venerdì 25 gennaio 2013

Pietro Peli,
Una polemica in versi.


La poesia incontra spesso la storia. E allora urta in qualcosa (di materiale, sociale, politico...) che smuove sentimenti contrastanti: di paura, pietà, indignazione.  E se la cava a volte. Altre volte si rompe le corna. Quando poi è un giovane poeta, come Pietro Peli, dichiaratamente di piglio pasoliniano (Vedi suoi precedenti post qui e qui), a inciampare (mi posso permettere questa metafora?) in un personaggio controverso come il brigatista rosso Prospero Gallinari, scomparso di recente, quei sentimenti si colorano anche inevitabilmente (e direi fin troppo in questo caso) dell'ideologia populista con cui Pasolini lesse la storia di quegli anni.
Non ho nessuna esitazione a pubblicare questa sua poesia. Ma vorrei si ricordasse quanto, al di là della retorica ufficiale alimentata dai mass media, la memoria sugli anni Settanta, come fu per quella della Resistenza, non è unitaria e condivisa (e  solo come segnale valga in Appendice l'articolo di Mario Gamba apparso su il manifesto).  Anche i poeti dovrebbero indagarla di più quella storia.
Perché, al di là del giudizio politico negativo sul ruolo svolto allora dalle Brigate Rosse, la fine del PCI e quel che è poi avvenuto fino ad oggi (Si leggano le riflessioni storiche di  Guido Crainz ne Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia d'oggi), dovrebbero renderci  più cauti  nello stabilire con sicurezza chi ha fallito e perché; e soprattutto nel  ragionare su quale fu la vera posta politica in gioco e su quali responsabilità ebbero i partiti maggiori ,che svolsero la funzione dei Padri (e non erano affatto cresciuti "tra lo sterco dei maiali e i sanguinacci").
Molte potenze oscure (e non mi riferisco solo ai servizi segreti né mi appello  alle "teorie del complotto") ci sovrastarono e ci sovrastano. Personalmente ai versi del giovane Peli "e non c’è vergogna / nell’abbassare la voce o la canna del fucile / che hanno brandito con occhi feroci." contrappongo quelli che  Fortini scrisse nel 1977 per la morte dei tre militanti della RAF accusati in Germania di terrorismo: " Noi abbiamo fatto quello che abbiamo dovuto / wo eime fremde Sprache herrscht / secondo gli ordini di due ordini secondo due leggi" (Sthammeim in Paesaggio con serpente) [E.A.]

Era mio padre da un’altra parte
e nulla conosceva di voi
tranne per l’avervi visto entrare
da giovani
nelle balere e nelle sezioni del Pci.
Mai è stato comunista
mai si è professato per dignità
un rivoluzionario a parole:
ma sapeva in nuce di uomo contadino
cresciuto tra lo sterco dei maiali e i sanguinacci
che non eravate, compagni, con lui.

Ora vanno a morire in stillicidio di giorni
i protagonisti, chi dovrebbe portare
il fardello di silenzi in una tomba di rame.
Eppure lo sanno
di avere fallito: e non c’è vergogna
nell’abbassare la voce o la canna del fucile
che hanno brandito con occhi feroci.

Io so di odiare come loro
ma il polso è fermo
nel suo irriducibile tremare.
E non c’è da nascondere segreti
nulla è da portare in dote sottoterra:
se non la pistola che porta una sconfitta
prima ancora che il colpo tagli l’aria.

Si pianga ora: è inverno prima del caldo
non c’è primavera per chi non ebbe, compagni,
la vostra storia.  

Appendice

Mario Gamba.IL Funerale di Gallinari la generazione «più infelice e più cara»

 il manifesto 20 gennaio 2013


Hanno detto di lui che era un rivoluzionario d’altri tempi. Per via della continuità con la tradizione comunista insurrezionalista, coltivata a Reggio Emilia, la sua città (però lui abitava nel contado). Hanno detto che era stalinista e che non avrebbe esitato a far fuori un sovversivo tipo ’77, presumibilmente «creativo» e fricchettone oppure sostenitore dell’operaio sociale e del non-lavoro, se gliel’avessero chiesto. Sicuri? Qualcuno davvero gli ha fatto domande su questi argomenti, prima, durante e dopo la sua avventura con le Br? Soprattutto durante. Perché è innegabile la sua crescita politica all’ombra delle grandi narrazioni resistenziali e comuniste, ma è anche innegabile il suo ingresso nella lotta rivoluzionaria armata nel crogiuolo delle nuove lotte e delle nuove culture sessantottesche e oltre.
Prospero Gallinari deve aver contattato tanti generi di persone dopo il ’68. E quel che è certo è che senza la grande ondata di quegli anni, senza le sfaccettature, con tante impronte libertarie ben visibili, di quegli anni, non gli sarebbe venuto in mente di colpire, armi in pugno, il «cuore dello stato». Adesso è qui, in una bara avvolta in un drappo rosso con falce e martello. Tra qualche giorno sarà in un’urna di ceneri che non saranno disperse al vento come quelle del padre dell’operaio edile di Riff Raff di Ken Loach, ma tumulate nella tomba di famiglia. Nel cimitero di Coviolo, frazione di Reggio, il rito dell’ultimo saluto è sì, forse, di quelli d’altri tempi. Come quando si accompagnavano i morti di Reggio Emilia nel 1960, quelli che Fausto Amodei chiamava a «uscire dalla fossa», e i morti giovani, di anni dopo, gli anni dell’Orda d’oro, come l’hanno intitolata Nanni Balestrini e Primo Moroni, studenti del Ms come Roberto Franceschi, anarchici come Franco Serantini. Saluto a pugno chiuso. Ebbene sì. Si può persino essere imbarazzati, si può pensare che va evitata ogni retorica. Ma volevate non esserci a questo funerale di un combattente per la rivoluzione? Volevate risparmiare quelle lacrime che inevitabilmente a un certo punto vi scendono lungo le gote? Succede, per esempio, quando uno dei suoi compagni legge un ricordo collettivo: «… ti rasserenava al termine di ogni discussione… la sensazione di aver ricevuto qualcosa e la convinzione che il Gallo avesse preso qualcosa…». È un convegno brigatista questa cerimonia così fervida e così laica? Ce ne sono tanti dei compagni d’arme (e stavolta non è un modo di dire) di Gallinari, anche quelli che si trovarono in dissenso con lui. Curcio, Balzerani, Senzani, Fiore, Seghetti. Storie e destini diversi dai suoi, qualcuno più tormentato rispetto a lui che, semplicemente, nel 1988 aveva firmato un documento in cui si riconosceva finita e sconfitta la lotta armata. E dopo aveva vissuto sereno, per quel che può esserlo un uomo mitragliato alla testa e scampato a vari infarti. Ma c’è tanta gente qui al cimitero di Coviolo. Almeno un migliaio di persone. Non tutti ex brigatisti. Ci sono vecchi e giovani, amici del posto, ragazzi dei centri sociali, militanti della sinistra senza paraocchi venuti da vicino e da lontano. Solo un piccolo striscione rosso: «La rivoluzione è un fiore che non muore». Clima teso, tremendo, come in Germania in autunno, ultimo episodio di quel film a dieci firme, Fassbinder, SchlSchlöndorff, Kluge, Reitz tra gli altri, i funerali di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Irmgard Möller, i tre «suicidi» di Stammeim? Ma no. Gli agenti della Digos si tengono a distanza, gironzolano, occhieggiano. Gli amici e i compagni di Prospero si raccolgono tranquilli e commossi a commemorarlo. Ognuno a modo suo, chi in forma epigrammatica chi con piccoli comizi. Tonino Paroli: «Non chiamateci terroristi, non lo siamo mai stati». Oreste Scalzone: «Prospero sentiva l’appartenenza ma non come un Rodomonte». Sante Notarnicola: «Vorrei ricordare la generazione degli anni ’50 e ’60, la più pura, la più infelice, la più cara». Facce segnate dal tempo e da delusioni cocenti? Se si vuole, sì. Ma dove non si trovano in giro per le città? Per un amore perduto, per un flirt finito male. E la rivoluzione è un amore grande, un flirt potentissimo. Sempre a cercare, noi, che finisca meglio.

