Giorni
fuggono a vela dietro il vento,
corni
del dolore, pane impastato di ferro
compendio
del vortice eterno, pantano ove urla
dispendio
di fiato, la mia apocalisse è scontata
Coltivo
tempo al boia, questo mi piange,
arrivo,
poi, in mare annegato, fuoco arso,
tinto
di funebri drappi, rugiada infernale, -non fatto-
Avvinto
nel caos, non domandare. Taci, per carità.
Avvicina
un poppante che sugge, avvertilo, questo sì,
mattina di
lumaca incoscienza, affettuoso
alabastro
la pelle e per lui un raggiro alla porta.
Vincastro
di carbone, ahimè, minatore imminente.
Arcobaleno
di sangue e battito del cuore
ameno
frullo solo se amante mi bacia in bocca.
***
Esalate,
cembali, la madida
nota.
Salvatemi
dalla persecuzione
la
notte
che
strappa identità e sequenza
e
s’impadronisce le spoglie
di
qualsivoglia fantasma- pensiero.
Siate
simili al leone che la foresta
bracca
e
in assolo regna la culla-limen.
Approfittate
di me.
Innalzate,
cembali, un’armatura
al
vuoto
che
rapisce le vergini in boccio
al
desiderio e me come reietta.
Lo
chiedo anche al flauto o alla cetra
che
parimenti volvono in sonoro
epilettico.
A
chiudere le palpebre al buio
come alba alla frattura
dell’argine
con
l’ignea sua stilla di luce.
Non
mi protesto innocente:
semplicemente
sono.
***
Ah,
Poliremo, è ben arduo
il
passo al tuo esercito in parata
dai
riccioli gialli e il piglio rattenuto
così
sovrabbondante nel campo
pigmentato
la smisurata pupilla
sotto
il grande cielo
irrigidisce
lo slancio
lungo
i raggi spigliati e
solo
la testa sul lungo esile collo
risale
la fotosintesi
devota
e fiera. Infaticabile
all’orizzonte
la tempesta già
affretta
gli stormi imminenti
e presto
l’occhio del vento
pareggerà
la piana da ogni rigoglio:
Coleridge,
abbi pietà,
trattienila
allo scoglio
tu
che sai, dai girasoli d’oro.
***
Accarezzo
un acquarello
di
areca
su
un marezzato arenile
in
battimare
o
carena
areno
una
solare parentesi
nell’area
ilare
impareggiabili
are
mi
apparecchio
da
che
nella
regale tartarea
parentela
lunare
orbicolare
la
regina
il
mio lare
faretra
di nettare
mi
carestia
dell’amarena
carente
calcarea
pare
ed
io amareggio
del
mio speculare nerastro
rimare
***
Per
strade chiuse in un chicco di riso
per
strade lasciate dal flutto, inorgogliose
straniere, night in the sockets rounds,
pulsa
la notte-vino spillata dietro il sipario
rabbrividisce
un pensiero dai capelli taciti
di
specchi deformanti la spiga di grano.
Qui
in questa strada sporcata da tutti i tempi
da
ogni premonizione e da avanzanti futuri
divorati
in piccolo grumo da tutti gli istanti
un
gatto ronfa e un orfano al muro del pianto
un
suono non oltrepassa lo spessore del marmo
per
strade gelate per pietre tombali per cento peccati
per
strade la notte-agonia si perde sostanza.
Impicca
l’avventura all’albero del doppio falso
per
strade nude desiderio sanguinolento di carne
e
farsi-sfarsi nella lattiginosa acacia.
***
Dalla
Libertà passo alla libertà
ove
impossibile il di e il da
ma
per quanto scali la elle
uno
staffile da lacchè.
Ma
se mi cadranno i capelli
la
quotidiana decenza
giuro
che acquisto un tupè.
