Oltre a queste riflessioni riferibili al problema del fare gruppo, le risposte di Eco pongono problemi di giudizio storico più generale. Esse, come sempre spiritose ma un po' nostalgiche e che parecchio cedono all’annedotica amicale, mi paiono evasive su alcune questioni: - fino a che punto questi giovani scrittori «con tanta voglia di fare a cazzotti» somigliavano o meno ai futuristi; - gli aspetti letterario-politici dello scontro tra Gruppo ’63 e le posizioni “tradizionali” (di Pasolini in particolare); - il rapporto del Gruppo 63 con l’industria culturale che allora esplodeva e delle cui esigenze d’innovazione neocapitalista esso si fece di fatto portavoce, cancellando tutte le istanze del marxismo critico. (A Eco basta un grande autore, «uno come Philip Roth, che vende milioni di copie», per assolvere la letteratura commerciale, quella cioè che «non fa più diecimila copie, ma parte da centomila per arrivare in alcuni casi al milione»; - le questioni su cui litigavano ferocemente i letterati tedeschi del Gruppo 47. Un altro punto interessante suggerito da questa intervista sarebbe quello di capire se il fenomeno delle neoavanguardie degli anni Sessanta va inquadrato nel generale movimento Modernista della cultura europea, quello che Linguaglossa ha da tempo indicato come filone letterario fondamentale in Europa e che oggi viene rivalutato, in maniera che in parte mi sorprende, anche da un critico come Romano Luperini in un saggio, Insegnare il Novecento: il modernismo, su cui spero di tornare e del quale per ora mi limito a dare il link: qui [E.A]
La Repubblica – Il
Venerdì n° 1299
Marco Filoni Gruppo ’63. Noi, scrittori con tanta voglia di fare a cazzotti. Cinquant’anni fa
nasceva il movimento che formò moltissimi intellettuali italiani del
dopoguerra. Programma: fare arrabbiare più gente possibile. Incontro con un
celebre fondatore, Umberto Eco
Milano. Un intero scaffale. Nella biblioteca di Umberto Eco – immensa, una Babele
affascinante,
l’Eden sognato e immaginato da qualsiasi amante dei libri – la letteratura sul
Gruppo 63 occupa un bel po’ di spazio. Eppure nessun libro restituisce la risata,
piena e fragorosa, dello scrittore quando ricorda quell’esperienza. Questo
movimento letterario, definito di neoavanguardia per distinguerlo dalle
avanguardie storiche, nasceva ben cinquant’anni fa. Il suo carattere di
sperimentazione faceva il paio con le polemiche, incandescenti, che riuscì a
innescare. Una su tutte: Carlo Cassola, Vasco Pratolini e Giorgio Bassani,
scrittori già noti e consacrati dalla fama e ironicamente bollati come «Liale»,
sprezzante richiamo ai romanzetti rosa firmati Liala. Roba da salotti
letterari, si dirà. Se non fosse però che alcuni membri del Gruppo 63 saranno
destinati a diventare fra i maggiori protagonisti della cultura del Novecento.
Da Guglielmi a Sanguineti, passando per Manganelli e Malerba, a Elio Pagliarani
ed Enrico f Filippini, Alfredo Giuliani e Antonio Porta, Sebastiano Vassalli,
Alberto Arbasino e Nanni Balestrini, forse il più attivo di tutti. E poi,
naturalmente, Umberto Eco, che quando parla degli amici e delle vicende
dell’epoca s’illumina in volto. Val la pena cominciare dall’inizio, poiché il
Gruppo 63 non nacque certo dal nulla.
Professore, qual era il clima che l’ha generato?
«Mettiamo subito in chiaro una cosa: si continua a parlare del Gruppo 63 come di una
neoavanguardia, come se fosse un gruppo che ha lanciato un modo nuovo di
scrivere, un po’ come il futurismo. Non è così. Nel Gruppo 63 confluiva ciò che
esisteva da almeno cinque o sei anni. Era già dalla metà degli anni
Cinquanta che la rivista Il Verri ospitava i primi scritti dei
poeti e dei critici che poi avrebbero fatto parte del Gruppo. Poi c’era stata
l’antologia I Novissimi, uscita all’inizio degli anni Sessanta.
Esisteva perciò già un contesto ben preciso».
Che però accomunavapersonalità estremamente differenti.
«Basti pensare all’abissale differenza fra Manganelli e Sanguineti, o fra Malerba e
Balestrini…».
Gira un aneddoto sulsuo incontro con Balestrini, propiziato dal filosofo Luciano Anceschi.