 

38 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

mah... il rapporto poesia rivoluzione è stato ed è un rapporto controverso. Così come una Bella Rivoluzione non porta una Bella Poesia, è certo che una Brutta Rivoluzione porta una Brutta Poesia. Rivoluzione e Poesia sono due cose diverse. E in questa composizione ci sono luoghi comuni e cadute di retorica, come era inevitabile parlando del passato con rancore e rabbia e nostalgia. Così, Gallinari non è da considerare un eroe come anche Peli non è da considerare un poeta che salta oltre l'asticella dei 70 centimetri. Proviamo a fare una poesia sugli 80 centimetri (possibilmente senza nostalgia, rancore e rabbia).

Anonimo ha detto...

Rabbia non sfama
necessita subito
uno sparo pulito
sugl'anni sfiniti
sulla cara gioventù
che abbiamo lasciato
finire ancor viva
Boccheggia ormai
vecchia
nella consolante
pensione di Stato
di stato che cede
e sotto il crollo
riprende Platone
la pura idea
la sola Rivoluzione.

Emy

Anonimo ha detto...

A Giorgio Linguaglossa: se ho scritto una brutta poesia, si cestina e nessuno ci piangerà. Però occorre fare alcune precisazioni. Non ho nostalgia di quegli anni, visto che non c'ero. Il rancore non lo riservo a nessuno, neanche a Prospero Gallinari. La rabbia sì, ce l'ho. Perchè da storico vedo che nel mio paese la vulgata corrente vuole inghiottire gli anni Sessanta e Settanta, che a mio modesto parere, sono stati anni di lotte e di scontri, che però hanno portato al raggiungimento di taluni diritti fondamentali in campo sociale e politico. Livellamento di pensiero causato da un silenzio non più scusabile del ceto intellettuale.

Pietro Peli

Anonimo ha detto...

Ti senti davvero in grado di decretare che sia o chi non sia un poeta? quali sono i termini e i diritti che ti danno il potere di defnire chi è poeta e chi no? La tua critica è veramente di basso livello in quanto si concentra solo ed esclusivamente sui contenuti. Critichi solo il pensiero politico e il personaggio che ricorda. Non ti concentri invece sulla capacità, sulla leggerezza, sull'arte con cui le parole sono dipinte in questa poesia. Una Brutta Rivoluzione porta ad una Brutta Poesia...allora abbi il coraggio di dire che anche il grande Dante ha scritto una brutta commedia, l'inferno non è di certo bello, per non dire la celebre frase " e col cul fece tromebetta". Il fiorentino parla di mostri, diavoli e anime dannate, ma nessuno si azzerderebbe a dire che la sua opera è brutta per gli argomenti che tratta: "un brutto argomento come l'inferno porta ad una brutta opera". Rimane infinitamente bella per la maestria la cura e la precisone con cui è stata composta. Parli di rancore, di rabbia, di nostalgia. Se uno dovesse dar retta alle tue critiche anche "L'infinito" di Giacomo Leopardi dettato dalla nostalgia di poter solo immaginare cosa c'è oltre quella siepe "che il guardo esclude", dalla rabbia di non poter avere "Silvia" e forse si! anche un pò di rancore per esser conisderato "passero solitario" dovrebbero essere brutte poesie. La poesia è un rigurgito di emozione, spesso le intenzioni con cui i poeti si accingono a scivere non coincidono con la realizzaizone dell'opera. Spero che le tue critiche non prendano piede nella corte dei poeti... se no...ahimè! la poesia è morta davvero...

Anonimo ha detto...

e.c.: "sugli anni" scusate l'errore. Emy

Unknown ha detto...

a parte il mio apprezzare la tua poetica(cosa che ti confermo con questa nuova lettura di te in linea con le precedenti), credo che il punto chiave da te descritto sia appunto quello per cui personalmente t'impegni a comporre oltre i muri di gomma di quel silenzio da te scritto. Sembra ci siano argomenti assolutamente tabù intoccabili..non andresti bene neanche se tu li toccassi con tutti i canoni e gli ingredienti possibili e impossibili di tutto l'olimpo moloch dei critici (sia filogovernativi che alternativi, nonché tutto il cucuzzaro antisistema in ogni suo rivolo). Del resto, purtroppo, ovunque ti giri in certi ambienti, seri seri, che ruotano attorno alla cucina "cultura" (sia quella pseudo,sia quella che vorrebbe farla sul serio), è così stra-pieno zeppo di persone che si prendono cosi tanto sul serio. Cosa che, perlomeno per la come penso io (non sono un poeta, né un critico, né uno storico, quindi fuori ogni ruolo, come semplice lettrice posso permettermi maggiori libertà di espressione) induce a dirti di continuare dritto e rovescio per la tua strada, con o senza mappe, bussole, canoni e punti di riferimento, visto che ciò che hai dire è molto piu importante di tutto il resto. Se poi le accademie fanno storie perché il contenitore non sarebbe adatto ai contenuti, fregatene bellamente, perché si sente che la tua ricerca è volta a denudare quanto è stato ricoperto di stracci, spacciati per tessuti d'oro democratico, al fine di continuare a perfezionare la società orwelliana in cui ormai nasciamo e moriamo da un bel po' di decenni.

un caro saluto di belle cose per tutto.

Ennio Abate ha detto...

Due sono per me i limiti di questa poesia, che non considero brutta ma poco riuscita:
1. uno politico: evocando un pezzo di storia italiana controversa e rimossa sia dal ceto che oggi domina la scena politica sia dagli intellettuali di spicco, ribadisce una tesi ufficiale (l’estraneità delle Brigate Rosse alla storia del comunismo o lo stereotipo dei “rivoluzionari a parole”) assai discutibile proprio storicamente, perché è vero che la storia delle BR non coincide con quella ufficiale del PCI, ma proprio dalla medesima radice terzinternazionalista entrambe provengono; e il terzinternazionalismo¸ finché è durata l’Urss, ha condizionato profondamente il PCI. Almeno fino alla svolta di Berlinguer, quando, per uscire da una crisi del “socialismo reale” sicuramente molto più chiara al gruppo dirigente del PCI che alla sua base, si è profilata una svolta in senso liberale e poi sempre più nettamente filo-americana, che ha portato alla sua scomparsa (con uel che ne è seguito…);
2. l’altro politico-poetico: il conflitto tra due modi diversi e contrapposti di “lottare per il comunismo” (ricordarsi che il PCI parlava ancora di comunismo negli anni Settanta…) trasferito in poesia, quindi su un piano che non coincide più strettamente con quello politico (con quello delle analisi strettamente politiche), è rappresentato da Pietro Peli come contrasto fra l’«uomo contadino» e il «rivoluzionario a parole». (Facile intravvedere lo schema pasoliniano del contrasto tra i “figli del popolo” e l’estremismo studentesco del ’68…). Esso si carica - e su questo punto, solo su questo, do ragione a Linguaglossa quando parla di «cadute di retorica», mentre non trovo né rancore né rabbia - di «nostalgia» populistica che produce (e si compiace) l’immagine “sana” e “vitale” del contadino « cresciuto tra lo sterco dei maiali e i sanguinacci» e ricorre anche ad un certo (anch’esso troppo “sano”) moralismo politico, il quale “fa la lezione” agli sconfitti («Eppure lo sanno /di aver fallito») e si pone - fastidiosamente e non correttamente per me - “dalla parte giusta” con quell’invito finale al pianto («Si pianga ora») un po’ liquidatorio.