***
Gli
dei sono fuggiti dal mondo
chi
insegue gli dei? In fondo
siamo
tutti in errore
mai
rasi e velluti -né cuore-
mai
lilia speranza o ragione
qui
è casa di diavolo o persuasione
di
cecità.
Sondo-sconto me ateo vibrione
di infedeltà.
***
Hands
grumble on the door
La
lucciola sbatte il ciglio all’intrepida luna
e
un lemure mangia alle mie coste d’avorio
la
cavolaia alla resa del fiore, fardello di
novembre,
il velo catatonico della notte
chiuso
fra quattro mura, lo sciame dei pensieri
per
non vedere- intendere fa finta di niente.
Il
sapere discolora a morte linfa di vetro
e muove in ditirambo smania e amaro vuoto.
Non
posso aprire, non riconosco nessuno.
***
I celebrate myself, and sing myself
(Walt Whitman)
Canto
il me. Stono l’atletica del me
l’energia
originaria. Le mie orecchie
otturate,
io nazione del male.
Me
male tara e vento sono muta
prima
di morte e cieca avanti alla
terra.
Da celebrare neanche fiore
in
perfetta salute, alcuna voce
di
fede. Mio deluso germe coevo,
ricordo
il dardo scoccato a vuoto
dal faro-chimera sul mare ora spento.
La
Natura non ha da confidarci
che
deserto di passato e venturo
e a
squarcia gola urla sui ceppi:
Pape Satàn, pape Satàn aleppe!
***
Ci sono giorni chiusi
dal mio terzo occhio:
fragile tenda, insalda dote
i sensi
e all'improvviso viòla di
extrasistoli.
Sulla battigia un giglio
e cielo scoppiato al
tramonto.
Uno sguardo che mi teneva
così mi sembrava al
momento.
Il mondo fermo -da odalisca-
sull'orologio di ogni
campanile.
Compiere qualsiasi ora
non è la notte
neppure la morte
solo un intervallo
d'extracorpo
una nota sola biscrepata
per volare
dove toccai
come potrebbe essere sospesi.
(da: Diario di minima quiete, ed. LietoColle
2005)
***
La Terra di tutte le terre
sulagna e carnale
sdraiata al sole
ammuinata dai venti
olim ospitava ligustri e
agavi.
Con la fronte imperlata di
neve
volgeva ‘n cielo
l’azzurrità dello sguardo.
Ma nella quietudine delle
notti abbrunate
dall’imo impietroso dei
monti
invocava un amante dalle
labbra madide.
Da ogni crepa alluceva un
lamento
abbrusiato come un torrente
desuliato come pelle arida.
Al davanzale dell’ovest una
volta
la Luna ricolse il suo
pianto
e le stelle sorelle,
accumpagnate da Venere,
sul far del mattino
sciallarono dai setati capelli
dorate gocce di acquazza.
Le forre allora si
cummigliarono
di un mare spumiglioso
e la Terra si maritò con un
compagno pescoso
di pesci ballerini
onde stormenti e scabre
fantasmagorie di flutti
in un arco d’amore di baci
e di spruzzi.
Che frenesia d’azzurri!
La Terra di tutte le terre
trovò pace
nella rorezza dell’acqua
in quel tempo, quando ancora
il mare cantava
e sulla sagliuta il sole si
fermava tremulianno a mirare.
Mare, igitur nati in tua
liquitidate:
omnia ex te veniunt,
speculum coeli paterque
dell’orbe terraqueo.
In quel tempo il piccolo
pesce s’affacciò alla rena
e germogliò dall’aluccia
un arto camminante.
-Vai piccolino, vieni nel
mondo-
Pure la Terra di tutte le
Terre dal cuore di fiamma
accolse la vita sotto il
lume dell’emisfero nord.
Sulla neve il sole
addisegnò un prato alle greggi
folgorò le corolle dei
fiori
tinse di turchino i corsi
d’acqua e il mare di smeraldo.