«Sì, un giornoAnceschi mi prende sotto braccio e mi dice: “Eco, veda un po’ che si può fare
per questo ragazzo, è un po’ pigro…”. Poi, passato qualche tempo, dopo la
nascita del Gruppo 63, Anceschi mi prende sotto braccio e mi dice: “Eco, veda
un po’ che cosa si può fare con Balestrini, forse bisognerebbe frenarlo un
po’”. Erano ancora i tempi del Blu Bar di piazza Meda, a Milano: è lì che in
fondo si è disegnata non dirò una frattura ma una differenza generazionale. In
questo bar, al sabato, si riunivano Montale, Sereni, Bo, l’alta e vecchia
guardia, dove non dico il più giovane ma di certo il più avanzato era proprio
Anceschi. Lui aveva cominciato a portare alcuni di noi giovani: per noi era
davvero un’esperienza, incontrare questi grandi guru e poter
conversare con loro. Però man mano che noi entravamo – arrivava Cambon con il
suo ultimo saggio su Joyce o Giuseppe Guglielmi con la poesia sull’Anifructus
brunito per la cena dove si parlava di merda – noi eravamo sempre di
più e alcuni anziani non riuscivano a entrare nella nuova atmosfera, così non
venivano più. Non era avvenuto nessuno scontro, intendiamoci, il clima era
tutto sommato idillico. Poi capitava anche che qualche volta, visto che alcuni
di noi lavoravano in televisione, si arrivava lì con bellissime fanciulle. Non
è che agli anziani dispiacesse, direi il contrario, ma certamente si sentivano
fuori posto».
Invece come avvenne
l’atto di nascita formale del Gruppo 63?
«Da un delirio di Balestrini. Secondo me attorno a un tavolo di ristorante a Milano. Invece
Balestrini stesso, proprio pochi giorni fa, mi diceva che era iniziato tutto a
Palermo, un giorno, durante una chiacchierata, tanto che poi sempre lì ci
ritrovammo per il primo incontro ufficiale del Gruppo».
Qual era l’idea fondante?
«Ricordo benissimo la
frase di Balestrini: “Faremo incazzare un sacco di gente”. L’idea fondante era
un atto puramente terroristico. Si trattava di un progetto sociologico ancor
prima che letterario. Nel senso che il letterario c’era già prima col Verri e
altri circoli, perciò poteva andar benissimo avanti anche senza Gruppo 63».
E a livello «sociologico» suscitaste uno straordinario clamore.
«Il clima era
piuttosto favorevole. Ricordo quando nel ’62 uscìII Menabò di
Vittorini con un mio lungo testo e quelli di Sanguineti, Filippini, Colombo e
altri: fummo duramente attaccati da Vittorio Salvini su l’Espresso,
che rappresentava allora un’“estrema destra” crociana. E ricordo anche un
dibattito nella libreria Einaudi di Via Veneto, allora diretta da Cesare Cases:
arrivò Achille Perilli, uno dei pittori (non c’erano tra noi solo uomini di
penna ma anche uomini di pennello), con un manico di scopa nascosto sotto
l’impermeabile, una sorta di manganello, dicendo: “Se stasera si deve menare,
allora si mena!”. Un poco come accadeva alle serate futuriste».
C’era una certa euforia della critica…
«Sì, le polemiche
verbali erano all’ordine del giorno. Sempre sul’Espresso, recensendo un
mio intervento, Vittorio Saltini menzionava con sarcasmo una mia citazione da
Blaise Cendrars, che diceva: “Tutte le donne che ho incontrato si profilano
agli orizzonti – coi gesti pietosi e gli sguardi tristi dei semafori sotto la
pioggia”. Versi bellissimi, ma Saltini commentava che a me “solo i semafori
evocavano pensieri erotici”. Bene, gli risposi di mandarmi sua sorella!».
L’impressione è che
vi divertivate davvero molto.
«Ci divertivamo un mondo. Ed è questo in qualche modo l’idea balestriniana di tipo terroristico.
In cosa consisteva? C’era stata l’esperienza del Gruppo 47 tedesco, scrittori
sperimentali che si ritrovavano a leggere i propri testi e poi a criticarsi ferocemente
l’un l’altro. Ma in Italia questo era impensabile, perché l’etichetta era di
estrema educazione e, anzi, d’incensamento reciproco, visto che in fondo quella
letteraria era una piccola comunità che doveva autodifendersi».
Invece voi?
«Noi eravamo
differenti. È mia la battuta che la nostra era “un’avanguardia in vagone
letto”. Noi eravamo già sistemati, tutti lavoravamo già nelle case editrici,
nei giornali, in televisione e nell’università. Non dovevamo scalare il potere,
non avevamo bisogno di arroccarci in una difesa corporativa. Ma quello che
è apparso più intollerabile è altro: nessuno degli scrittori di tipo
tradizionale avrebbe mai accettato di presentare i suoi testi a una pubblica
critica, meno che mai fatta dai colleghi. Ebbene, ecco in cosa consisteva
l’atto terroristico di Balestrini: lanciare nell’ambiente letterario un modo
nuovo di interagire».
Quindi non era
soltanto un costrutto teorico a tenervi insieme.