Il terreno su cui Peli si è posto scrivendo questo testo è molto scivoloso. Qui non c’entra la Rivoluzione con la maiuscola. A me pare, come ho scritto nel cappello introduttivo - che l’”oggetto storico” non sia la rivoluzione ma una vicenda di “decadenza” di tutt’altro segno: il fallimento sia delle ipotesi rivoluzionarie che di quelle riformiste (del PCI) e l’apertura di una crisi da cui non si sa uscire. Se i rivoluzionari negli anni Settanta lo furono “a parole”, altrettanto lo furono i riformisti. Ma, data l’influenza che questi ultimi avevano, la responsabilità loro mi pare gigantesca. Questa è la tragica lezione di quella storia. Anche un giovane poeta che non ha vissuto direttamente quegli eventi può interrogarsi su di essa e dire la sua. Ma la poesia, specie se si vuole “militante” contro « la vulgata corrente [che] vuole inghiottire gli anni Sessanta e Settanta», non dovrebbe ribadire vecchie tesi (i brigatisti folli contro il sano, “contadino” PCI) che dicono solo un quarto o mezze verità.
A me pare che questa poesia offra uno spunto prezioso per discutere a fondo sul tema del rapporto tra poesia e storia. Tenendo fermo il rapporto e non scantonando né in un discorso solamente storico e neppure in un discorso puramente poetico.

Anonimo ha detto...

Muore Prospero Gallinari. Mille persone accompagnano il suo feretro. Durante la cerimonia funebre viene detto, tra l’altro, che “la rivoluzione è un fiore che non muore”. Gli organi di stampa danno rilievo alla notizia, un rilievo tutt’altro che disinteressato: basta guardare il Corriere della Sera di quei giorni col solito Ostellino che, se non ricordo male, ci piazza il suo bravo editoriale. In aggiunta ci si mette, non so se la consigliere provinciale o regionale dell’IDV che polemizza per la partecipazione di Grassi (corrente “Essere comunisti”) e di qualcun altro di Rifondazione comunista ai funerali. Insomma, una schermaglia mediatica che in me non produce particolari emozioni né grandi riflessioni. Pietro Peli, un giovane immagino, pensa di scriverci su una poesia per confrontarsi non con la Storia (Ennio?!...) ma con le scelte terroristiche di un gruppo “rivoluzionario di professione”. Lo fa con modi, in parte pasoliniani, schierandosi dalla parte del padre contadino che non li avvertiva come compagni; pensa che, sapendo d’aver fallito, i brigatisti dovrebbero star zitti e vergognarsi, ribadisce che un’eventuale scelta terroristica sarebbe anche oggi sbagliata e, se non ho capito male, al momento non vede nessuna primavera per i veri compagni (come il padre). Siccome una poesia non è un capitolo di storia, per quanto mi riguarda, giudico condivisibili i contenuti di questo testo e capisco il “motore emotivo” che lo tiene su. Ci sono, per altro, alcune immagini belle e ritmo e pronuncia sono intensi. Io, mi sarei posto altre domande: la rivoluzione è davvero un fiore che non muore? Che specie di fiore è? E’ spontaneo o di serra? Cresce dappertutto o solo in certi giardini? Oggi dove lo si può trovare?...Come metafora più che il fiore avrei scelto il seme. Se il seme non muore…
Ciao
Donato

Ennio Abate ha detto...

A Donato Salzarulo:

Di quello che scrivono i giornalisti rispondano i giornalisti.
Io voglio riportare l'attenzione sul rapporto poesia/storia (entrambe in minuscolo...) e sulla memoria non condivisa (che tra l'altro ha varie sfumature...) di questo Paesaccio.
Diciamo pure che le credenze del giovane Peli, le mie, le tue e quelle dei brigatisti o dei loro avversari
si devono misurare con la "realtà"; e, confrontandoci,
tutti - almeno in teoria - cerchiamo di approssimarla il più possibile.
Interessante è capire quanta verità si può raggiungere muovendoci sul piano della ricerca storica sugli anni Settanta e quanta se ne può aggiungere muovendosi sul piano della poesia.
E tra i due piani si dev'essere comunque una profonda relazione.
Mi chiederei come mai la reazione di Fortini di fronte ai "terroristi" tedeschi nella poesia "Sthammeim", di cui ho riportato alcuni versi, è diversa da quella di Peli.
Perché egli non sentì il bisogno di fargli ammettere
che avevano sbagliato?

Anonimo ha detto...

Il 18 ottobre 1997 nella prigione di Stammheim furono trovati i corpi senza vita di tre terroristi della RAF (Rote Armee Fraktion). Fortini scrisse la seguente poesia (datata 19 ottobre 1977) pubblicata in “Paesaggio con serpente” nel 1984. Leggiamola tutti:

STAMMHEIM

Essi hanno fatto quello che dovevano
secondo gli ordini della città non visibile.
Hanno studiato i libri antichi e i moderni.
L’acciaio dei padri recide i più piccoli nervi.
Sono stati uccisi.
Nessuno fu più obbediente di loro.

Essi hanno fatto quello che dovevano
secondo gli ordini della città visibile.
Hanno studiato i libri antichi e i moderni.
La chimica dei padri bagnava la chioma dei nervi.
Si sono uccisi.
Nessuno fu più obbediente di loro.

Noi abbiamo fatto quello che abbiamo dovuto
wo eine fremde Sprache herrscht
secondo gli ordini di due ordini secondo due leggi.

Perché Ennio, magari in una prossima occasione, non prova a commentare questa poesia e a farci capire quanta verità Fortini raggiunge sul piano poetico e come interagisca con la verità storica?...
Perché la reazione di Fortini è diversa da quella di Peli?...Semplice: perché la pensano diversamente. Ma poi: perché dovrebbero avere le stesse reazioni?
Donato

Ennio Abate ha detto...

A Donato:

Certo che mi proverò a commentare "Stammheim".
Ma sarebbe un ottimo esercizio che ciascuno interessato a questa discussione faccia lo stesso. In modo da confrontare le varie ricezioni.
Magari ne faremo un post autonomo per non appesantire la discussione in questo.


roberto b ha detto...

