivismo, comunitarismo).
Con quella formula intendo una ricerca al confine tra l’io e il noi, entrambi pensabili non più monolitici ma - con un’altra formula che uso spesso in Poliscritture - in *critica dialogante* tra loro (non esente - preciso - da conflittualità drammatica e perfino tragica, perché essa si svolge sul filo del rasoio tra i due estremi per me negativi: il solipsismo o il Noi superegoico). Interrogandomi come io/noi, il mio campo di riflessione non è solo quello dell’io (ad es. la poesia lirica) né solo quello del noi (ad es. la politica). Rischio un certo strabismo (lo coglie Bertoldo quando parla di «doppio binario non interagente tra critici e poeti» a proposito di Moltinpoesia), ma lo preferisco alla schizofrenia vera e propria o alla scelta (opportunista per me) dei due tempi o all’aut aut (autoritario) di quanti ritengono di essere ( o di dover essere) solo poeti in poesia e solo politici in politica, separando troppo nettamente, a mio parere, le due dimensioni (dell’io e del noi, della poesia e della politica).
mi prendo il compito di riportare qui la recensione di Franco Fortini a "Terra del viso" di Milo de Angelis, Mondadori 1985,che ho avuto il piacere di leggere nel blog poesia 2.0. Non credo si possa liquidarlo come doppione dal momento che il tema della discussione è il nodo Franco Fortini/ Milo De Angelis. Per me è stato utile spunto di riflessioni e spero possa esserlo anche per altri.
Franco Fortini
COME CERTE DANZE DEL CAUCASO
"Terra del viso" di Milo De Angelis, Mondadori, 1985, pagg.79, lire 18.000
Ciquantasette brevi poesie: le legga oggi chi si occupa di poesia nuova e domani anche chi non se ne occupa mai. L'autore, trentaquattro anni, è alla sua terza raccolta. Versi difficili, che non volano però al vento sulle foglie della Sibilla, ma se ne stanno ostili come scacchi a partita giocata e vogliono che noi li si ripercorra all' indietro, fin dall' inizio. Danno il labirinto e il filo, non la pianta. Il titolo intende che la faccia umana è terrestre, un' area misurabile e coltivabile, come si dice Terra Nova o Terra del Fuoco. Materia e basta. Ma quando a dirlo è una voce così esasperata, è come se gridasse: spirito e basta.
Tra i versi vengono avanti ragazzi e giovani in gara e in rischio, come per un' educazione greca, e la luce può ricordare quella dell' alba di Platone, dopo il convito. Con l' aiuto di grandi di ieri, come Campana, Mandel'stam e Celan, De Angelis vuole imprimere una regola rigida e razionale a un modo di immaginare il proprio discorso, che può invece procedere solo per balzi e scatti, come certe danze virili del Caucaso. Il personaggio-autore attacca le parole a mano armata, attento a punirsi subito d' ogni moto di compassione. Ma, per fortuna della sua poesia, vedi a occhio nudo la fragilità del cristallo che specchia siffatto atletismo. La sua solitudine è tanto più vera quanto più recitata, la fine della sua giovinezza è reale, non solo fantasticata. Così, di poesia in poesia, il lettore paziente assiste, come in teatro, a un movimento a vista. Quando scrive "la rada gioia del paradiso" o "soltanto il mio turno, benchè eterno", è ancora nel proprio "ruolo sublime", ma quando scrive "ritrovo una sintassi nei secoli già studiati" o "da un punto decrepito qualcuno ritorna e spara" oppure "l' armadio dei pochi vestiti/con cui cambiare una civiltà", senti che al di là della perentoria angoscia di assoluto e di apocalissi, il poeta sta passando dalla ricerca di fratelli a quella di amici.
"Sì, l'aveva giurato", dice l' ultimo verso di una bellissima poesia-dialogo ("31 agosto 1941") su di una podista sovietica che già morta taglia il filo di lana; e quello è ancora un giuramento solitario. Mentre, della più ricca contraddizione tra ira e pietà, testimonia, con altre, una poesia di pochi versi che mi sembrano memorabili. Ha titolo "Nei polmoni", ma meglio le converrebbe quello di due altre composizioni: "Colloquio con il padre" : "La coperta, la sua forza mentre crescevamo./ O gli occhi che ieri furono ciechi / oggi tuoi, ieri l'inseparabile. Le fiale,/ il riso in bianco diventano l'unico / mondo senza simbolo. Materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia,/ cobalto, padre, nulla, pioppi."
Franco Fortini, " Panorama", 2 giugno 1985
Un saluto
Maria Mattei
Ennio Abate a Maria Mattei:
Meglio sarebbe stato linkarlo, rimandando chi volesse a Poesia 2.O. Meglio ancora se lei avesse detto qui le sue riflessioni.
Ma ...
@ Maria Mattei,
ho l'impressione che la recensione di Fortini a "Terra del viso" sia un omaggio che l'anziano poeta rende a quello giovane e nuovo. E tale impressione la deduco dal tipo di critica che Fortini fa, direi di tipo impressionistico, con quell'epiteto «bellissima» addebitato all'«ultimo verso» di una poesia, dove si ha «un giuramento solitario» «di una podista sovietica che già morta taglia il filo di lana»; poi Fortini parla della «contraddizione tra ira e pietà di una «poesia di pochi versi», etc. e via di questo passo. Ho l'impressione che l'analisi di Fortini è rivolta a qualche verso (riuscito) di qualche poesia, colto però nella sua episodicità e dis-continuità. È stato senz'altro un bel gesto di magnanimità critica quello di Fortini, oggi completamente caduto in disuso nella disparita società letteraria dove vanno di moda gli anatemi e le esclusioni. In un altro luogo Fortini scrive: «la sua solitudine è tanto più vera quanto più recitata»; ecco mi sembra un'altra locuzione di Fortini che lascia ad intendere un pensiero interrotto, e interrotto per non incalzare l'analisi critica oltre a un certo punto, oltre quel limen dopo il quale si deve passare alla analisi delle soluzioni poetiche aperte e/o discutibili.
Maria Mattei,
In fin dei conti, io direi che non dobbiamo fare neanche di Fortini un santino da adorare qualunque cosa abbia detto, fatto e scritto. Personalmente non sono un fortiniano, ma penso che tra Fortini e Sereni lo sconfitto sia stato il primo... e si badi che quanto dico io è stato scritto 30 anni fa da Giovanni Raboni in un pezzo che ho citato nel mio "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)" che chiunque abbia dubbi lo può andare a spulciare. Dunque, è Raboni che a un certo punto intuisce (capisce) che la poesia it. ha iniziato un pendio declinante, un pendio epigonico, che quella strada aperta da Sereni (e da lui stesso) forse non avrebbe condotto la poesia it. che a un vicolo cieco. Perché, per chi non lo sappia, ci sono dei vicoli ciechi anche in letteratura. Una certa tradizione non equivale ad un'altra.
Per tornare a De Angelis e alla sua poesia, direi che il suo modo di fare densità poetica attiene al modo più semplice, si affida alle capacità della «parola» scissa e disarticolata dalla sintassi tanto per colpire il lettore con effetti semantici dis-torcenti, anti-aderenti, sempre però nel quadro di una visione nostalgico-retorica che si richiama e si affida agli dèi e agli atleti dell'antica Grecia, che ammicca a un certo Nietzsche in una vulgata molto riduttiva, direi. Nella poesia deangelisiana il singolo lessema collide e frigge con altri che l'autore ammassa e accatasta in una rissa babelica e abnorme. Di qui un certo espressionismo quale volto del «dolore» (con annessa tutta la retorica compiaciuta degli stilemi di una certa critica accademica e celebrativa). Come ho già scritto più volte, nella poesia deangelisiana dopo i primi due libri "Somiglianze" del 1976 e "Millimetri", questi difetti diventerano sempre più vistosi man mano che diventa manifesta la sclerosi multipla della significazione che quel tipo di procedura comportava.
Oggi, a distanza di 30 anni rilevare questo fatto non mi sembra uno scandalo, non mi sembra una bestemmia. Oggi, quel tipo di «massimalismo» del dolore è diventato obitorio della significazione, isterilimento del discorso poetico.
Sì, la poesia deangelisiana non rientra nel «minimalismo» (ma io non l'ho mai accorpato al minimalismo romano-milanese!), ma appartiene a una certa epoca della poesia it. da cui dobbiamo prendere le distanze (criticamente e operativamente). La mia è una valutazione critica, credo, non una bestemmia, non intendo offendere nessuno dicendo quello che dico, tantomeno De Angelis come persona. E, in un certo senso, viene incontro all'autore (e al lettore) indicandogli i limiti di una certa impostazione di poetica. A questo ritengo debba servire la critica intellettualmente libera che non sia solo celebrativa.
giorgio linguaglossa
Sulla notevole questione della "Totalità" in Fortini/De Angelis e sulla tensione di entrambi verso questa meta, c'è stato un breve accenno di Elio (23 agosto) che però non è stato ripreso. In effetti è significativo che due poeti molto lontani tra di loro siano accomunati da una violenta e insistente (e ignota ai loro contemporanei) "quête de joie", come due religiosi senza dio: un marxista e un nichilista animati dalla stessa furia di completezza e da un grido di soccorso (grido logico in Fortini, sconnesso in De Angelis) che accompagna la battaglia contro il finito.
Direi innanzitutto che il termine "totalità" appartiene più a Fortini che a De Angelis, essendo termine di ascendenza hegeliana. Per Franco Fortini la totalità è sempre da intendersi nel processo di superamento storico e temporale. Fortini aggiunge in "Verifica dei poteri" di sentire egualmente nemico chi parla di morte senza parlare di Rivoluzione e chi parla di Rivoluzione senza parlare di morte. E' attraverso un processo di integrale mutamento storico e materiale che si potrà intravedere la gioia, serbando però vivo, e in qualche modo eternizzandolo, ciò che di drammatico ci ha condotti fino a lì.
