mercoledì 23 gennaio 2013

Itzik Manger, Tre poesie.



In singolare coincidenza con la poesia-riflessione di Donato Salzarulo su una visita ad Auschwitz, Giorgio Linguaglossa propone queste poesie  in lingua yjddisch di  Itzik Manger che fanno intravvedere sentimenti delicatissimi (si veda "Re David e Avishag ") e  premonizioni terribili ( "e in ginocchio cadrete con terrore –"). [E.A.] 

Traduzione dallo yiddish di Ariel Rathaus, Edizione fuori commercio n. 176, 300 copie numerate a cura dell’editore Carucci (1983). Nota finale di Giorgio Linguaglossa.


Amore

Agili cervi su nevosi monti,
corna d’argento impigliate nella luna
e con cui la luna è generosa.

Mia madre li protegge. Va con loro.
Perché i lupi nei boschi non ne fiutino l’odore,
spegne le loro impronte sulla neve.



Mia madre è morta ormai da molti anni,
ma il suo amore vaga nello spazio
a braccia spalancate con il vento.

Ella addormenta l’ansia delle strade,
toglie il malocchio ai piccoli conigli
e chiama «figli» gli esili lombrichi.

L’amore non la lascia riposare nella tomba.

Ecco che apre il libro di preghiere alla luce delle stelle
e parla e parla a Dio, perché l’ascolti.

Le sue lacrime brillano nel sogno…



Re David e Avishag


Il re sfoglia il suo piccolo salterio
(la mezzanotte è profonda),
fuori di lì davanti alla sua porta
un militare è di ronda.

E il re mormora: «Gran Dio,
io lo so che Tu sei qui,
in ogni istante dentro questo mio
minuscolo salterio e dentro me».

Poi si alza – per oggi ne ha abbastanza
di conversare con l’Onnipotente,
e allora come un’ombra lentamente
si trascina a letto.

Avishàg dorme, lieve è il suo respiro.
E ascoltala – è addormentata e parla,
e dal suo sogno esala una fragranza
di pecore e di gregge.

Fragranza di pineta e di ruscello,
e di una grossa luna di campagna,
e d’un pio vecchio tiglio che protegge
la casa della mamma.

E di languore e di malinconia,
di un ricordo struggente che lontano
la porta del salterio del sovrano
a un canto che appartiene solo a lei.

E il re pensa: «Strana cosa –
giace qui con solo la camicia,
è qui così vicina che la tocco,
ed è così lontana e misteriosa.

Poi  china il suo vecchio capo bianco
e bacia la campagna dentro di lei
e bacia il vecchio tiglio che protegge
la porta della mamma.

E ritorna con passo muto e stanco
al suo tavolo. Poi una lisciatina
alla barba. Ed un gemito in sordina,
e una scorsa al suo piccolo salterio.



Io il trovatore


Io il trovatore, il vento e la sgualdrina,
presso lampioni oscuri salutiamo
con rossi fazzoletti: Adieu,
o nostra malasorte, nostra stella!
Andiamo via per non tornare più,
prima ancora che il grano sia maturo
e che i fiori muoiano appassiti.

Io il trovatore, il vento e la sgualdrina,
partorimmo in cantina la bellezza.
Ora sfiniti e stanchi delle stelle
e del canto, e del nostro proprio corpo,
ce ne andiamo alle mute e scure porte,
prima ancora che il grano sia maturo
e l’avena matura per il taglio.


E forse in bianche notti di settembre
come pallide icone silenziose
negli angoli, non viste e solitarie,
con battiti di meste dita a voi
ricorderemo che a noi sfiorì la vita,
prima che il grano fosse già maturo
e l’avena matura per il taglio.

E ascolterete la parola muta
sedendo assorti, cupi, come assenti,
e su di voi s’incendieranno stelle
e in ginocchio cadrete con terrore –
per quelli, per quelli, tutti quelli
le cui vite languirono sfiorendo,
prima ancora che il grano fosse già maturo
e l’avena matura per il taglio.