Mah, la poesia di Fortini a me pare piuttosto oscura. Una poesia fredda, tutta di testa, teoretica al massimo, con lessemi e sintagmi volutamente criptici nel parallelismo svolto dalle due sestine speculari ma del tutto contrapposte, in contraddizione semantica (e politica) fra loro, con la terzine in chiusa che funge da superamento dialettico, riconducendo a un "noi" (che non so quanto sia diverso dal pluralis maiestatis dell'io fortiniano)e a un altrove geografico rassicurante, perché tutto sommato politicamente giusto.
I lessemi e i sintagmi a me oscuri sono: "città non visibile" (Campanella? la città dalle leggi perfette, cioè l'ideale marxista in salsa rinascimentale?);
"padri", e il loro acciaio (prima quartina) che si dicotomizza nella loro "chimica" (secondo quale processo, e perché?): Solo chiari mi sono i versi "Si sono uccisi" VS "Sono stati uccisi", perché se ricordo bene, la versione ufficiale voleva che i tre della RAF si fossero uccisi, mentre voci del movimento dicevano che fossero stati uccisi in carcere.
E altrettanto chiaro mi è il verso finale, che riflette il modus vivendi (esistenziale) e il modus operandi (politico) di Fortini, come del resto di tutti coloro che in quegli anni continuavano a lottare per il comunismo, ma dall'interno della società borghese, appartenendovi, e accettando i suoi rituali. Fortini aveva una particolare osservanza per i ruoli, e per un certo ordine di vita saggia che non lo faceva esporre (infantilmente, per così dire)a tentazioni spurie. Ecco, a mio avviso, l'obbedienza o la conformità a due ordini (comunista e borghese), a due leggi.

Anonimo ha detto...

Sento il dovere di reintervenire per mettere a punto alcune considerazioni sortite dalla lettura e dall'inquadramento della mia poesia. Vi sono state cose che non sono state capite e la colpa sta nella penna e non nell'inchiostro, come ho specificato in privato a Ennio Abate: non voglio fare il maestrino di me stesso (compito penoso) ma piuttosto ritengo che se una poesia da me scritta non è chiara o non è capace di veicolare un messaggio immune da gravi fraintendimenti, non perseguendo una linea poetica di tipo ermetico, non è una poesia riuscita.
Cercherò di suddividere l'intervento in alcuni tronconi, il primo dei quali concerne i fraintendimenti. Quando nella seconda strofa parlo di fallimento questo non implica un giudizio manicheo dell'essere "dalla parte sbagliata della barricata". Le parole di altri brigatisti parlano di esperienza fallita (non sto parlando di pentiti): ho inteso il fallimento come aporìa, come mancanza di possibilità a realizzarsi. Il fatto più evidente è che quella esperienza sia finita per motivi non meramente "militari" (finiti i militanti e finite le Br), ma per un più radicale e generale cambiamento della società in senso di rapporti di classe, di coscienza, di egemonia (concetto che non definirei populista, Ennio).

Da questo punto di vista anche il Pci ha fallito: e ne vediamo oggie le ultime assi marcie della nave galleggiare. E nel dire questo affermo, tornando al testo, che non c'è vergogna nel dire che si è fallito: è stata fatta una scelta da parte di alcuni appunto fallimentare, un tentativo di cui comprendo pienamente le premesse strategiche (l'oppressione della classe padronale, la spinta per la rivoluzione) ma di cui ravviso nel lungo periodo il totale scollamento da una analisi globale e "di massa" (anche nel periodo di massima potenza di fuoco le Br hanno avuto, si stima, un bacino totale di fiancheggiatoti, simpatizzanti e aderenti calcolabile in regolari, irregolari di alcune decine di migliaia di membri di cui solo circa 1200 (cifra che da Renato Curcio in uno dei suoi lavori di ricostruzione) militanti regolari e irregolari (clandestini e semiclandestini) poi finiti a processo. Questo senza considerare che nel 1980 erano 269 le sigle che propugnavano un discorso di lotta armata.

[continua]

Anonimo ha detto...

Nella successiva strofa confesso io stesso di comprendere da cosa la rabbia che ha consentito il salto alla lotta armata sia scaturita: una rabbia allo stesso tempo antica (la rivoluzione è stata tradita nel 1945) e moderna (dopo Piazza Fontana). E contemporaneamente cerco di non farmene divorare: non c’è un possibile mondo che potrebbe capirmi, fuori di me, oltre la mia insulsa monade. Con l’asserzione successiva, segnalavo che non ho personalmente alcun interesse a sapere se Prospero Gallinari si porta nella tomba dei segreti. E’ un tipo di polemica che anche qualora fosse di rilievo capitale nella ricostruzione di un periodo non riesce a distogliere la mia attenzione da un fatto molto più semplice. Che i rivolgimenti storici contro cui si sono messi i brigatisti sono stati come le transenne all’arrivare della piena. E che il loro ruolo è stato non di tramini o tramoni ma di tamiti inconsapevoli di macchine e situazioni decisamente inafferrabili (per i comuni mortali) eppure di una semplicità sconfortante. Destabilizzare per stabilizzare. (Si legga l’illuminante saggio intervista a Steve Pieczenik di Emmanuel Amara Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra, edito da Cooper nel 2008).


In ultima analisi questo è il risultato di tutta l’operazione: tentare di chiudere la possibilità di un compromesso storico da un lato e dall’altro restringere gli spazi politici di manovra di chi a quell’accordo si opponeva senz’armi. Da lì, l’asfaltamento di tutto un decennio, fino al continuo ritorno in avanti dell’ideologia liberista e al suo riconquistarsi posizioni di egemonia culturale in seno alla società italiana e occidentale.

L’ultima strofa è un “piangere” collettivo, che non esclude chi scelse le armi allora. E la primavera che certo non fu per loro, meno che mai è per noi.

Spero di avere chiarito o quantomento sviscerato qualche problema, fatto salvo il fatto che se si scrive criticamente la colpa è per i nove decimi di chi scrive e per modestia dovrebbe fare ammenda di non essere stato chiaro. Grazie.

Pietro Peli

Anonimo ha detto...

In ultimo, non conoscevo la poesia di Fortini su Stammheim: onestamente non so cosa pensarne. Sono d'accordo col fatto che certamente è un prodotto più distillato e meditato del mio, che ho scritto in modo più brusco e più "cardiaco".

Pietro Peli

roberto b ha detto...

@ Pietro Peli,
mi pare manchi nel dibattito fin qui suscitato dalla sua poesia, e in parte anche nei suoi interventi (da storico come lei si dice, mi pare di estrema importanza sapere se Gallinari si sia portato nella tomba dei segreti), riferimenti all'altro aspetto, quello in ombra, riguardante quel movimento armato, vale a dire che le BR vengono sussunte come un monolite ideologico e politico, mentre invece, come credo sappia, ci sono state molte analisi (dunque assai più di un sospetto, direi una certezza) che hanno puntatao il dito sull'operato da parte di servizi segreti, nostrani ed esteri, di infiltrazione, di collusione, di eterodirezione di quel movimento (certo, di taluni esponenti), che a tutt'oggi ha ancora molti aspetti della sua dinamica non chiariti. Può immaginare come, in quel lato oscuro della politica di allora, ossia quello di Piazza Fontana ecc., le BR fossero una preda molto ghiotta, per giocare sporco. C'erano i due blocchi politico-sociali contrapposti, con tutto quel che segue, e l'Italia per la sua posizione geografica è sempre stata una terra strategica.
Quanto al fallimento del Pci, lei dice che "non c'è vergogna nel dire che si è fallito"; non capisco a chi si riferisca l'impersonale "si", comunque, tacere è proprio ciò che il Pci ha fatto: dopo l'89 non c'è stata nessuna autocritica o quanto meno analisi oggettiva di quel fallimento, c'è stata semmai una corsa al riposizionamento verso destra dei suoi dirigenti, e un sususeguirsi di dichiarazioni dei dirigenti del Pci (diventato Pds) di allora in cui facevano a gara a sostenere che loro comunisti mai lo erano stati. E, ipocrisia a parte, avevano in un certo senso ragione, perché, se andiamo al di là della fenomenologia politica, che il Pci avesse abbandonato (alcuni dicono tradito) i suoi ideali, non si deve a partire dall'implosione dell'Urss, ma è una lunga storia, c'è chi la fa risalire, ad esempio, al viaggio (emblematico) di un certo suo dirigente migliorista negli Stati Uniti nel 1978, dunque in tempi, per così dire, non sospetti.