Ricordiamo i famosi versi che concludono "La gioia avvenire", poesia giovanile di Fortini:
"Ma prima di giungervi/Prima la miseria profonda come la lebbra/E le maledizioni imbrogliate e la vera morte/Tu che credi dimenticare vanitoso/O mascherato di rivoluzione/La scuola della gioia è piena di pianto e sangue/Ma anche di eternità/E dalle bocche sparite dei santi/Come le siepi del marzo brillano le verità".
Milo De Angelis non ha mai usato, che io sappia, la parola "totalità". Ha usato parole come "tutto" "assoluto", "compimento", che appartengono a un altro ambito. E non ha mai pensato che tale compimento potesse darsi in un processo dialettico, ma semmai in qualcosa di più estremo e primitivo, che sovverte la natura stessa del desiderio e delle sue incrostazioni secolari
"Ed è atroce
ma bisogna dire di no alla sua fronte che
piange e non capisce, e ama
come per millenni si è amato, promettendo
in una terrazza buia, accarezzandosi
tra le foglie minacciose".
Tutto in De Angelis tende alla sospensione del processo ("il tempo/se non resistiamo, non può farci nulla" - "come quel ponte rimane là/è calmo, non è più/ciò che unisce due rive") gettandoci in una compresenza di giorni e stagioni lontanissima dall'ordine fortiniano. Il tempo infatti in De Angelis non ha uno svolgimento fenomenologico. E' piuttosto un brusco ingresso dell'archetipo nel presente, uno smembramento di quest'ultimo e uno slancio verso l'estasi, in senso etimologico, verso l'uscita dal tempo e da se stessi.
Marco Azzolini
me ne scuso ma non sono capace di linkare, sarebbe stato più agevole anche per me.Per le riflessioni ho bisogno di tempo, soprattutto libero!
a risentirci. M. Mattei
Ennio Abate a roberto Bertoldo:
Caro Bertoldo,
ma perché di questi tempi è tanto facile sentir dire «ma non sono un critico, eh!». Come a voler prendere le distanze da una funzione scomoda o antipatica o impopolare, mentre quasi tutti vogliono essere poeti? Qualcosa di grave e profondo è accaduto nel nostro sistema culturale, per cui funzioni che prima si spalleggiavano (sì, anche litigando o odiandosi per le spicce) ora vengono contrapposte rigidamente. E così mentre, negli anni dello strutturalismo dominante, i poeti-poeti si nascondevano timidi e tutti cercavano di darsi un’aria da critici, oggi succede il contrario.
Ma lascio da parte la questione, non senza rimandare al bel libro di Emanuele Zinato * Le idee e le forme. La critica letteraria in Ialia dal 1900 ai nostri giorni* (Carocci 2010) che le ragioni di questo discredito (e di questa crisi) del critico (non dissimile da quello della poesia) le espone.
Basta leggere solo i tuoi calibrati interventi per togliersi il dubbio: per me sei tu sei un critico (nel senso che svolgi magari a intermittenza e non professionalmente questa funzione) che non vuole definirsi tale, non vuole dirselo. Perché - azzardo - ha da difendere una sua visione della letteratura e della poesia (in modi che trovo rigorosi e rispettabili) di matrice romantica.
Io vedo la distinzione tra poesia e critica da una parte del tutto ovvia e accettabile, quando indichiamo due generi diversi di scrittura con proprie strumentazione e forme di espressione, mala sento tutta ideologica quando le due funzioni vengono troppo nettamente contrapposte, come tu fai presentando il tuo «approccio affettivo-estetico» alla scrittura e alla lettura quasi altra cosa da un approccio razionale-riflessivo. Mi pare un taglio quasi masochista, una rassegnata accettazione di un’amputazione impostaci dalla storia (della letteratura, dei saperi).
È tutto da dimostrare (ho orecchiato cose interessanti in proposito di Remo Bodei) che uno scriva e giudichi in base a un «rapporto principalmente, e dico ‘principalmente’, emotivo con la realtà», come tu sostieni.
Le griglie, i programmi nel tuo caso (o in quello di De Angelis, per stare al tema del post) possono essere impliciti, non presenti *a priori* alla tua mente, evidenti magari soltanto *a posteriori* (perché il pensiero ha ritmi e svolgimenti non lineari, non puramente accumulativi, non progressivi, non tutti evidenti per la cosiddetta coscienza…). Ma non inesistenti. Semmai rimossi. O disciplinati e gerarchizzati (prima e dopo, sopra e sotto…).
Non estremizzo queste mie affermazioni. Ma per poter indagare, sia pur dopo e solo dopo, «l’esito estetico e politico dell’espressione», c’è pur bisogno che ci sia, quella facoltà di indagine magari prima silenziosa. (Mi viene da pensare a Dante nella selva oscura, che ad un tratto s’accorge della presenza di Virgilio «che per lungo silenzio parea fioco»).
Altrimenti da dove sorge tale facolta, se non esistesse, se uno fosse solo poeta? Perché leggendo e rileggendo un testo si affacciano numerosi pensieri critici, che all’inizio uno neppure ha in mente?
Quello che tu poi fai, scrivendo poesia, non credo lo facciano solo «i poeti veri, ossia creativi».
(Sintomatica questa equazione! Poeti veri=creativi. Rimanda implicitamente ad un’altra, negativa: poeti non veri= non creativi, ragionatori, ideologici, ruminatori, ecc.). Lo facciamo tutti, grandi o piccoli che siano alla fine i nostri risultati. Perché siamo diventati in lunghi secoli più complessi.
[Continua 1]
Ennio Abate (continua):
Non siamo più solo bestioni vichiani o fanciullini pascoliani. E abbiamo imparato a muoverci in varie dimensioni emozionali e intellettuali, concretizzatesi del resto in strutture sociali e istituzioni. Possiamo essere nudi in casa nostra o in un campeggio per nudisti. E in giacca e cravatta a una conferenza. E ci siamo più che addestrati ora a selezionare da un flusso di parole del nostro interlocutore o mezzobusto televisivo solo il loro significato ora ad isolare le sfumature emotive del suo discorso o del suo tono di voce. Ma non siamo, per questo, solo poeti o solo critici, solo nudi o solo abbigliati, solo attenti al significato o solo attenti al suono o all’effetto emotivo della parola. Semmai facciamo una scelta di poetica e la nostra poesia darà il primato a certi elementi e a non ad altri, metterà tra parentesi, in modi motivati o approssimativi, il «principio aggettivale» o il « principio sostanziale e sostantivale» (per dirlo con Linguaglossa).
E queste scelte di poetica sono (dovrebbero essere) oggetto di attento esame e di approfondita discussione. Ma siamo in tempi di crisi; e esame (dei testi e dei contesti) e discussione tendono, per il degrado dei luoghi istituzionali (riviste, accademie, scuole) in cui una volta avvenivano decorosamente, a diventare (sul modello spettacolare e televisivo) chiassate, risse, battibecchi personali.
Le ragioni del «doppio binario» su cui si muove Moltinpoesia (ma più onestamente dovrei dire io, perché Moltinpoesia è fatta da vari e diversissimi e anche antagonisti “trenini” in proprio, che seguono e non seguono i segnali di vari capistazione dichiarati o occulti!) credo di averle spiegate rispondendo a Cornacchia e non ci torno su.
Respingerei invece o almeno correggerei il tuo rimprovero, molto simile al suo, di comportarci (io e Linguaglossa) da «robespierriani» che, siccome tendono a riflettere sulle poetiche e su una dimensione estetico-politica, pretenderebbero, in livrea da critici, d’intervenire sulla «creatività», la quale per te sfuggirebbe per definizione ad ogni discorso critico (e politico) o al massimo lo assumerebbe «involontariamente». (Mentre, in modi analoghi, per Cornacchia «la poesia accade, e' il frutto inutile di un talento individuale, come la musica»).
La tua accusa mi pare infondata. Non solo non esistono le condizioni storiche per avere dei Robespierre (per me comunque un rivoluzionario, eh!) né in politica né nel campo della critica. Né Linguaglossa né io di sicuro abbiamo il potere non dico di un Croce, ma nemmeno del pur sbiadito critico-accademico o massmediale d’oggi. Il rischio non c’è, dunque, nella realtà.
Ma ci potrebbe essere l’intenzione, l’aspirazione magari inconscia a modellarsi come un Robespierre o uno Zdanov della poesia!
E allora è bene chiarire (rispondo per me, poi Giorgio dirà la sua) che in un panorama di crisi (anche della poesia), il mio tentativo di reintrodurre, non avendoli rimossi, certi problemi estetico-politici assorbiti riflettendo su un poeta-critico come Fortini, va inteso come un lavoro di resistenza. Ho memoria di certe “rovine”, e come ho detto nel discorso tentato sulla poesia esodante (qui), miro a un progetto per un io/noi poeta-critico per riaprire un discorso che vorrei di maggiore libertà e non di semplice sovversivismo individualistico. Da qui il mio ritrovarmi accanto a Linguaglossa nel contrastare (ma evitando le semplificazioni e le demonizzazioni), questa egemonia della *poesia-poesia*, della creatività scissa dalla ragione, del pathos della Tragicità (alla De Angelis).
[continua 2]
Ennio Abate (continua):
Come ho colto in precedenti commenti, credo che tu sia collocato (con intelligenza critica!), su una posizione più vicina alle fonti romantiche di De Angelis (non al “deangelismo”). E ipotizzo (anch’io come vedi sono cauto!) che tu ceda eccessivamente al fascino per quella che chiami «passione sovversiva, al di là degli specifici rivestimenti politici». E ti fai portare fuori strada, se posso esprimermi francamente. Perché io non credo che si possa amare allo stesso modo «tanto Céline quanto Lukács», come tu sostieni. Per me è un gesto di autoaccecamento sul piano critico e storico. Qui i due sono irrimediabilmente e non casualmente contrapposti. E «i rivestimenti politici» non sono affatto accessori o intercambiabili. Posso accettare, semmai, questo tuo (ambivalente) “amore” su un piano più metafisico. O psichico. Su tali piani certi contrasti storici reali possono essere sfumati e certe distinzioni “diurne” non hanno più lo stesso peso che nella storia o non contano allo stesso modo. (Penso ancora a Freud, a Matte Blanco da me già citati in passato). E vanno considerate con attenzione.
