sabato 12 gennaio 2013
Giorgio Linguaglossa,
Su "La metamorfosi del buio"
di Salvatore Martino.
Non ho letto I Dodici di Blok o le poesie di Herbert per sapere qualcosa di più sui loro
autori: semplicemente, volevo sostare in quell’aura, in quella leggerezza, in
quell’atmosfera, o insania. È un paesaggio, la scrittura, che non va a finire
da nessuna parte, è lì e basta. Respirare in quel paesaggio la sua atmosfera è
tutto quello che si può fare. C’è una trama?, c’è uno sviluppo?, c’è un senso?.
No, in poesia non c’è nulla di tutto ciò. Possiamo leggere questo libro di
Salvatore Martino come possiamo stare seduti su una sedia a dondolo all’ombra
di un albero a goderci un paesaggio, nell’aria pulita del mattino. Ora provate
per un attimo a smettere di dondolarvi. Non è la stessa cosa vero?
L’atmosfera di un bel libro è il dondolio della sedia. Nient’altro.
E il vento che ricompone l’erba di quel campo, lo scorrere delle nuvole
che proietta ombre passeggere sugli alberi. Quel volo d’un uccello e, in alcuni
casi, il rumore delle foglie di un albero o quello di un treno che passa
lontano sui binari. L’atmosfera di un libro di poesia è tutto ciò : ciò che
vive della scrittura dopo che essa è morta, scritta in un linguaggio morto
perché fissato nel tempo e dal tempo. È ciò che rende quella scrittura vivente.
È l’increspatura sulla superficie dell’acqua:
Il solo motivo per cui si legge un libro di poesia è perché quel libro ci
consente di sostare in un luogo in una atmosfera particolare e irriducibile,
respirare quell’aria, quel profumo singolarissimo differente da ogni altro
profumo e che c’è solo lì e non in nessun altro libro.
Recentemente Laura Canciani ha scritto: «il libro di poesia ha lo
svantaggio di dover fare a meno della «trama» rispetto al romanzo e al giallo;
ha lo svantaggio di non poter prendere il lettore per il colletto e trascinarlo
nel luogo del delitto che ha deciso il narratore di thriller; il libro di
poesia è inerme, non ha alcun potere sul lettore, non potere della seduzione da
risultato né quello di seduzione da abilità che ha invece il romanzo (e in
specie il thriller). Il libro di poesia non ha alcun potere sul lettore. Questo
è il suo più grande limite ma è anche il suo più grande pregio. I modesti poeti
allora tentano dei surrogati: la fibrillazione e l’estroversione dei palpiti
dell’io con esagerazioni dionisiache verbovolanti. I poeti di livello superiore
invece non ricorrono ad alcuna di queste «seduzioni», si limitano a disegnare
un’atmosfera, un profumo, un minimo rumore di parole…».
Nello stile di Salvatore Martino ci sono, soggiacenti, come in vitro,
tutte le contraddizioni e le antinomie che stanno al fondo della poesia di
questi ultimi decenni: Dopo La
Bufera (1956) di Montale in
poi, quella particolare ingessatura dei linguaggi poetici che derivavano
la propria origine dalla filosofia delle occasioni, dal lacerto di memoria, dal
lapsus, dal commento a una notizia di cronaca o di Storia o di geografia o di
botanica etc., dalla fonte dell’Erlebnis, dalle zattere della temporalità,
dalla Lingua degli Angeli e da quella del Mito etc.; insomma, si è fatto poesia
in questi ultimi decenni di tutto e per tutti. Si è creduto così di fare una
«cosa» democratica, di portare la poesia alla mensa delle masse dei lettori. Ma
ci si ingannava. Nel frattempo il mondo si era imbarbarito e la poesia era
diventata sempre più democratica e permissiva.
Basti dire che Salvatore Martino, in un certo senso, tenta di andare
contro corrente, tenta di ritornare indietro, di fare una poesia «difficile»,
elitaria, solistica, forse presuntuosa come può essere presuntuoso parlare di
sé, dell’io, del dramma della morte che si è dovuto affrontare, come se ciò
potesse veramente interessare a qualcuno; alza il tono, alza l’asticella delle
difficoltà, tenta di sfondare il pentagramma, cambia spesso la chiave di
violino. Ma tant’è, Martino traccia la sua dritta via nella selva oscura della
democrazia dispiegata e va dritto per la strada tracciata:
Ancora una volta
una lunga degenza in ospedale
e stavolta davvero
ho guardato l’abisso
e l’abisso ha guardato dentro di me
Sono disceso come Odisseo nell’Ade
e mani d’amore
mi hanno trascinato fuori
dal gorgo dove ero scivolato
come chi dorme si abbandona ai sogni
È una poesia che nasce dal fondo oscuro della coscienza «In my beginning is my darkness (…) In my darkness is my beginning», scrive l’autore, e commenta:
Angelo atterrito
che abiti le caverne del mio fiato
tieni lontana
dall’orma del mio piede dall’approdo
la bianca figura dell’Isola dei morti
riportala nel gorgo della sua tela
con l’alito atroce della tua parola
È un libro che nasce dall’esperienza della morte toccata con mano dopo
una lunga malattia. Un’esperienza terribile. Ma è grazie ad essa che la poesia
è tornata ad abitare nella casa di Salvatore Martino:
Dopo mesi d’insperato silenzio
è tornata a inquietarmi
la poesia
con le sue beghe e le ambiguità
le sue maledizioni
la consueta tirannia della parola
la sua equivoca trascendenza
Credevo di averla confinata
in una stanza priva di finestre
senza il sospetto
di una impossibile sortita
Invece è ancora qui
a colmare di sangue
la nostra liturgica ferita
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
CHIARO,INELUTTABILE. E questo IO a me interessa. Ennio che ne dici?
Emy
Posta un commento