Anonimo ha detto...

Nessuna fatica a dire che ci furono abbocchi da parte dei servizi segreti verso le BR (la famosa vicenda del sequestro Mincuzzi con la stella a 6 punte che racconta Franceschini è forse la più folcloristica...). E sono più che convinto che in singoli episodi, tipo il sequestro di Moro in cui Gallinari fu protagonista, si vedono in sottofondo le trame eterodirette. Ma il libro-intervista che ho richiamato credo possa costituire una chiave di volta: al di là delle responsabilità personali o della eterodirezioni interne, ciò che più importa è che il potere è stato in grado di comprenderne le strategie, di adeguarvisi, di fare ricatto sulle loro coscienze (che credo salde e sincere se non del tutto almeno per quel che basta a non renderli dei miserevoli burattini), di fare infilare quella esperienza in una strettoia che ha portato a una svolta esiziale per le Brigate Rosse e per molte altre cose.

Pietro Peli

Anonimo ha detto...

Il potere economico ha invaso,permeato tutto, ha pagato tutti , anche gli spari. Il PC ha dato da mangiare ai poveri, ma poi il solo cibo non è bastato, le regole, le carte sul tavolo hanno cambiato il gioco. I nuovi poveri sono tornati senza nulla nel piatto e sono tanti. I Paesi dell'est Europa ora sfruttati dagli gli interessi degli imprenditori , tutto dentro il sacco anche il PC. Forse si tornerà a sparare? Contro chi , contro Cosa? Nella tarda sera del comunismo qualcuno riuscirà a farmi sapere se i sogni di chi vuole uguaglianza diventeranno realtà? Il passato ha provato a resistere ma oggi forse bisogna insistere. Emy

Ennio Abate ha detto...

A Roberto Bertoldo:
 
Una poesia fredda, di testa, teoretica al massimo mi pare la più capace di affrontare la storia-Medusa, specie quella del Novecento.  Per sfuggire o almeno fronteggiare quell’immedesimazione con i moti vitalistici che portarono un Marinetti, ad es., all’apologia della guerra sola igiene dei popoli.
Sulla presenza delle oscurità che segnali concordo. Mi ci dibatto io pure. Con meno riserve rispetto alle tue. Il che mi permette di  precisare o correggere in modo spiccio questi punti della tua lettura:
 
1. il “noi” fortiniano non ha il carattere banale di un generico pluralis maiestatis. Equivale a ‘noi compagni’, a ‘noi che lottiamo per il comunismo’ (nel senso che Fortini, sbeffeggiato, precisò in un articolo su un supplemento de «L’unità», che gli chiedeva di spiegare il termine in quaranta righe e che si legge ora a pag. 98 di *Extrema ratio*, Garzanti 1990).
 
2. «secondo gli ordini della città non visibile». La “città non visibile” penso indichi “la città di Dio” di sant’Agostino contrapposta alla città terrena e non l’«ideale marxista in salsa rinascimentale», che è una tua formulazione “antipatizzante” e teoricamente scorretta (non essendo il marxismo riducibile o del tutto riducibile a un ideale; ma qui ci sarebbe da discutere troppo scolasticamente e chiudo). Fortini la richiama con altre parole, ricordo, anche in un sonetto *Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto” (a pag. 39 dello stesso «Paesaggio con serpente» in cui appare *Stammheim*): *Quanto sei bella, giglio di Saron, [riferimento al Cantico dei cantici],/Gerusalemme che ci avrai raccolto. Quanto lucente la tua inesistenza*. (E qui si dovrebbe aprire  il discorso sull’hegelismo di Fortini…).
 
3.«L’acciaio dei padri recide i più piccoli nervi». «La chimica dei padri bagnava la chioma dei nervi». Non so spiegarli in modo piano. Si coglie però chiara la contrapposizione tra ‘Essi’ («Essi hanno fatto quello che dovevano», ripetuto anche all’inizio della seconda sestina) e i due sostantivi che caratterizzano l’immagine dei padri (L’acciaio, La chimica). Questa dei padri mi pare una figura dell'implacabilità, moto veterotestamentaria ma collegabile storicamente al capitalismo industriale contrapposto alla inermità dei corpi ribelli («piccoli nervi», «chiome dei nervi») che hanno osato sfidarlo.
 
4. La terzina finale risulta ancora più chiara se leggiamo la nota lasciata da Fortini stesso: «Il verso in tedesco - che vale «dove una lingua straniera domina», - ne modifica uno di Brecht, quale si legge nell’ultima scena di *Die heilige Johanna der Schlachthöfe [Santa Giovanna dei macelli]: «solo violenza aiuta dove violenza domina» (Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrcht)» (Paesaggio con serpente, pag. 110»). (E qui si dovrebbe aprire un altro discorso sulla critica di Fortini al ribellismo anarchico e all'espressionismo estetico del giovane Brecht; e, direi, indirettamente, anche ai militanti della RAF).

[Continua]

Ennio Abate ha detto...

(continua):


5. Distorta e riecheggiante luoghi comuni “antipoliticisti” è l’interpretazione che dai del «modus vivendi (esistenziale) e [del] modus operandi (politico) di Fortini, come del resto di tutti coloro che in quegli anni continuavano a lottare per il comunismo, ma dall'interno della società borghese, appartenendovi, e accettando i suoi rituali». In fondo, messa così, pare che per te Fortini e gli altri “lottatori per il comunismo” facessero - detto brutalmente – una sorta di doppio gioco (molto simile alla “doppia via” di cui fu rimporverato il togliattismo): «continuavano a lottare per il comunismo, ma dall'interno della società borghese, appartenendovi, e accettando i suoi rituali». In questa formulazione non si capisce bene se poi a prevalere sia la lotta per il comunismo o l’accettazione dei rituali della società borghese. Inoltre si sottintende che, invece, si possa lottare “dall’esterno” della società borghese. E si possa, cioè, sfuggire (per quale via non si capisce…) alla contraddizione tra città di Dio e città terrena ( alias: tra comunismo e vita borghese), in cui si muoveva Fortini e in cui Fortini vede dibattersi – e qui c'è, per me, lo scarto della visione poetico-politica di Fortini rispetto alla vulgata che riduce il lottarmatismo degli anni Settanta a una caricatura della Rivoluzione o a una pura follia - anche ai militanti della RAF. In poesia Fortini concede, mi pare di poter dire, eguale dignità all'obbedienza dei “terroristi” agli «ordini» delle due città.
Sfugge a questa tua ottica il fatto che l’obbedienza è, nella visione dialettica di Fortini, irrimediabilmente doppia e che la conformità ai due ordini è per forza di cose contraddittoria. E che, dunque, solo «il combattimento per il comunismo è già il comunismo», affermazione che si trova nell'articolo su citato. Il che viene a dire che esso non è mai solo un ideale (kantiano), che uno si può “coccolare” dentro ( nel “foro interiore” espressione che mi fa sempre sorridere) con grande convinzione, mentre accetta (con altrettanta convinzione) i rituali della società borghese.
Il che viene anche a dire che il comunismo è misurabile dalle lotte che si svolgono, quando e se si si svolgono;e quando, soprattutto, sono identificabili come lotte «per il comunismo» e non generiche lotte sindacali o di resistenza (pur legittimie e degne di paluso e appoggio). Quando di queste lotte non se ne vedono in giro (e bisognerebbe chiedersi, con occhio storico: da quanto tempo?), parlare di comunismo se non è cosa da oziosi è cosa da nostalgici o al massimo da storici. E comunque se se ne parla soltanto, vuol dire che ci sono ostacoli reali che impediscono «il combattimento».