Mi chiedi poi « perché [Céline] non è fortiniano?». Rispondo brevemente e schematicamente per ora: perché, a differenza di Fortini, il suo io («lo spirito della sua “poesia”») s’appoggiò al Noi nazista e antisemita, accogliendo abbondantemente l’equazione (la coincidenza) tra il suo sovversivismo “plebeo” e il ritorno al “primitivo”, al “barbarico”, al “tellurico” al “dionisiaco”, che il nazismo seppe integrare nella sua ideologia, ma che era prevalso in tanta cultura franco-tedesca già dala fine dell’Ottocento (Maurras etc.); e che Nietzsche, meglio dotato e più spietato, fece diventare Grande Cultura, Pensiero Unico d’allora.
Pur ammirando l’espressionismo della scrittura di Céline, non posso non vedere quanto quel suo vitalismo («autoreferenziale» in apparenza, ma comune a tutta un’area intellettuale e sociale) sputasse fin troppo volentieri sulla ragione, fino a tacitarla. E purtroppo (come accade anche per Pasolini) «lo sguardo verso la miseria, verso i deboli, le vittime» non garantì affatto che le sue scelte fossero politicamente dalla loro parte.
È vero, «nel momento in cui si scrive poesia, quando cioè si agisce linguisticamente sul mondo», come pur fece Céline, si rivela questa sua passione per le vittime, ma si rivela pure - e non è cosa da ridere o svalutare - anche il suo odio per altre vittime, gli ebrei. Segno che quel suo sovversivismo non funzionava. Che era ambivalente e contraddittorio. Che egli si atteneva ad una ideologia, rimasta in lui implicita e rozza. Ceh egli evitava di sottoporre, per odio astratto contro il razionalismo borghese, ad un esame razionale. Forse anche lui voleva essere solo poeta, solo creativo, contro tutte le ideologie! E fu un grande scrittore, ma anche un grande figlio di puttana.
[Fine]
Ennio Abate:
Nel secondo pezzo rivolto a Bertoldo (27 agosto 2012 18:53), quando scrivo:
"Ho memoria di certe “rovine”, e come ho detto nel discorso tentato sulla poesia esodante (qui), miro a un progetto per un io/noi poeta-critico per riaprire un discorso che vorrei di maggiore libertà e non di semplice sovversivismo individualistico."
(qui) sta per il seguente link:
http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/07/per-una-poesia-esodante-ennio-abate-la_23.html
@ abate
Nietzsche complice del nazismo? Lei si sbaglia, Ennio Abate! Nietzsche odiava la caserma, odiava i tedeschi e, in generale, il pensiero demagogico, il buon senso e i commissari del popolo.
A parte l'offesa storica filosofica a Nietzsche, per i soliti stereotipi secondo i quali sarebbe stato un punto di riferimento dell'estrema destra, un pazzo, il padre del nichilismo etc etc
A parte che personalmente lo considero una delle maggiori guide /filosofi proprio per la crescita io-noi, per primo esistenziale, autointrospettivo, e poi semmai plurale, collettivo, sociale, politico,
vorrei precisare che tutto quanto leggo è all'insegna dei tempi, trsite da una parte (bipolare) ed estremamente " tecnico-specialistico" o settoriale, cioò produce un "noi" compatibilissimo, anzi perfettamente adeguato alle logiche di mercato in cui "la fabbrica" , o "il cantiere" prodotti, nel vostro caso prodotti critica e poesia, è completamente disgiunta da tutte le altre componenti che sono e fanno "noi", che non è nemmeno un noi di totalità, ma un noi molto pratico..nessuno, critico e poeta compresi, esiste sul piano di qualsiasi prodotto, materiale o immateriale, senza essere vissuto da un altro.
I lettori esistono, pilotati o meno da questo o quel gusto dei potenti ed equiparati al consumatore, in caso di poesia, possono o meno essere manovrati, ma fino a un certo punto, perché è cme in musica, piu ascolti, e piu ti fai l'orecchio. In musica nessuno si lamenta, come leggo in questo od altri simili siti, del fatto che sostanzialmente abbiamo gia espresso tutto quanto c'era da esprimere. E' cosi infinito quel che già, che basta saperlo interpretare con talento, tecnica e passione.La musica ha aspetti politici paragonabili ai vostri discorsi? Certo che si, ma non sono certo quelli della canzone politica, che è solo un genere,tanto come solo un genere l'horror o il western per il cinema.
Se chi ascolta, legge, guarda, è il lettore, lo spettatore etc etc questi non si chiamano UTENTI o UTENZA in nessun mezzo,compreso il web, a meno che fedelmente al linguaggio che si adottato si condivida coerentemente ogni slang del mitico ceto medio mediatico da fessbuk e reality in ogni e dove.
Prima di cercare chissa quale noi, chissa quale critica, chissa quale poesia politica, occorrerebbe spogliarsi dei ruoli, critico o poeta, e ritornare lettori, fra i lettori, capire chi sono, avvicinare quelli a cui spacciato tanti zumpapà come sinfonie dei grandi...in fin dei conti la distanza e la frattura è la stessa identica della politica con le persone? forse si, anche loro ci chiamano utenti.
Caro Abate, non rispondo su tutto ciò che dici perché ovviamente mi ripeterei, chiarisco dunque solamente gli aspetti più controversi.
1. Non solo per i romantici, ma per tutti coloro che vedono la poesia come un genere letterario, il poeta usa il linguaggio verbale, e direi non solo quello, in modo creativo, altrimenti la sua espressione rientrerebbe in altri generi. La supremazia rilevata da Jakobson della funzione poetica sulle altre funzioni della lingua all’interno del testo poetico, per quanto di sapore truistico, mi pare ancora la definizione più chiara. La poesia è la forma più elevata di significazione, è il segno della crescita espressiva di una lingua e del popolo che la parla (permettimi di fermarmi qui, non voglio rischiare altre banalizzazioni, quanto volevo dire sulla poesia l’ho espresso più scientificamente in alcuni saggi);
2. Ho sempre detto di non essere un critico non per vanto (ho ammesso di essere tutt’al più, se si vuole, un teorico post-eventum) e per quanto riguarda l’essere poeti, per me da sempre una vergogna, è sufficiente usare il metodo adottato da Alfieri per capire se lo si è o meno (ti ricordo che ho detto sí veri, ma anche “grandi o piccoli”);
3. Nell’emozione si ritrovano, resi immanenti mediante l’intuizione (anche qui semplifico l’azione che ho chiamato ‘fenomenognomica’ in un altro libro), le idee e i sentimenti dell’autore, ogni volta rinnovati e rivissuti. Quindi, per l’appunto, impliciti (su questo diciamo la stessa cosa) ma al contempo revisionati inconsciamente, ricreati;
4. Non è la vostra riflessione in sé a farvi robespierriani (sai che la parola l’ho usata in modo scherzoso, come colto da Linguaglossa), ma la vostra teoria posizionata pre-eventum. Mi pare questo molto evidente quando si additano strade da percorrere. Sono d’accordo con Cornacchia che la poesia “accade”, pregna naturalmente di tutto ciò che ha intorno. I progetti possono riguardare gli uomini, la società, la politica, la cultura generale e tutto questo insieme, non la creatività altrui;
5. Su Céline ci vorrebbe un volume. La sua critica agli ebrei non era maliziosa, seppure tenace. Li accusava di rapina, di superbia, di furbizia, ecc. Non è condivisibile il suo tono d’accusa troppo generica, ma ha pagato più di Dostoevskij e di Henry Miller. In ogni caso sulla grande finanza antivedeva quanto è accaduto. Egli diceva: “Gli ebrei minano ogni serio tentativo di federazione europea”. Circa il suo “agire linguisticamente sul mondo” non sono d’accordo e riporto quanto dice acutamente Linguaglossa riguardo De Angelis: “il suo modo di fare densità poetica attiene al modo più semplice, si affida alle capacità della «parola» scissa e disarticolata dalla sintassi”. La disarticolazione di Céline è più fumo che arrosto, ma rientra in quel canone, ed è per me il suo difetto. La sua grande azione linguistica è stato “Morte a credito”, la sua passione “Viaggio al termine della notte”. Dopo sí, ha prevalso l’espressionismo più formale, con qualche ondata di disgusto contro il mondo. Ma, ripeto, ci vorrebbe un libro e uno studio attentissimo delle sue opere e delle lettere. Dopo una prima lettura non ne ho tratto l’opinione che fosse, come dici, “un grande figlio di puttana”.
Un caro saluto, Roberto Bertoldo
PS. Non ho mai pensato di criticare Moltinpoesia, che appena posso seguo con molta attenzione, per le menti che vi partecipano; ho solo rilevato un accadimento inevitabile.
Ennio Abate:
@ Stefi
Non m'intrappoli in una discussione scivolosa da cui non si sono districate neppure i migliori studiosi di Nietzsche.
Rilegga, perché io ho scritto:
"il ritorno al “primitivo”, al “barbarico”, al “tellurico” al “dionisiaco”, che il nazismo seppe integrare nella sua ideologia, ma che era prevalso in tanta cultura franco-tedesca già dala fine dell’Ottocento (Maurras etc.); e che Nietzsche, meglio dotato e più spietato, fece diventare Grande Cultura, Pensiero Unico d’allora."
E' lei che ha scritto "Nietzsche complice del nazismo?" O vorrebbe farmelo dire.
Comunque, il rapporto tra ideologie ed eventi non è mai semplicisticamente di causa ed effetto.