Sole, che l’aria coi raggi
ragguizzi
permotore zelante
tu che spargi e accapizzi
arazzi aurei
pizzi luccicosi e delizie
azzurrose
grazie per la tua
lucentezza indiata
l’esistente rezza terragna
Tu che cotidie zavorri
nello zoccolare del cuore
tale contentezza oculorum
che l’anima s’impazza
affatturata.
Sole, che il cuozzo d’acqua
rincalzi quasi adamante di
nastri e di sprazzi
che spazzi le latèbre
notturne
e i bozzoli dei fiori anche
in semenza
sullo stelo in fragranza
innalzi
spezza quest’aria fetida
elimina piccozze
belligeranti e furbizie
disuguaglianze e tristezze
dalla strozza malezzevole
del tempo
slega le corazze viziose e
pungenti
ut semper et ubique regnat amor
il pozzo della terra
ammelato di ambrosia
ubi bibendum un sorso di
rucezza fraterna
e pur anco uno schizzo
salvifico
di conoscenza e pazzia
a ramazzare la via.
(a Flavio Gioia)
Il mare brama gli sguardi
sconfinati
e soprattutto le bocche,
le abboccolate bocche,
-vocche aperte, pummarole
callose-
che neanche sanno quanto si
stennuleja il mare
ma si dissanguano le guance
a tragittarlo.
Quelle bocche schiumate col
sangue, gonfiate dal tormento
bocche dell’ardimento
umano,
bocche tenaci nell’oltrepassare
le proprie barricate.
Quelle bocche di parole tonne
tonne come un bacio
turbolenti come ruglio o
abbagliore
in lotta con l’ignoto
–vocche sempre pronte a
canoscere
melograni sgranati, lengua
che trase e jesce-
hanno segnato strade
d’acqua
intrecciato le dita ai
continenti.
E prima ancora delle traversate
un intrepidus Flavio,
se pur mai nato,
dalla parlatura acconcia,
fluido, non sciancato,
‘o ffuoco tra i denti
nu tantillo austero con la
spada e col saio
protendendosi innanzi al
mare di Amalfi,
capelli alla risacca, cuore
gettato ai vènti cardinali,
infilò sulla rotta un ago
magnetico
affinché la stella polare
sbrilluccicasse ai naviganti etiam nel sole.
(da: Gramaglie e
Frattaglie, ed. LietoColle, 2011)
* Fortuna
Della Porta
Ha pubblicato in
versi: Rosso di sera, Il Calamaio -2003- Diario
di minima quiete LietoColle -2005- Io confesso Lepisma –2006- Mulinare di mari e di muri LietoColle, 2008. La sonnolenza delle cose LietoColle, 2010. Gramaglie e Frattaglie LietoColle, 2011. Metafisica dello zero LietoColle, 2012
Un poemetto di circa 1000 versi; Canto Primo,
è apparso sul n. 28/29 del periodico letterario Poiesis nel 2003 diretto
da Giorgio Linguaglossa.
Molti i testi in antologie, tra le quali William Shakespeare, I sonetti,
patrocinata dall’università di Berlino. In prosa: Scacco al re è opera
teatrale per le edizioni Carta e Penna, 2006; i racconti: Ritratti,
Oèdipus edizioni, 2007; e-book: Labirinti,
e-book, kultvirtualpress, 2007; La casa di Gaia, La Recherche, 2012
Scrive articoli su periodici letterari sia
cartacei sia on line.
1 commento:
Sono uscita or ora dall'abisso ,dai colori, dalle nostalgie,dall'ardore. Quasi sentivo morire il respiro in una fantastica dimensione. Le parole scelte mi avevano inebriata come una gran tazza di buon vino bevuto tutto d'un fiato. Fui abbagliata da quel sole che si fermò"tremulianno a mirare" più non fui "cieca avanti alla terra" e come lui con "o ffuoco fra i denti" quasi scompaio davanti a cotanta bellezza. Grazie Emy
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