[continua]

Ennio Abate ha detto...

(continua):

P.s.
Nella tua risposta a Peli condivido invece pienamente il tuo cenno polemico all'involuzione “democraticista”, non spiegata, dei tanti ex-PCI. Si tenga conto che, mentre I lottarmatisti falliti sono di fatto fuori gioco politicamente, i “riformisti” falliti continuano impeterriti e applauditi e votati la loro altrettanto (e più grave secondo me) politica del Nulla (del molto fumo e nessun arrosto). La storia italiana dovrebbe essere davvero riscritta dalla A alla Zeta. Spunti interessanti in tal senso, anche se a volte esacerbati, si ritrovano proprio negli scritti di Gianfranco La Grassa, uno di quelli che fanno risalire la “svolta” filoamericana del PCI « ad esempio, al viaggio (emblematico) di un certo suo dirigente migliorista negli Stati Uniti nel 1978, dunque in tempi, per così dire, non sospetti». Gli anni Settanta sono stati gli anni decisivi di una sconfitta epocale e per la cancellazione di tutta una memoria storica diffusa della Grande Causa. E sono un pozzo nero tuttora poco esplorato, da cui si traggono fuori solo I pezzi che fanno comodo ai “vincitori”. Ho tentato di rifletterci proprio sugli spunti offerti da La Grassa, che da quel PCI proveniva. Vedi«http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13


[Fine]

Roberto Bertoldo ha detto...

Scusa Ennio, Roberto b. non sono io.

Mayoor ha detto...

A distanza di tempo dagli anni'70, mi sono chiesto spesso che razza di società ne sarebbe derivata se, per ipotesi, le avanguardie della lotta armata avessero trionfato scatenando un processo di più ampie dimensioni. E mi sono chiesto se si possa costruire una società migliore senza fare i conti con l'odio che l'avrebbe generata. Ho pensato quindi a Majakovskij e allo spessore umano, alla profondità coinvolgente delle sue poesie dove lottare fa rima con amare, e l'amare con il ragionare che porta solidarietà e costruzione di un'alternativa che abbia altre fondamenta. Se è l'odio la sola cosa che si salva dal quel fallimento, acquisterà le valenze disperanti (anche se non ancora auto-distruttive) che leggo in questa poesia di Pietro Peli.
L'elaborazione di una sconfitta richiede uno sforzo di intelligenza superiore, lo sanno bene coloro che ne erano coinvolti negli anni '70, almeno quelli che non hanno ceduto allo smarrimento. E ce ne sono.
Mettendo la questione in arte, va detto che il clima rivoluzionario di quegli anni arrivò a produrre una propria estetica, basata sul bianco e nero del quotidiano e spesso sui paradossi della ragione, che divenne presto l'anticamera dell'arte concettuale. Dice bene Ennio Abate: "Una poesia fredda, di testa, teoretica al massimo mi pare la più capace di affrontare la storia-Medusa". Ma allora che si stia nella ragione, non la si usi a pretesto per dare risposte sociali a qualsiasi istanza esistenziale, pena l'appiattimento dei contenuti e il rifacimento degli stessi errori.

Ennio Abate ha detto...

Mi scuso anch'io....Allora, per non riscrivere il tutto, si intenda quanto da me detto rivolto a *roberto b*...

Ennio Abate ha detto...

Davvero strana questa sorta di autocensura in una discussione come questa sul rapporto poesia/storia.

Anonimo ha detto...

Non si tratta di autocensura, Ennio, quanto piuttosto, credo, di una difficoltà di capire, ancora oggi esprimibile soltanto con termini opposti tra loro, come rabbia e impotenza, o speranza di cambiamento e disillusione.

Apprezzo la poesia di Pietro Peli per la lealtà con la quale riesce a dire:
Io so di odiare come loro
ma il polso è fermo
nel suo irriducibile tremare.

Una mia poesia dell'epoca, scritta all’indomani della strage dell’ Italicus (avevo 15 anni) può rendere forse, seppur minimamente, la misura di cosa ha provato e pensato la generazione più giovane alla notizia di quegli eventi.
Perché quegli anni hanno rappresentato uno spartiacque doloroso sotto tanti aspetti, non escluso il 'personale', come si diceva allora, anche per chi, come me, apprendeva semplicemente le notizie dai giornali e dalla tele.

La nuova malattia

Stai attento amico, c’è in giro una nuova malattia.
No, non sono virus e per sfuggirla
c’è da fare solo una cosa molto “semplice”:
devi fare ciò che vogliono “loro”.
La puoi trovare ovunque
e ti assicuro che sono solo pochi minuti, se va bene,
anzi se devi prendere una decisione fallo
prima perché non ne avrai più il tempo.
Hai già capito cos’è: tritolo.
È il “loro” migliore amico:
fa solo un gran boato poi tace e tutto è sistemato.
Puoi trovarti coinvolto da un momento all’altro
e senza accorgertene il tuo corpo diventa
carne da macello senza marchio.

Ma non aver paura, non devi mollare:
sono delle bestie, tu sei uomo:
non puoi paragonarti a loro.
(agosto 1974)

Al di là delle differenze evidenti tra le due poesie (tra l’altro, gli esecutori della strage dell’Italicus erano neofascisti), c’è almeno un punto in comune con la poesia di Peli, e questo punto è la fiducia nell’uomo.
Mentre però nella poesia del ’74, l’appello all’uomo, inteso nella totalità della sua sfera, è dettato dall’angoscia di un richiamo disperato, in Piero Peli quella visione ‘di testa’ com’è stato scritto, gli consente di avere uno sguardo analitico degli eventi.
In Peli la coscienza diviene un fatto quasi privato, quella del singolo, con in più l’anacronismo (rispetto al sentire di allora) del figlio che sa comprendere le ragioni della severa neutralità del vecchio padre.

Probabilmente la formula che ha caratterizzato il passaggio dagli anni ’70 ad oggi, marcandone la differenza e il loro definitivo allontanamento dopo la morte di Moro (non dimentichiamoci di Peppino Impastato, ammazzato peggio di una bestia lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Moro), sta a mio avviso in questo essere rientrati tutti in un privato quasi rasserenante, un guscio dal quale cerchiamo protezione, ma che non ci rassomiglia e respingiamo perché in esso ci sentiamo stretti.
Giuseppina Di Leo

Ennio Abate ha detto...