Un minimo senso storico permette di evitare certe rozze semplificazioni e capire che né Cristo è responsabile delle Crociate e dello sterminio degli indios né Nietzsche di quel che fece Hitler né Marx (spero concordi...) di quello che accadde in Urss ai tempi di Stalin.
@ Bertoldo
Dovremo intenderci sul termine 'creativo' e "creatività altrui". L'affermare che Céline fu profeta dell'attuale finanziarizzazione (del capitale) è rischiosa. Il fenomeno non viene imputato da Céline al capitalismo nel suo complesso (che è "internazionalista" e non solo ebraico!) come giustamente dicono gli studiosi marxisti, ma proprio e soltanto agli ebrei. Altro che critica "maliziosa, seppure tenace" agli ebrei. Qui siamo in pieno antisemitismo.
Caro Roberto Bertoldo, tu scrivi:
«Non è la vostra riflessione in sé a farvi robespierriani (sai che la parola l’ho usata in modo scherzoso, come colto da Linguaglossa), ma la vostra teoria posizionata pre-eventum. Mi pare questo molto evidente quando si additano strade da percorrere. Sono d’accordo con Cornacchia che la poesia “accade”, pregna naturalmente di tutto ciò che ha intorno. I progetti possono riguardare gli uomini, la società, la politica, la cultura generale e tutto questo insieme, non la creatività altrui».
Non ritengo di essere un critico «pre-eventum», come tu dici, anche perché se lo fossi dovrei possedere una teoria generale (e specifica per la poesia) su dove va il mondo (leggi la poesia) per tentare di instradare la poesia in quella direzione. Sarebbe una ingenuità teorica imperdonabile ammettere di avere una tale teoria. Sarebbe come avere un grimaldello universale che ci apre tutte le porte. Io mi attengo sempre ai testi (all'eventum); il mio commento però è sempre trasversale ai testi (eventum), perché il critico (come il semplice lettore) attraversa i testi, ma li attraversa criticamente, cioè, come dice la sua etimologia, dividendo, scucendo ciò che è cucito, dissezionando per poi suturare, cicatrizzare ciò che nei testi era stato suturato e cucito in modo improprio o comunque non soddisfacente. Io parlerei dunque, rispetto al mio modo di fare critica dei testi, di attraversamento critico dei testi. Io ragiono sempre a partire dai testi, detesto perdere tempo a parlare della poesia in generale e come essa dovrebbe essere (se sessuata o asessuata, se con le braccia o con le gambe, etc.)
giorgio linguaglossa
caro Bertoldo,
Lasciamo ora da parte le teorizzazioni di estetica (la funzione poetica di Jakobson ha lasciato sul terreno molti cadaveri!) e restiamo un po' terra terra. E torniamo a De Angelis. Ebbene, parlando della poesia di "Somiglianze" (che poi è il suo libro migliore) io ho rilevato in più occasioni come quel linguaggio poetico sia uno «sperimentalismo interiorizzato», intendendo con questa categoria il fatto che la poesia deangelisiana è impensabile se scollegata dalle acquisizioni dello sperimentalismo della neoavanguardia. Basta confrontare, come in un testo a fronte, una o più poesie di Alfredo Giuliani con una o più poesie del primo De Angelis (fino a "Millimetri" del 1983), per accorgerci che il procedimento linguistico, lessicale, sulla «parola» sia nella sostanza il medesimo. De Angelis dunque è un parente stretto della neoavanguardia, con un correttivo significativo, che lui capovolge l'impostazione sperimentale (aperta, propria della neoavanguardia) in una «chiusa» nello spazio e nel tempo (Milano, luogo dell'anima, e l'interiorità, luogo dello struggimento dell'anima). Accetta (prende, sottrae) dallo sperimentalismo quel che lo sperimentalismo può dare e lo riconverte in termini, come tu dici, «romantici». Ma qui siamo ben lontani da una filiazione «romantica», come tu affermi perentoriamente!
In sostanza, voglio dire, che l'operazione del primo De Angelis (quello che ci interessa visto che l'ultimo è una riproposizione esausta del primo) è ben lungi dall'essere una «resistenza» allo sperimentalismo, che anzi di questo ne eredita la procedura tecnologica, infrastrutturale per convertirla, con un colpo di bacchetta magica, in termini di introiezione, di espressionismo, di struggimento, di catarsi... in una parola nei termini di quel «fondamento della commozione» che tanto irritava Fortini (e che irrita anche me), fondamento dei fondamenti di una poesia di tipo conservativo, che vuole conservare (mutata di segno) la «parola» scissa e disarticolata dalla norma della sintassi, quasi che l'anima avesse più libertà di espressione, appunto, in quella dis-articolazione, in quella liberazione (falsa e illusoria). Quando invece il discorso poetico così intrappolato viene ad esserne depauperato, impoverito, la significazione isterilita. Questo posso dirlo senza il pericolo di essere lapidato?
E questo è un «nodo» della poesia it. degli ultimi 40 anni. Questo posso dirlo senza essere accusato di essere un critico con una griglia «pre-eventum»?
giorgio linguaglossa
gent.mo Marco Azzolini, tu scrivi:
«Gentile Linguaglossa,
Seguo il suo lavoro sulla poesia italiana da molti anni, dai tempi della rivista "Poiesis". Ho subito apprezzato e condiviso il tono fermo con cui Lei iniziava a criticare una certa idea di poesia "minimalista" nei suoi vari aspetti, tutti comunque di piccolo cabotaggio: diaristico o quotidiano, vezzeggiativo o freddurista. Le sue letture impietose dei vari Magrelli, Lamarque, D'Elia, Frabotta, Zeichen mi sono sembrate nell'insieme efficaci e ben argomentate, convincenti.
Poi qualcosa si è inceppato nel legame di simpatia con le Sue posizioni. Innanzitutto i poeti che Lei dichiarava e continua a dichiarare importanti (Madonna, Stecher, Stace, Pedota, ecc) a me non sembrano tali, tutt'altro. In secondo luogo mi hanno allontanato da Lei sia l'uso sempre più libero di un termine come "minimalismo" sia le Sue prese di posizione polemiche verso alcuni poeti che stimo, tra cui Vittorio Sereni (a mio parere ben più nuovo e difficile del brechtiano Fortini), Mario Benedetti, Milo De Angelis, Antonella Anedda: su quest'ultima Lei, mi perdoni, ha scritto alcune pagine che ritengo tra le Sue meno felici, per il tono sprezzante che le percorre ("Appunti critici", ed. Scettro del Re, pp. 97-98)».
Che la «riforma moderata» introdotta dalla procedura della poesia di Vittorio sereni con "Gli strumenti umani" del 1961 sia stata, appunto, una riforma moderata, l'ho illustrato nel mio libro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010)". È questa la mia tesi di fondo su cui si basa la RILETTURA DI UN PEZZO DELLA STORIA ITALIANA che ha portato al trionfo, in poesia, di una visione, direi, piccolo-borghese con la imposizione della poesia di Giovanni Giudici con "La vita in versi" (1965), vero e proprio incunabolo del minimalismo epigonico romano-milanese. È una TESI DI FONDO che riguarda la storia della poesia italiana (e non solo), è la tesi attraverso la quale io ho letto la parte terminale del Novecento che ha visto l'instaurarsi di una egemonia di un parametro poetico e critico che è arrivato fino ai giorni nostri. È la tesi di fondo con la quale io leggo l'instaurazione di un «riformismo moderato» che ha preso il sopravvento nella poesia it. del tardo Novecento. È una tesi, lo so, anti convenzionale, che mi ha fruttato molte antipatie e inimicizie, molti anatemi... mi hanno dipinto come un untore, come un critico dogmatico, etc. chi più ne ha più ne metta. Ma, ripeto, ci sono dei «nodi» nella Storia di un paese che, prima o poi, occorre sciogliere. Altrimenti è inevitabile che quei medesimi «nodi» tendono a ripresentarsi tali e quali sotto mutate spoglie.
E il «minimalis mo» che cos'è? Nella mia visione non è una categoria contenitore tipo scatola vuota che devo riempire, è un pendio declinante di post-poetiche (acritiche) che seguono il corso di poetiche non-innovative, che hanno ripercorso e riletto la poesia it. con la lente del riformismo moderato. Si è andati così a finire nel secchio senza fondo della poesia di intrattenimento, dello struggimento del cuore, dell'infermità dell'anima condita da espressionismi gratuiti e risibili. Il resto è storia dell'oggi.
giorgio linguaglossa
gent.mo Marco Azzolini,
ti prendo alla lettera: e adesso facciamo un gioco, proviamo a sostituire i poeti da te nominati (De Angelis, Mario Benedetti, A. Anedda) con un'altra «griglia di nomi» (come si dice oggi), diciamo A.M. Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Giuseppe Pedota, Giorgia Stecher, tutti poeti morti!) e vediamo che tracceremo un'altra storia, una storia diversa di un'altra Italia. Ma siamo sicuri che nel confronto con quelli dell'ufficialità i poeti da me indicati ci perderebbero? Siamo sicuri che sostituendo la poesia di Sereni con quella di Fortini, ci rimettiamo in qualità? - io non ne sono tanto sicuro. E mettiamoci anche che il più grande poeta degli anni Cinquanta sia stato un certo Ennio Flaiano, siamo sicuri di dire delle corbellerie? Io non ne sono tanto sicuro.
giorgio linguaglossa
Ennio Flaiano poeta? In che senso? Credevo fosse uno di Via Veneto, un battutista da salotto!
Salve a tutti, sono Mauro, e questi sono i versi che preferisco di Milo De Angelis, tratti da "Millimetri" (ediz.Einaudi,1983)
"In noi giungerà l'universo,
quel silenzio frontale dove eravamo
già stati"
Franco Fortini aveva una predilezione per determinate poesie di "Somiglianze" - il primo libro di Milo De Angelis - e in particolare per quelle scritte in terza persona, sia singolare sia plurale. L'amico Remo Pagnanelli mi diceva di aver sentito Fortini, un pomeriggio del 1987, recitare a memoria la poesia "Le sentinelle". E' un testo semplice e insieme enigmatico, dove i protagonisti sono degli oscuri personaggi che sembrano corteggiare situazioni estreme, senza però entrarci veramente. Fortini vi riconosceva "nemici" di vario genere ed età, tutti accomunati da un uso estetizzante della morte, dalla tendenza a "fare dell'altrove un tempio abitabile". Trascrivo la poesia, per chi non l'avesse presente.