Itzik Manger (1901-1969) è fra le figura di maggior spicco nella poesia yiddish del tardo Novecento. L’opera di questo autore è varia e composita, richiama alla mente i temi classici del «pittoresco» e ormai scomparso mondo ebraico dell’Europa orientale, dall’altro si riconnette a storie bibliche rivissute con ironico e sognante disincanto e immerse in un’atmosfera di popolaresca quotidianità filtrate da una sensibilità tratta dalla cultura poetica più progredita d’Europa; spesso infine, rinvia a materiali lirici più intimistici e personali di un mondo lirico scomparso che rivelano, pur conservando strutture e ritmi tradizionali, una istintiva vocazione al canto puro. È ovvio che la «bellezza» di cui si parla nella terza lirica è qualcosa che è per sempre tramontata nelle condizioni spirituali dell’Europa in cui fu scritta questa lirica delicatissima e appesa all’aquilone di un sogno.


(Giorgio Linguaglossa)

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Sono struggenti canti lontani che arrivano a noi con la loro musica malinconica, penetrante, che avvolse quei destini spezzati , preghiere vive come tesori per i loro cuori e per la loro indiscutibile, mirabile dignità. Grazie Ennio. Emy

Ennio Abate ha detto...

Il primo grazie a Linguaglossa.

Anonimo ha detto...

Il secondo grazie.Bellissime queste poesie dove il dramma ci trascina in musica e canto.
Maria Maddalena Monti

Anonimo ha detto...

Certo! Grazie a Linguaglossa per l'ottima scelta. Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

«Nel Talmud è scritto - disse Rabbi Baruch - che quando il bambino è nella donna una luce gli splende sul capo ed esso apprende tutta la Toràh; ma quando è venuto il momento di uscire all'aria del mondo, viene un angelo e gli batte sulla bocca e allora dimentica tutto...
A prima vista appare poco chiaro perché Dio abbia creato le dimenticanze. Ma il significato è questo: se non ci fossero le dimenticanze, l'uomo penserebbe continuamente alla propria morte e non costruirebbe case e non intraprenderebbe nulla. Perciò Dio ha posto nell'uomo la dimenticanza. Perciò un angelo è incaricato di insegnare al bambino così che non dimentichi nulla, e un altro angelo è incaricato di battergli sulla bocca perché dimentichi quello che ha imparato».*

La poesia di Itzik Manger proviene dalla dimenticanza (dell'orrore), è questo il punto saliente della sua poetica (della sua posizione nel mondo); ma qui dimenticanza non equivale a irresponsabilità o a complicità con l'orrore, il «miracolo» della leggerezza della sua poesia sta tutto rinchiuso nella sua simbologia dei poveri (il trovatore, il vento e la sgualdrina), nei simboli elementari e profondi che appartengono a un'epoca e a un popolo disperso (e, quindi a tutti i popoli). Solo i poveri portano tutto il peso del mondo, i poveri vivono l'orrore con tutto il suo fardello: ma la chiave della sua poesia è l'aerea leggerezza del canto che si staglia dai simboli e li lega con la cordicella di un parlare purissimo, un parlare che è «dimentico», che ha «dimenticato» ciò che doveva dimenticare... perché è passato un angelo che ha insegnato al bambino di non dimenticare nulla, e un altro angelo ha battuto sulla bocca del bambino perché dimentichi quello che ha imparato. È nel punto di tensione tra queste due forze contrapposte che scocca la lirica purissima di Itzik Manger, uno dei punti più alti della poesia occidentale del tardo Novecento.

*Martin Buber "I racconti dei Chassidim" Milano, 1979 p. 138

Lidia Are Caverni ha detto...

Amore fa pensare al Cantico dei Cantici, sono versi dolcissimi, struggenti, fanno sentire come la poesia alberghi anche dove è stato vissuto l'orrore e lo sconforto.
Nella contrapposizione tra quel che non doveva essere dimenticato e quel che doveva essere dimenticato per continuare a scoprire la bellezza della vita.
Lidia Are Caverni

Anonimo ha detto...

...è vero Giorgio, sono tre poesie splendide! La forza del poeta sta nell'aver oltrepassato il dolore da parte a parte, la maestria nel metterne in rilievo i nodi, la bellezza nel parlare del buio indicandolo semplicemente... E non è per nulla semplice.
giuseppina di leo