Cara Giuseppina,
ti ringrazio per il tuo commento che m’incoraggia a riprendere l’arduo tema. La poesia di Pietro Peli è coraggiosa. Perché il tema degli anni Settanta è un tabù nella cultura italiana e risollevarlo mette a rischio  gli assestamenti politici “democratici”, in cui i più si sono accomodati e anche i pochi riottosi (tra cui mi metto) devono comunque subire. La sua baldanza giovanile contrasta con il mio “risentimento” di vecchio. (Ne ho parlato nella mia «La polis che non c’è» che uscirà verso marzo e che ti invierò). E forse anche con la tua tendenza a vedere quello «spartiacque doloroso» in termini  “vittoriniani” (da uomini e no). Temo, invece, che le cose siano state molto più complicate. E che ciascuno debba  fare la tara o relativizzare sia la vulgata ufficiale (quella impostasi e imposta dai mass media che non esito a dire governativi) sia il suo “immaginario di partenza” che gli fa leggere gli anni Settanta da un’angolazione particolare e per me pare insufficiente. Provo, comunque, a  riassumere la mia  rielaborazione. Io vengo dalla “nuova sinistra” (sono stato in Avanguardia Operaia dal 1968 al 1976). Non ho mai condiviso la rappresentazione che AO in pratica mutuò dal PCI dei brigatisti (o degli attivi nelle altre formazioni lottarmatiste) come  “fascisti”.  Ho condiviso la posizione di Fortini e di altri, che possiamo definire schematicamente da “terza via”: anticapitalismo + antistalinismo.  Questa posizione riteneva che l’etichetta ‘terrorismo’ fosse di comodo (da “guerra psicologica”); e chiedeva al PCI di fare seriamente i conti con la sua tradizione, che era un conglomerato male incollato di tendenze gramsciano-terzinternazionaliste, togliattiano-staliniste (la via italiana al socialismo) e staliniste-staliniste (Secchia, poi Cossutta, etc.). Ci fu la speranza/illusione di tutti i gruppi “rivoluzionari” extraparlamentari esterni al PCI di poter condizionare o influire sulla sua evoluzione. Che, nel biennio 1968-1969, era però, al di là del frasario ancora comunista, da tempo avviata a una scelta che in ogni modo escludeva tutte le confuse ipotesi “rivoluzionarie” affacciatesi con un vigore che pareva confermato anche dagli echi miticamente vissuti di eventi internazionali ( Pantere nere negli USA, Vietnam, rivoluzione culturale cinese).  Questa speranza/illusione cadde definitivamente con la formulazione del «compromesso storico» di Berlinguer. L’ipotesi “terza via” cadde. La “nuova sinistra” finì fuori dal gioco politico.  Le sue organizzazioni principali (Pdup-manifesto, AO, Lotta Continua) si sfaldarono. Sorse in molti loro militanti (me compreso)  una sorta di dubbio amletico e lacerante tra cose condivise in teoria ( i discorsi assorbiti dallo studio di Marx, Lenin, Mao…) e cose che nella pratica non tornavano ( le lotte quotidiane nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole erano sempre più sfasate rispetto alle premesse teoriche e ci si accorgeva sempre più che chiamarle “rivoluzionarie” era una finzione). Il tutto si sciolse piuttosto indecorosamente nel “riflusso privato” o, per reazione tutta da valutare, nell’adesione di minoranze - composte dai più coraggiosi o disperati e più prossimi, comunque, a una visione della politica come primato della “militarizzazione” - alle BR o ad altre formazione “lottarmatiste”. Poi le cose sono andate come sappiamo: verso la tragedia. Resta oggi ai superstiti e ai nuovi arrivati dopo di essa il compito d’interpretarla. Per conto mio,  ho sempre diffidato dell’interpretazione del PCI di allora e poi dei partiti “democratici” in cui i suoi dirigenti e militanti si sono trasformati.

[continua]

Ennio Abate ha detto...

(continua)

Rinnegando, e senza una spiegazione soddisfacente, la loro tradizione comunista. La posizione di Fortini (espressa soprattutto in vari scritti di «Insistenze» a cui rimando) mi ha sempre convinto di più. Sul piano soprattutto etico, devo aggiungere oggi. Fortini l’ho sentito più vicino alle istanze del movimento che era apparso in quel ’68-’69. Vicino in modo critico. Era allora pure lui un “padre”, alla pari di Pasolini, che aveva, proprio come Fortini, come suo interlocutore indispensabile il PCI e vedeva, ma con comprensione, i limiti del “movimentismo”. Egli ha accompagnato, in una sorta di canto del cigno, il venir meno della Grande Causa. Ma più recentemente e su un piano più strettamente politico-scientifico il mio ripensamento degli anni Settanta è stato ampliato dalle letture degli scritti di Gianfranco La Grassa. Egli proviene proprio dalla tradizione marxista-leninista-stalinista del PCI. E può apparire paradossale che io lo prenda in considerazione. Eppure la sua impostazione sicuramente “antimovimentista” (simile in questo a Pasolini, di cui condivide la polemica contro gli studenti), per certi aspetti molto sgradevole per uno come me che in quel movimentismo s’è costruito politicamente, illumina con una luce più inquietante ma veritiera le vicende politiche degli anni Settanta (su cui ho scritto delle note e ripeto il link: http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13 ), mettendo a fuoco i grandi giochi di potere internazionali nel passaggio dalla Guerra Fredda alla decomposizione dell’Urss che di solito dai nostri discorsi sono del tutto assennti. Ed in questi, invece, che egli iscrive la vicenda delle BR:
Il 15 febbraio Napolitano sarà ricevuto da Obama nella stanza ovale della Casa Bianca, stanza molto “riservata”, cioè utile a colloqui con ampi margini di segretezza. Successivamente, si recherà in Germania a rendere visita alla Merkel e infine riceverà la Regina d’Inghilterra (a mio avviso, è l’incontro meno significativo). Volendo, si possono tenere tutti i colloqui segreti che si vogliono in qualsiasi luogo, come sono sicuro avrà fatto lo stesso Napolitano nel suo primo viaggio negli Usa nel 1978, che si sostenne culturale mentre era il passo finale della prima fase di cambio di campo del Pci, iniziata con moltissima cautela nel 1969 quando divenne vicesegretario Berlinguer, l’eurocomunista, cioè il non più ormai comunista. Ed è da lì che inizia anche la stagione dei cosiddetti “anni di piombo” in Italia con il presunto “terrorismo”, che fu tutto fuorché questo poiché s’inseriva nelle complesse manovre, provenienti pure da est, dove ormai si era capito il gioco degli ex comunisti italiani; e lo si era capito perfino dal loro atteggiamento durante il regime dei colonnelli greci, quando il Pci tenne rapporti con il cosiddetto PC greco dell’interno (circuito pure da alcuni ambienti statunitensi pronti all’eventuale sostituzione del regime militare con uno “democratico”, ma filo-occidentale e filo-Nato) e fu nei fatti “scostante” verso quello dell’esterno, maggioritario, di “fedeltà” filosovietica.
(http://www.conflittiestrategie.it/bricolage-terza-puntata-di-glg)

(continua)

Ennio Abate ha detto...