LE SENTINELLE
Compiendo il gesto dove il fiume è profondo
nemmeno così, con i sonniferi
e il panico, si potrà far vedere qualcosa
a quelli che non l’hanno mai vista
durante la loro, lontana, e questa notte
che stanno guardando
in una lingua imprestata,
senza un solo atto imperativo,
si tengono in disparte
con parole, simboli di seconda mano,
parlano ma senza svelare l’inizio
hanno fatto dell’altrove un tempio abitabile
nella penombra lungo i burroni
si ritraggono dalla morte per scortarla.
Ho notato che nel suo ultimo libro,"Quell'andarsene nel buio dei cortili", Milo De Angelis torna a scrivere delle poesie in terza persona, soprattutto plurale. Non l'aveva fatto per trent'anni. Qui invece riappaiono delle ignote creature che si aggirano per le periferie della città. Non sono più viste con occhio severo e giudicante. Sono semplicemente accompagnate nel loro peregrinare senza meta. Chi sono costoro? Ombre, apparizioni, esseri viventi? Sono fuggiti dall'inferno dei condomini, dice una poesia. Perché si sono perduti? Oppure (chiederebbe ancora Fortini) sono i dannati della terra? Hanno la solitudine dei profughi, è vero, ma anche una strana sapienza. Sono parti di noi che si sono separate? Parti di noi che verranno? Memorie? Profezie? Per dare una risposta, naturalmente, dovremmo seguirli passo dopo passo lungo le pagine del libro. Qui mi limito a riportare un frammento.
"Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra".
Ho sinceramente condiviso il suo commento, Signor Azzolini. Anch'io considero "Quell'andarsene" di Milo De Angelis una bella svolta e un ritornare alla vera ispirazione di "Somiglianze", dopo il manierismo di "Tema dell'addio". D'accordo su tutto, Signor Azzolini, e complimenti a lei! Ma mi spieghi una cosa, perché io da solo non ci arrivo.
Quello che mi sfugge in De Angelis - e un po' mi delude - è la stima per Fortini. Fortini è un poeta nato vecchio, vecchio per costituzione, nel tono, nei temi, nel lessico ermetico, è un erudito fatto apposta per l'università. Cosa cercava un vero poeta come il giovane De Angelis, negli anni settanta, in un letterato come Fortini?
Guido Bozzi
La ringrazio, Guido Bozzi, ho fatto del mio meglio. Ma - riguardo alle sue domande finali - devo dirle che io non sono un biografo di De Angelis...non lo conosco nemmeno di persona...quel poco che so, lo so dal libro di interviste "Colloqui sulla poesia" e da Remo Pagnanelli, che ha conosciuto bene sia Fortini sia De Angelis. Credo che Milo De Angelis negli anni settanta frequentasse poeti per lui importanti - Sereni, Luzi, Bonnefoy e soprattutto René Char - ma anche uomini di cultura come Giorgio Colli, Ruggero Jacobbi e Franco Fortini, appunto, con cui condivideva la passione per i Classici. Quindi non deve stupirsi. E' normale, nella formazione di un giovane, avviarsi in molte direzioni ed esperienze, per trovare alla fine la propria via...
Un saluto
Marco Azzolini
P.S. Al Signor Guido Bozzi, ma anche tutti voi...ho finalmente trovato lo scritto di Andrea Cortellessa sulla poesia di De Angelis e su altre importanti questioni, con accenni a Fortini. Eccolo, in due parti, con un saluto a tutti...
"Da sempre la poesia di Milo De Angelis possiede la misteriosa proprietà di apparire, a un tempo, inattesa e necessaria. La sua irruzione, a metà degli anni settanta, segnò la più traumatica discontinuità col visibilismo oggettuale ' lombardo', lo sperimentalismo ' realistico' di " Officina", la gestualità intellettuale della neoavanguardia: tutti d' accordo nel liquidare l' obscurisme post-simbolista dell' ermetismo fiorentino come l'attrezzo più impresentabile d' un Novecento precocemente invecchiato. Figuriamoci quanto potesse apparire eversiva una parola, come quella di De Angelis- che riattizzava l' incendio dell'analogismo puro, della verticalizzazione più esilarante. Non stupisce che si guadagnasse, più che lettori, un manipolo di fanatici. Ma la sua assoluta alterità, non era solo diacronica. Mentre altri si reincantavano dell' "io" che la neoavanguardia (almeno nei programmi) aveva "ridotto", la poesia di "Somiglianze" e dei tre libri seguenti non lasciano margini ad alcuna indulgenza narcisistica. Nel saggio "Poesia e destino" De Angelis si poneva agli antipodi rispetto all' orfismo, fumosa categoria alla quale subito la sua poesia era stata ricondotta. Perentoria la sua definizione di Rimbaud e Campana (phares, certo, altamente indiziati come " due tra le posizioni più matematiche del furore mediterraneo". Perentoriamente: ecco una categoria- chiave di questa poesia, che forse spiega la contrastata passione, per essa, di Franco Fortini. Dove la metafora matematica traduce il proprio stesso inconfondibile "tono tra gnomico e iussivo", che contrassegna- ha scritto Paolo Zublena- "l' inesorabilità del fato". E' la morsa spietata dell' ananke a guidare questa parola: verso un approdo che è, infatti, inequivocabilmente tragico. Questi caratteri disegnano una figura d' indubbio valore storico. Eppure, con tutta l' ammirazione per il talento dispiegato in quei primi libri, quel De Angelis non mi ha mai convinto del tutto. E' stato detto (da Giovanni Raboni) che nella sua scrittura albergava, più che una sintesi, un cozzare continuo tra sospensione del senso e "ricerca di una folta e dolente concretezza espressiva": " contrappesi terrestri" alla sua " ardita e a volte ( per rastremazione o accelerazione) inafferrabile tensione analogica". Verissimo. Ma mi appariva deontologicamente ingiustificato, per così dire, che determinati catalizzatori di senso venissero ostinatamente celati, per essere offerti solo all' esterno del testo: pratica 'esoterica' alla lettera cara all' ermetismo di tutte le epoche e latitudini. Penso, per esempio, in "Somiglianze" a un episodio come "T. S.": fuga a ritroso nel tempo nella quale si susseguono immagini di bruciante bellezza. Ma tutto acquista senso 'narrativo' ( tra molte virgolette) solo una volta che si sappia che quella sigla va sciolta in "Tentato suicidio".
Segnano una soluzione di continuità i due ultimi libri, "Biografia sommaria" del '99 e questo "Tema dell' addio" (Specchio' Mondadori, pp.85 ). Nei due titoli occorrono termini - biografia, tema - che alludono proprio a una qualche forma di narratività, denotata anche dai tempi verbali: mentre nei primi libri prevaleva il presente assoluto ( con lampeggiamenti di futuro ' apocalittico'), negli ultimi due si fa strada la più sfumata tavolozza dei passati e, in particolare dell'imperfetto. Tuttavia sarebbe un errore interpretare tale 'svolta del respiro' nella chiave di un memorialismo ' chiarista', à la page.
Ennio Abate:
Ho la brutta impressione di una martellante e un po’ miope campagna pubblicitaria a favore della poesia di De Angelis da parte di suoi fan. Non me ne scandalizzo. Ma visto che si tirano fuori a ogni più sospinto le lodi che Fortini fece a De Angelis o a una sua raccolta o a una sua poesia, faccio notare che, funzionali ad una visione agiografica di un rapporto duale Maestro-discepolo geniale del tutto decontestualizzato dalla storia d’allora, esse hanno davvero scarso peso per il discorso critico che qui si vorrebbe tentare (e che questi interventi fanno di tutto per neutralizzare) .
E allora per dare almeno un assaggio di qual era l’humus ideologico di cui, secondo me, De Angelis giovane si è nutrito abbondantemente e per capire quanto Fortini fosse verso di esso molto critico (e nei suoi modi sapienti e politici, mai personalizzanti, come oggi purtroppo succede), ho scannerizzato un passo de * I Fratelli Amorevoli* (pp. 270 - 278) da * Insistenze* (Garzanti 1985) . Ne emerge il ritratto di una “foto di gruppo” generazionale lucida e spietata da parte di un poeta e scrittore centrale nel Novecento italiano (altro che “erudito fatto apposta per l’università”, come sostiene qui Guido Bozzi) , in cui sicuramente s’intravvede, a mio parere, anche l’immagine del giovane De Angelis. I suoi fan ci riflettano per conto proprio.
Si direbbe che i Fratelli Amorevoli [rispetto ai neo-gnostici medio-alto borghesi di cui ha parlato prima] siano invece a tut-
t'altra fascia sociale e culturale: quella dègli-intellettuali addet-
ti alla riproduzione culturale (livelli non «baronali» nelle uni-
versità e nelle istituzioni della ricerca, docenti delle scuole secondarie), alla informazione-comunicazione (editoria e stampa:
spettacolo), alle arti, agli esperti di pubblicità e relazioni pub-
bliche; insomma a quelli che in Francia chiamano gli «intellet-
tuali bassi». Ma con una importante differenza: i Fratelli Amo-
revoli non hanno nessun intento di inquadrare né di rappresentare nessuno. Il loro è un ceto di provenienza non di destinazio-
ne. Non hanno a che fare, o quasi mai, con la «razza padrona»
né tanto meno con la «razza cialtrona» degli arricchiti da infla-
zione (né col personale politico e amministrativo che sappiamo
I quale cosa, in genere, sia). Non portano il lutto d'una perduta
fraternità fra «compagni». Pochi fra costoro, anche per motivi
di età, l'hanno conosciuta. E si scostano, all'odore di quei lutti.
Non intendo definire o circoscrivere una scuola letteraria o
una tendenza filosofica, sebbene sia anche questo; e neanche
una moda o «aria del tempo», sebbene sia anche questo. È un
modo di essere e, ancor più, di sentirsi, di alcune isole culturali:
che come ho detto, si estende e consolidano al di là dell'area
dei sopravvissuti del '68 e del '77 e coinvolge quellIi che oggi vivono tra i venti e i venticinque anni. Ricordate gli scontrosi e
villani della «contestazione»? I Fratelli Amorevoli sono an-
ch'essi scontrosi; villani no certo. Hanno eletto a valore ri-
serbo, ironia, evasività, latenza.
Sono probabilmente il doloroso tentativo di nuove minoran-
ze intellettuali e morali di sopravvivere alle condizioni del pre-
sente europeo. Infatti taluni modi di civile convivenza e garbo
e malinconica tolleranza sono ormai da due decenni, almeno,
diffusi da preesistenti ambienti intellettuali di area germanica e
anglosassone. In quello che è stato chiamato I «riflusso» (preferisco chiamarlo il massacro psichico di una generazione com-
piuto dai padri che non avevano potuto mandarla in guerra co-
me essi erano stati mandati) e in particolare negli anni più neri,
1976-1981, quelli del «compromesso», si è prodotta la genera-
lizzazione e insieme la depurazione della componente soft. dello
spirito comunitario ed egalitario degli anni Sessanta e soprat-
tutto della loro seconda metà. Al mondo del potere e della crudeltà si opponeva la non resistenza.
[Continua]
Ennio Abate (continua):
Rammentate il tema della
«tenerezza» tanto importante per taluni movimenti di allora,
come Lotta Continua? Fu, per anni, anche India (oggi meno o
con più accortezza). O droghe leggere (oggi soprattutto cada-
veri tra i poveri).
Nel decennio successivo quelle componenti del «movimenti-
smo» si ridistribuirono secondo i livelli della società che terrori-
smo, crisi e galere irrigidivano. Allora non era invece troppo
facile distinguere fra la provocazione tardosurrealista o «situazionista» di alcune élites giovanili della buona società (con
. pronti soccorsi psicanalitici) e l'erotica celebrazione del femmi-
neo, del tellurico, umorale e materno, di quello che chiamerei il
momento latteo deIIo Spirito, il corporeo dei testi di Brown e
Marcuse; ovvero la più fragorosa e diffusa esaltazione rock e
poi punk, a forte vibrazione sadica. Quest'ultima si riproduce
monotona nelle forme aggressive o autodistruttrici della erotica
di massa, gestita industrialmente.
I giovani che se ne ritraggono non sono solo quelli in qualche
forma organizzati dal movimento di recupero del Religioso ma
anche molti di quelli che la cultura laica delle sinistre ha ab-
bandonato ad ogni vento, sul mercato, con una brama di servitù che un giorno, quando sarà studiata, parrà inconcepibile. E
con responsabilità politiche senza appello; anche se - come
avviene ormai per quasi tutto e tutti - neanche la scomparsa
fisica dei responsabili consentirà il giudizio; a tal segno il corpo
politico che gestisce il controllo sociale protegge i suoi defunti
nelle bende degli eufemismi.
Una decina d'anni fa leggevi nelle scritture e seguivi nelle
biografie certi attivi gruppi satanìstì, di Cavalieri del Nulla, con..-
la loro ben illuminata suite al Grand Hotel Abisso, frequentato-
ri di caffè e cimiteri viennesi. Oggi la più parte di costoro ha
trascinato lungo i corridoi del sistema riproduttivo della cultu-
ra la porzione che il dispotismo sociale, gestore del comune ma-
lessere organico, ha loro assegnata; e se la divorano in pace,
con qualche brontolio. Ebbene, quelli che voglio ora chiamare
Fratelli Amorevoli li guardano in silenzio ma senza indulgenza.
Per loro, come scrive con intelligenza vera Filippo La Porta,
«l'inquietudine e la tensione giovanile sono forse tornate ad essere soprattutto individuali ... a trasferirsi molto più in certe forme culturali, in certi gusti che in esperienze radicali». Se ai livelli di maggiore morbidezza o di mera codardia ciò si trasfor
ma in volgare fuga dal «tragico» verso la «correttezza», nei migliori il rifiuto del tragico è 'unica forma di tragico che essi si
perdonano; e la buona educazione ha un melanconico sorriso
sulle labbra, da confessione di un figlio del secolo.
[Continua 2]
Ennio Abate (continua):
Quando si afferma, come leggo, che il solo dovere del poeta è quello di di non dovere, mi chiedo perché non si estenda questo
affettuoso imperativo d'infanzia ançhe ai lettori, anzi a chiunque. È inelegante rammentare che molti, domàni mattina, do-
vranno svegliarsi prima delle sette e che solo col lavoro della
giornata potranno, se fortunati, pagarsi il diritto di «non dove-
re», o la sua illusione, nei dopocena? Ma i Fratelli Amorevoli si
guardano dall'occuparsi di doveri e diritti. Considerando il loro
aspetto men buono, qualcuno - poiché l'elogio della «decen-
-J.- za» non fu solo di Montale ma di tutta una cultura di illumina-
ta conservazione anche nel dopo fascismo e fino a ieri - li ha
chiamati persino i Nuovi Decenti. E tuttavia essi non hanno di
mira solo una forma ma una autenticità: esperienze «minori»
ma autentiche. Tanto più che; e giustamente, nell'autentico
non c'è maggiore e minore. Rifiutano l'esistenzialismo dei padri
e il nichilismo dei fratelli maggiori. Non dicono di credere in
DIO ma è come se ci credessero. Confondono volentieri il
sacro col religioso, anzi si sentono a loro agio, o in un vitale disagio,
solo in prossimità del sacro, considerando morta, disseccata,
impercorribile ogni «religio» che del sacro sia visibile sistema di
segni e significazioni. Né vogliono uscire da quella indistinzio-
ne,sapendo che all'uscita sarebbero aggrediti da aporie stori-
che, da feroci dilemmi secolari. La loro è una moderazione in-
telligente, di sopportazione (sinonimo di tolleranza) e di finez-
za. Fratture psichiche e nevrosi ne vengono ingessate. Fra non
molto, più giovane ancora, qualcuno le considererà il banale
incidente d'una domenicale discesa in sci.
Sobrietà, dunque. Non l'abbandono al dialogo, necessaria-
mente pieno di ridondanze, equivoci e pathos; né tanto meno
la conversazione per grugniti, che fu di moda fino a dieci anni
. fa. Ma la parola quanto più possibile connotativa. Elusione […]
Credendo nell’autenticità e nella esperienza, rifiutano la critica della cultura; quella critica di cui sono vissuti - magari fino a disperarne - i padri. Pensano che sia leggera impresa trapassare la parete di chiacchiera innalzata dai cosiddetti «media». Ogni universalismo è rimosso a favore del particolare; ogni drammaticità a favore di una mesta «hilaritas»; quale centocinquant’anni fa, ebbe la seconda generazione romantica. Si elegge un «dio del cuore» a custode dell’esperienza interiore”
[Fine]
La forza di questi componimenti (soprattutto nella prima è folgorante, ma anche nelle altre cinque sezioni dell' ultimo libro, troviamo una decina tra le poesie più belle degli ultimi anni) continua a consistere nell' arduo equilibrio tra figuratività ( ispessita col ricorso alla toponomastica lombarda e al "paesaggio che fu di Sironi) e suo contrario. " abbiamo visto l' aperto e il nascosto di un attimo", recita un verso del primo componimento ed è una sigla che vale per tutto De Angelis ( per questo appaiono maiuscoli i suoi versi più lunghi nei quali i due versanti hanno modo di congiungersi, sprizzando scintille: mentre quelli più brevi tornano, talora a posture vaticinanti). La vera novità del libro è nel "tema" enunciato nel titolo.
L' addio è quello dato alla fine del 2003 alla moglie, la poetessa Giovanna Sicari. S' intuisce che alcuni testi sono stati scritti prima, forse durante il terribile decorso del male, ma la brutalità del dato ( ribadito dalla dedica a "Giovanna") non può che ingiungere la lettura dell' intero libro alla nera luce del lutto. Proprio Questa, in ogni caso, cambia la prospettiva di De Angelis. Specie nella prima sezione martellano i versi ossessivi indicatori di realtà, applicati con lancinante volontà ' documentaria' a segmenti sovrilluminati della biografia condivisa ( " E' avvenuto, certamente/ è avvenuto"; " C'è stato un compleanno, all' inizio, certamente. / (...) C' è stato, quello c'è stato"; " Il luogo era quello. Era lì / che stavi morendo"). Questa percussività dell' Erlebnis adotta lo strumento dell' iterazione: come nella squassante terza poesia ( forse la più bella di tutte),dilacerata tra l' anafora dell' incipit, " Non è più dato", e l' eco che strangola gli ultimi quattro versi: " Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola / la morte, poche le ossessioni, poche/ le notti d' amore, pochi i baci, poche le strade/ che portano fuori di noi, poche le poesie". Così, en abîme, i singoli componimenti riproducono la funzione strutturante del "tema": cioè la sua tendenza a saturare tutti i luoghi del libro, a ricondurli a un' unica chiave ( interna, dunque, oltre che esterna. La spietata letteralità della morte colma il verso, lo satura delle sue lucenti stimmate negative ( Non è più dato... Non c' era più tempo...).