(continua):

La storia di quegli anni va ripensata a fondo. Anche i poeti devono farlo. E do merito a Peli di avere presente questo tema nella sua ricerca.  Ma io ritengo che una buona poesia debba prendere le mosse da una buona analisi della storia. Debba cioè liberarsi, per quanto possibile, da illusioni, da approssimazioni, da veri e propri ricatti del “seonso comune” che I Gestori del Presente ormai impostosi e solidicatosi gettano sul Passato.
Confesso che questo Presente dominato dai “democratici” non riesco ad accettarlo. Mi pare falsato. Soprattutto perché la metamorfosi da comunisti a democratici di tanti non è stata spiegata. Essersi fatta cancellare dagli altri o aver volontariamente cancellato *in proprio* la problematica comunista (sottolineo: *problematica*) senza sufficienti spiegazioni mi pare  un’autodafè inaccettabile. Si doveva uscire dal “sogno comunista”? L’esperienza del “socialismo reale” era esaurita? Ma perché non  difendere quelle che erano le residue ragioni profonde di quella tradizione e non attestarsi su di esse? Perché *dar ragione* ( e coi fatti, manco con le spiegazioni indispensabili) a quelli che fino agli anni Settanta erano considerati i *nemici di classe*? Anche se le *nostre ragioni* fossero venute del tutto meno ( ma è così?), perché non cercarne di *nuove* ma sul terreno delle esperienze anticapitalistiche realmente compiute? Insomma, per me c’è una evidente differenza tra riconoscere una sconfitta anche epocale, l'ammissione di “deboezza” e il dare invece ragione (tranne qualche virgola) al Nemico che fino ad allora si era denunciato ( e di cui non si sanno neppure analizzare le mire). Nel cercare allora, quando riemerge un frammento della storia degli anni Settanta, le responsabilità (dei singoli, dei raggruppamenti politici, ecc.) bisogna pesare con maggiore oculatezza e documentazione il peso che hanno avuto le scelte dei partiti maggiori e quelle delle minoranze dissidenti. Nella distruzione delle nostre posizioni/illusioni attorno al ’68-’69 - è la domanda che ho fatto in alcune discussioni pubbliche - hanno pesato più la scelta del «compromesso storico» o la scelta delle BR di rapire Moro? Lascio aperta la questione per chi, anche poeta, vuole pensare. Se poi la conclusione di quello scontro in tragedia con il rapimento di Moro (voluto da chi? agevolato da chi?) e la successiva sconfitta delle BR ci ha consegnato - dono vero o avvelenato? - una “pace” di cui ci siamo consolati nel nostro “privato democratico” o addirittura si ha da ammettere che quella era (senza ulteriori precisazioni!) la “pace” a cui aspiravamo, per cui le precedenti militanze di migliaia di giovani per tutti gli anni Settanta fu solo un’infatuazione, il discorso mi pare si complichi. Detto in breve: voleva dire che eravamo  in partenza, al di là delle posticce coloriture ideologiche, profondamente democristiani (“democratici”?) e, a dispetto del povero Luigi Pintor, era giusto che morissimo democristiani (“democratici”?). 
Per cui non avrebbe senso rimandare  gli intellettuali a  una rilettura di «Prima che il gallo canti» di Cesare Pavese. I vinti o gli ultimi mohicani resteranno tali definitivamente. I guardiani istituzionali della memoria storica interverranno per disinfestare qualche erbaccia che ancora attecchisse sui loro monumenti e rievocasse l’ombra funesta di Noske…

[Fine]

Mayoor ha detto...

L'oggi è il farsi della storia, la prova della sua stessa esistenza. Guardare ai ruderi del '68, è per me (come) fermarsi a rimirar le stelle. Oggi c'è una generazione di trentenni di cui nessuno sembra tener conto, conoscerli è guardare in faccia quel che di buono è rimasto e quel che se n'è andato. Non ha senso giudicare la deriva del personale con gli occhi e la testa che avevamo nel 1977. In questo modo si mancherà il bersaglio perché tutte le analisi guardano troppo in alto, allora come oggi. Con questo non voglio dire che non siano esatte o attendibili, dico che sono carenti nel metodo perché le dinamiche sociali sorvolano e portano gli individui fuori di se'. Troppo oltre. Esattamente come fanno, seppur in altro senso, i mercati capitalistici che schiacciano i diritti di ciascuno. Consiglio un romanzo appena uscito, "Sofia si veste sempre di nero" di Paolo Cognetti, uno scrittore appunto 34enne. Ne trascrivo un passaggio che ritengo significativo: "... Sarebbe stata una donna della nostra generazione: realista, per nulla sognatrice, determinata a credere nelle persone più che nelle idee".

Ennio Abate ha detto...

Caro Lucio,
nel post di Peli è emerso il problema di come giovani e vecchi guardano gli anni Settanta. E' un problema di interpretazione storica. E' come se si dovesse rispondere alla domanda: da dove veniamo?
Non puoi dirmi che i tentativi di rispondere "guardano troppo in alto". A volte per dare una qualche spiegazione del presente bisogna proprio guardare molto in alto e anche molto indietro. Che poi le dinamiche sociali odierne, sviluppatesi proprio per scelte decisive che allora furono prese ( io dico il "compromesso storico" innanzitutto), abbiano prodotto una società spoliticizzata e appiattita sul presente e i discorsi storici non raccolgano né simpatia né attenzione è un dato di cui tener conto. Ma se la gente non vede certe realtà, non vuol dire che esse non ci sono.
Quanto alla frase che citi di Cognetti mi pare un esempio di questo appiattimento. Anche i giovani continuano a sognare e seguono, a volte senza accorgersene, le ideologie (più che le idee) che oggi , proprio grazie a quella sconfitta degli anni Settanta, sono dominanti.

Unknown ha detto...

Direi a questo punto che le mie parole sul tabù , rivolte nel mio intervento a Peli, sono più ragionevoli che mai. Mi dissocio completamente quindi dalla visione ristretta di Mayoor ma anche da Giuseppina Di Leo ed altri. Non voler sapere perché siamo qui , così come siamo o non siamo più, è grave, tanto come lo è farsi prendere da un discorso filogovernativo ma anche pseudo alternativo, sui "giovani"...che, peraltro, è tutto tranne che dalla parte dei giovani.

Anonimo ha detto...

Tutto vorrei fuorché creare associazioni, rò, non l'ho mai fatto, né rientra nel mio stile. Si può tranquillamente essere o non essere d'accordo sul 'riflusso' del privato come sulla capacità di saper andare oltre teorizzata da Mayoor, che trovo giusta, come si può contestare o apprezzare il ben più articolato commento di Ennio, che esamina il percorso politico, suo e di tanti altri.
Siamo tutti irragionevoli? Personalmente trovo spunti di riflessione su ciascuno, nessuno escluso.
A Ennio vorrei solo ricordare che tra i gruppi che hanno fatto la storia di quegli anni c'erano anche gli anarchici.
Giuseppina Di Leo

Mayoor ha detto...

... e quelli movimentisti di Lotta Continua, che furono tra i primi a volgersi nella direzione del personale. Pare che a quelle vecchie etichette ci siamo affezionati, sarà che ci abbiamo speso tempo e passione. Comunque quando tutto finì io mi sentii sì smarrito, ma anche sollevato. E credo sia stato così anche per Ennio (ma lui era teorico marxista fin d'allora, non un ex hippie come me), e lo prova il suo bel libro"Donne seni petrosi".

Ennio Abate ha detto...

Oh, sì. e le hanno prese prime degli altri. Ah, il povero Pinelli!
Non credo però che il mio discorso li tagli fuori.

Anonimo ha detto...

Un commento previdibile - e anche orribile -il tuo, Ennio...
giuseppina di leo

Ennio Abate ha detto...

Orribile? Perché mai? Non crederai che abbia ironizzato?

Anonimo ha detto...

...allora occhei Ennio.

giuseppina di leo