(segue Andrea Cortellessa)
"Viene da pensare a Campana, all' incanto allucinatorio dei Canti Orfici ma soprattutto ( per l' esplosivo incontro di catatonica iterazione e tragica negatività) alla terza poesia per Sibilla Aleramo ( " In un momento / sono sfiorite le rose / (...) le rose che non erano le nostre rose/ le mie rose le sue rose". Si veda, qui , la formidabile poesia sull' asfalto di pag. 26. Allora è questo il primo, vero libro orfico di De Angelis: beninteso ove s' intenda, l'ominosa categoria ( come per il Campana più essenziale), in negativo. Cioè, appunto, tragicamente. Non l' ontologia della parola ma la sua schiacciante necessità e, insieme, il suo scacco ineluttabile. E' per questo che le poesie sono poche. Non nel numero, bensì in quanto costitutivamente insufficienti: nell' operazione di richiamare a sè coloro che non sono più. Poesia e cure mediche, così, si sovrappongono- ma entrambe sconfitte: " queste poesie tornano nella loro grammatica. (...) / Sono morte. Si radunano lì. Hanno sbagliato,/hanno sbagliato l' operazione"; " non si trova la via per la sorgente, ma/ non si trova la vena, dio mio, non si trova. " Cecidere manus . Così recita l' incredibile finale di un' altra poesia di colore stigio, d' aere perso ( vi torna, infatti, il Leitmotiv dell'asfalto: " torna, non tornare più/ qui, nella nostalgia dei viventi,torna/non tornare, ritorna, mai più. "Il destino di Orfeo è in sé contraddittorio e insufficiente, è lui stesso che, voltandosi ( come, etimologicamente, fa ogni verso...), decreta la fine del suo sogno d' onnipotenza- cioè d'eternità. Per condannarsi alla strage del tempo".
Andrea Cortellessa
@ abate
Gentile Abate, mi sono limitato a trascrivere un saggio (quello di Andrea Cortellessa) che ritengo importante per comprendere De Angelis e il suo tempo. Tutto qui. Nessuna agiografia. Lei, che è persona seria, abbia la pazienza di leggerlo e se ne renderà conto. D'altra parte anch'io ritengo che il rapporto Fortini/De Angelis sia stato difficile sul piano umano e non decisivo, per nessuno dei due, su quello poetico.
Marco Azzolini
Ennio Abate a Marco Azzolini:
Il "predicozzo" non è rivolto a lei.
La disparità di maggiore rilevanza tra Franco Fortini e Milo De Angelis non è stata fino ad ora posta in essere. Il Fortini è un poeta "sano", come lo è ogni marxista, magari con tratti sofferenti, Franco Fortini, ma pur tuttavia in una tradizione di speranza e progettualità e di conoscenza della Storia e trasformazione dello stato materiale delle cose. Il De Angelis è un poeta toccato dalla malattia mentale e da determinati torbidi della psiche che potevano aver esperito un Artaud o un Benn o altri di consimile temperamento, alterati nelle cose più comuni della vita e in quell'altre non comuni. Entrambi, il Fortini e il De Angelis, scandagliano con pregevole fattura formale questi mondi, ma i mondi sono tra di loro inconciliati.
Franz Schroeder
Perché mai fare obbligo a questi due poeti, il Fortini e il De Angelis, di una specie di competizione? Sono poeti tradotti, riconosciuti e apprezzati in Germania. Ma nessuno si immagina di prescegliere il migliore. Goethe e Brecht sono dentro le parentele del Fortini. Kleist e Rilke s'imparentano al De Angelis: intendo come progenitori spirituali, non per similitudine vera e propria. Ognuno di ambedue ha riuscito a rappresentare ottimamente una sua tradizione, epica nel Fortini, orfica nel De Angelis. Lo storico, se di vero storico qui argomentiamo, non dichiara simpatie ma prende atto della loro rispettiva forma innovante e li ammira ambedue.
Franz S.
Ennio Abate a Franz Schroeder
La contrapposizione sanità/malattia mi pare in generale molto rischiosa. La si può trasferire dal campo medico, dove ha un significato scientifico abbastanza preciso e limitato ad altri campi e addirittura al campo dell’ideologia?
Cosa vuol dire che ogni marxista è “sano” (sia pur con le virgolette)? Che l’ideologia marxista rende “sani” perché dà speranza, offre alle menti un progetto, si fonda su una teoria o dottrina?
A parte il fatto che oggi il marxismo è, come altre ideologie, compreso il liberalismo, insufficiente a spiegare cosa ci sta accadendo con la cosiddetta “globalizzazione”, c’è da dire che anche le religioni animano speranze, delineano progetti (persino per l’al di là) pretendono che la loro dottrina abbia fondamenta saldissime (nella Rivelazione da parte di una divinità) e quindi anch’esse renderebbero i loro fedeli “sani”.
Quando poi si andasse a verificare davvero con strumenti psichiatrici o psicanalitici se e quanto Fortini sia stato “sano” e quanto De Angelis sia stato «toccato dalla malattia mentale e da determinati torbidi della psiche» le cose si complicherebbero e ne verrebbero fuori sorprese o altri rompicapi.
Meglio perciò tenere a bada (non escludere) le indagini sulle biografie dei poeti o scrittori e ragionare sulla base di una buona conoscenza dei loro testi e del contesto storico in cui quelli sono nati.
Nelle considerazioni finora da me fatte sul *nodo” (problematico) Fortini/ De Angelis non c’è nessun intento da parte mia di metterli in competizione tra loro o di negare ad uno di loro (nel mio caso a De Angelis) il titolo di poeta. ( E sono meno interessato dialtri a stabilire se massimo, medio o minore).
Sono stato io, poi, a richiamare l’attenzione (citando una frase di Perlini) sulla esistenza di due tradizioni - la dantesca e la petrarchesca, che rappresentano modi diversi di svolgere la funzione poetica ( a partire dal mondo o dalla propria interiorità). E lo stesso vale per Fortini e De Angelis, che, senza qui stare a sottilizzare, possono rientrare in tradizionei “contrapposte”: epica il primo e orfica- ermetica-romantica il secondo.
Ma fissate sulla loro carta d’identità i connotati (epico, orfico), non significa che queste loro ricerche siano equivalenti, abbiano lo stesso peso, suscitino la stessa qualità di sentimenti, rimandino a significati intercambiabili, sollecitino desideri o volontà equipollenti, invitino a guardare il mondo, la gente allo stesso modo.
Il lettore sceglie, preferisce, accetta, respinge e, anche se “ammirasse” entrambi, non lo può mai fare in modo così neutro e asettico come se fosse una macchina misuratrice dei loro valori. Perché vive nella storia, ha da fare i conti con la storia, la quotidianità, il proprio corpo, il tempo che passa, le illusioni che si svelano tali, la fine di certe ideologie e l’apparire di altre. E quelle poesie di Fortini o di De Angelis gli parlano in modi diversi. Il lettore-critico riflette in più su tante altre cose: le diverse poetiche, le diverse tradizioni, il legame più stretto o più lasco con il contesto storico. E distingue punti di contatti e differenze e si costruisce un giudizio e dà la preferenza MOTIVATA, ARGOMENTATA ( e quindi anche rivedibile!) a Fortini o a De Angelis, a secondo del serio lavoro critico che è riuscito a condurre.
gent.mo Franz Schroeder,
in un precedente post Laura Canciani (a proposito del mio libro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010) poneva 10 domande, tra le quali:
«3)è fondata la tesi dei nodi irrisolti della poesia italiana del secondo Novecento, affrontati nel capitolo “gli anni Sessanta”?
4) è fondata la tesi del nodo fondamentale che né Pasolini, né Montale, né la neoavanguardia né nessun altro aveva affrontato (la deriva verso la narratività)?; e che quel nodo irrisolto sarà destinato a ripresentarsi, come un bubbone, ingrossato, ad ogni generazione, in attesa di una soluzione?;
5)è fondata la tesi di Linguaglossa che parla esplicitamente di “modello maggioritario” che si è imposto dopo la “sconfitta” di Fortini e di Ripellino, con conseguente instradamento della poesia italiana nell’alveo del “riformismo moderato” della riforma sereniana?;
6) è fondata la tesi di Linguaglossa secondo il quale che il più grande poeta degli anni Cinquanta è un certo Ennio Flaiano (il quale si opponeva allo sperimentalismo e al linguaggio poetico postquasimodiano)?;
7) è fondata la tesi di Linguaglossa il quale cita un giudizio del tardo Giovanni Raboni, il quale mette in rilievo che forse la riforma sereniana, a fronte della ipotesi di riforma indicata da Franco Fortini, era una piccola riforma e che la poesia italiana che seguirà la strada aperta da Sereni si avvierà verso una poesia più facile e leggibile (e quindi più conformista)?;
mi sembra che nel libro Linguaglossa abbia messo molta carne al fuoco… l’autore dice che sono state combattute delle battaglie, ci sono stati degli sconfitti e dei vincitori, Chi sono gli sconfitti? Chi sono i vincitori? vogliamo dirlo?»
giorgio linguaglossa
gent.mi Franz Schroeder e Ennio Abate,
porre una schematica contrapposizione tra Fortini e De Angelis significa svuotare e impoverire i termini della questione da me posta e correttamente ripresa da Ennio Abate. È metodologicamente scorretto porre una contrapposizione tra i due poeti che appartengono a due epoche diverse della storia d'Italia, là dove il primo muore nel 1995 e l'altro è un nostro contemporaneo.
Il discorso critico che sto facendo in questi ultimi due decenni si può riassumere così: nel tentativo di raddrizzare (la gobba) le distorsioni che la poesia it. ha subito dagli anni Sessanta in giù. Certo, in queste distorsioni hanno avuto un ruolo fondamentale le ragioni storiche che hanno portato l'Italia alla politica del compromesso storico e poi al suo fallimento, alla nascita del CAF (famigerato), alla crescita esponenziale del debito pubblico per comprare l'adesione dei ceti piccolo borghesi alla politica della NON RIFORMA DEL RIFORMISMO MODERATO; tutto ciò però non ha impedito la fine della PRIMA REPUBBLICA che è annegata in un SISTEMA DI TANGENTI GENERALIZZATO. Di qui la SECONDA REPUBBLICA e l'accrescimento della corruzione del sistema paese (lo dice la Corte dei Conti!) e la conseguente STAGNAZIONE E RECESSIONE. Siamo arrivati ai giorni nostri. Ma il presente è sempre figlio del passato.
La poesia ha seguito (nel bene e nel male) la traiettoria del Paese, ha continuato a far finta che l'avvento della paventata società mediatica portasse qualche buon dono alla poesia. E infatti l'ha portato con l'esaurimento della linea di resistenza fortiniana per la preminenza del principio sostanziale o sostantivale in poesia e l'invasione del principio aggettivale e degli emozionalismi delle ultime generazioni. Il problema, direi, ridotto in soldoni è questo. In questo quadro la poesia di De Angelis (dei primi due libri del 1976 e del 1983) rappresenta il trionfo della poesia degli emozionalismi e della supremazia del principio aggettivale. Si badi, io non sono un detrattore della poesia deangelisiana che ho definito «di indubbia caratura», mi sono limitato a descrivere un processo storico di degenerazione della poesia it. che giunge fino ai giorni nostri, e mi sono limitato a dire che occorre un correttivo, occorre porre uno stop, degli argini a questa ESONDAZIONE della poesia dei sentimenti e delle emozioni degli ultimi due decenni. Seguendo questa via non mi meraviglia, ripeto, che si scriva alla maniera di Mariangela Gualtieri e alla maniera del post-minimalismo magrelliano e deangelisiano.
E il fatto che un critico raffinato come Giovanni Raboni si fosse accorto dove si stava avviando la poesia it. affermando che la via fortiniana era quella giusta a fronte della riforma introdotta da Sereni, mi conforta in questa mia intuizione critica.
È tutto il tardo Novecento che va riscritto. A cominciare dalla sua poesia. In questo quadro la poesia deangelisiana, dopo i primi due libri, mostra preoccupanti sintomi di involuzione verso facili ed esasperati emozionalismi.
Questo si può dire senza che ciò venga recepito come un delitto di lesa maestà?
giorgio linguaglossa
Alla fine degli anni ottanta, incontrando la poesia di Milo De Angelis, ne rimasi molto impressionato. Era un autore diverso da tutti gli altri, isolato anche nella sua formazione, con un temperamento straniante, che però usava una lingua del tutto "consueta". Andrea Inglese - poeta con posizioni molto lontane dalle sue - riassume bene questo impatto che l'opera di De Angelis ha avuto su di me e su molti della mia generazione.
Milo De Angelis è stato un punto di riferimento per molti giovanissimi che circolavano con poesie in tasca tra fine anni ’80 e inizio ’90, anche se la sua attività di “militante” della poesia era iniziata ben prima. Dunque un punto di riferimento, ma a mio parere pericolosissimo. Da avvicinare solo con un angoscione d’influenza intenso e costante. Come ogni vero poeta forte (in senso bloomiano), attirava a sé i neoscriventi versi come un magnete possente. Tutti ne eravamo affascinati. Alcuni, purtroppo, ne sono rimasti invischiati, stilisticamente intendo. E si è fatto cattiva poesia “deangelisiana” per almeno un decennio. (Vale sopratutto per Milano e dintorni.)
Questo fatto era anche legato a quella che è la personalità di Milo: dominato da una curiosità onnivora e spregiudicata, verso tutto ciò che gli sembrava, per altro, comportare anche un’esperienza biografica forte, irregolare, dietro l’attività dello scrivere. Sia per coloro che hanno voluto sfuggire alla sua influenza, sia per coloro che ne sono stati in qualche modo ipnotizzati, rimane uno dei personaggi che ha saputo mostrare più disponibilità e apertura verso gli esordienti. Ciò non c’entra nulla con la qualità del testo. Ma c’entra con il modo di “praticare” la poesia.
Andrea Inglese il 11 marzo 2005 alle 13:57 "nazione indiana"
Commentiamo una risposta che Giorgio Agamben ha rilasciato in una intervista a una domanda di Peppe Savà
(E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo).
Domanda:
Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?
Risposta:
«“Crisi” e “economia” non sono oggi usati come concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi” dura ormai da decenni e non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.
La Banca –coi suoi grigi funzionari ed esperti- ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede –la scarsa, incerta fiducia- che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”? Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane».
Ecco, io mi chiedo: dinanzi all’AGGRAVARSI DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE di che cosa ci parla la poesia deangelisiana? delle sue idiosincrasie personali e del suo rapporto con il mondo che è rimasto allo stadio adolescenziale? È palese che questo tipo di poesia che ancora negli anni Ottanta e Novanta poteva apparire agli occhi degli adolescenti naif e spregiudicata, oggi invece appare a quegli adolescenti diventati nel frattempo uomini e donne adulte come una fredda tecnica applicata alla scrittura che non ha più nulla di significativo da dirci.
Laura Canciani
Devo ringraziare di tutto cuore i blog "poesia 2.0" e "moltinpoesia" per il materiale critico su Milo De Angelis. Sono pagine introvabili e inestimabili.Quelle di Andrea Cortellessa sono state l'ultimo e attesissimo dono. Io, personalmente, insegno Lettere nella scuola superiore, a Roma, e ho frequenti legami con l'Università. Ebbene, ho potuto constatare che De Angelis è un poeta molto presente sia nei manuali del biennio sia nei corsi annuali di Letteratura Moderna e Contemporanea. Non potete immaginare quanto siano preziose le riflessioni che avete messo in rete! Vi ringrazio nuovamente e oso chiedere al Prof. Azzolini (che l'aveva promesso) di inviare la recensione di Alfonso Berardinelli sull'opera del poeta milanese a partire da "Tema dell'addio". Vi segnalo infine le mirabili e recentissime considerazioni di Daniele Barbieri, che nel suo blog fa il punto, con la consueta intelligenza, sulla presente discussione intorno a Milo De Angelis.
Grazie a Ennio per questo acuto resumé, molto utile. Resto comunque della mia idea (negativa) circa le diatribe critiche, che lasciano il tempo che trovano di fronte al gusto personale di chi legge e predilige un autore a fronte di un altro.
Forse addossare a De Angelis la causa dell’attuale stato di degrado della poesia italiana può apparire eccessivo, tuttavia resta indubbio che un poeta che calca le scene, come lui fa,
dovrebbe porsi dubbi su cosa intendere per autenticità della parola poetica. Condivido in pieno, a tal riguardo, l’analisi che Linguaglossa fa sulle responsabilità spettanti al poeta d’oggi, o per meglio dire al produttore di versi, sulla ‘qualità’ dei messaggi che si vogliono trasmettere. Anzi a me sembra che la via indicata da Linguaglossa sia l’unica possibile per uscire dalle secche di una poesia volta alla celebrazione del “pathos sentimentale” (come acutamente sintetizzato da Ennio Abate), e Linguaglossa fa benissimo, in qualità di critico, a prendere le dovute distanze. Anche a costo di restare una voce fuori dal coro.
Tanto più che le differenze risaltano con evidenza quando si volge lo sguardo sulla produzione oltre confine. Penso che si trarrebbe sicuramente profitto dalla lettura di poeti come Montero, con la sua poetica dell’esperienza, o la poesia dell’’umano’dell’americana Adrienne Rich o, ancora, Wendy Cope – per non citarne che alcuni -almeno per comprendere la distanza che corre tra un aggettivo (poetico) e un impegno (poesia), inteso nel senso di lavoro, Pavese permettendo.
Giuseppina Di Leo
Anch'io concorso su quei versi indimenticabili di Milo De Angelis:
In noi giungerà l'universo,
quel silenzio frontale dove eravamo
già stati
Scusate, ma mi pare che siano scomparsi degli interventi, nel periodo che va dal 6 al 21 settembre. Cosa è successo?
Roberto Russo
Ennio Abate a Roberto Russo:
A quali interventi si riferisce?
Risponda per favore indirizzando a moltinpoesia@gmail.com
Poi, se necessario, darò conto a tutti del contenuto della sua mail. Dobbiamo imparare tutti a rispettare lo spazio destinato alla discussione sui post e sui contenuti dei post.
Mi spiego, gentile Abate. Ho letto su "guardareleggere" del 15 settembre un intervento di Daniele Barbieri in risposta a un altro intervento di Giorgio Linguaglossa che era apparso (afferma Barbieri) su "moltinpoesia". Volevo rileggerlo e non l'ho più trovato. Tutto qui.
Roberto Russo
Ennio Abate a Roberto Russo:
Lo trova non in questo post ma in quello intitolato "Salutari provocazioni" di Giorgio Mannacio.
Ecco il link:
http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/09/giorgio-mannacio-salutari-provocazioni.html
Lo trovava facilmente anche scrivendo in 'cerca' Daniele Barbieri
La ringrazio, gentile Ennio Abate, e mi scuso per la confusione tra i post...
Roberto Russo
Leggo in ritardo la bellissima discussione su Franco Fortini e Milo De Angelis. Vorrei solo aggiungere la poesia (tratta da "Biografia sommaria") che De Angelis ha dedicato a Fortini, in memoria del loro vivo e lacerante incontro
LA BUONA NOTTE
a Franco
Arrivammo a piccoli gruppi
in una periferia di autocarri e brina
per dare la parola
alle ossa, alla lieve mussolina,
epopea dei santi e delle bocche
straziate oscuramente, in un silenzio
di altiforni, suoni disadorni
del tuo ritmo imprigionato e vivente.
Morire è l’infinito presente
di ciò che non si coniuga, una goccia
sporca sui nostri visi ricomposti
il medesimo stupore che tu fosti
vivo tra i vivi in fila indiana, luce
calcinata, stridere
delle lenzuola, l’arcana
musica abbreviata nella mente ritorna
all’ora del prodigio, e il cielo
è solo una stesura differente, che non apre
le sue porte. Tu
di nessun bacio, nessuno nei secoli
dei secoli. Tu di qualsiasi morte.
3 dicembre 1994
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