«Se si va a vedere
chi ha partecipato alla riunione di Palermo e poi alle altre, si troveranno
alcuni scrittori difficilmente ascrivibili a una qualche forma di
neoavanguardia. Basti pensare a Malerba, un narratore modernissimo, ma
leggibile. Non era soltanto un’associazione di illeggibili, come qualcuno
indubbiamente era. Ciò che ci teneva insieme era il senso del reciproco duello.
E poi tutto sarebbe finito se gli altri non si fossero offesi».
In che senso?
«L’esperienza sarebbe
probabilmente terminata lì, a Palermo, come si conclude un qualsiasi convegno.
E invece quelli che erano stati attaccati si offesero. E risposero creando una
gran cagnara. Quando Sanguineti ha definito Bassani e Cassola le “Liale del
nostro tempo”, Bassani ha reagito pubblicamente con vigore dando così rilievo a
quella che era stata una battuta detta di passaggio. Altri invece si
incuriosirono: Moravia per esempio era a Palermo in quei giorni, forse non era
venuto per quello, ma pareva voler annusare da vicino cosa stava succedendo.
Vittorini partecipò alla seconda riunione di Reggio Emilia, e lo stesso
Calvino ci guardava con simpatia».
Più che avanguardisti
o neo, eravate piuttosto sperimentali.
«L’avanguardia presuppone una sorta di attacco violento, lo sperimentalismo è un lento lavoro
sulla pagina. Bisogna rileggersi il saggio di Renato Poggioli, bellissimo,
sulle avanguardie: ne faceva una fenomenologia fissandone le caratteristiche. E
fra queste diceva che per l’avanguardia deve esser terroristica e suicida. In
ogni caso espressione polemica di un gruppo bohémien ancora
escluso dal potere. Il Gruppo era terroristico, ma non suicida, perciò non
eravamo come l’avanguardia storica. Joyce non era avanguardia ma scrittore
sperimentale. Possiamo metterci anche Proust e ci sta benissimo. Quindi
nella neoavanguardia del Gruppo 63 gli autori più interessanti
e più visibili erano gli sperimentali».
È stata una
componente goliardica che vi ha permesso di realizzare la premessa di
Balestrini, quella cioè di far arrabbiare molta gente?
«Direi proprio di sì.
Ricordo l’istituzione del Premio Fata, in opposizione al Premio Strega, per il
romanzo più brutto dell’anno. L’idea venne a me insieme alla Cederna e ai
fiorentini. Lo assegnammo a Pasolini: lo prese talmente sul serio che ci scrisse
per argomentare che non potevamo dare quel premio a lui».
Veniamo ai vostri
nemici, ai vecchi rappresentanti del mondo letterario che si piccarono delle
vostre uscite. In definitiva vi rimproverarono per tre cose: la prima quella di
fare gruppo.
«Esatto: se c’è un
gruppo “c’è un golpe”, “ci attaccano perché vogliono il potere”».
Seconda: fate gruppo
su base generazionale.
«Era vero, anche se
qualcuno, come per esempio Manganelli, non era un adolescente di primo pelo».
Terza: fate gruppo contro qualcosa o contro qualcuno.
«Polemizzavamo contro
quello che all’epoca, con linguaggio della critica americana, veniva chiamato
“il romanzo ben fatto”. Quindi in un certo senso la polemica era contro il
romanzo consolatorio, indirettamente contro la letteratura commerciale. Certo, oggi
riconosco che l’aver messo sullo stesso piano Cassola e Bassani non fu giusto.
Salverei Bassani e non Cassola».
Inizialmente si
diceva che il Gruppo produceva solo programmi o poetiche, ma nessuna opera di
valore. Poi si è dovuto ammettere che alcuni erano scrittori da non
sottovalutare, come Arbasino, Manganelli, poeti come Pagliarani e Porta… Allora
cosa è successo?
«Si è creata la
sindrome del carciofo. Se si riconosceva via via che qualcuno era davvero uno
scrittore, subito si diceva: sì, ma lui non c’entra veramente col Gruppo 63, ci
è passato per caso. Manganelli? Era lì di passaggio. Si scopre Porta come
grande poeta? Ma partecipava solo marginalmente al Gruppo. Man mano che non si
poteva negare il talento di qualcuno di noi lo si scartava dal Gruppo come
si sfoglia un carciofo. Col risultato che alla fine rimanevano soltanto i
personaggi di secondo piano».
Per esempio?
«Si pensi agli
sperimentali radicali, gli illeggibili per sfida. Ricordo il libro di Gian Pio
Torricelli Coazione a ripetere: un intero libro dove per centinaia
di pagine apparivano stampati in lettere alfabetiche, uno dopo l’altro e senza
virgole, i numeri da uno a cinquemilacentotrentatré. Una provocazione, oggi si
direbbe, alla Cattelan».
Lei ritiene che
un’esperienza simile, in cui si fa gruppo, sia oggi ripetibile?
«Mi pare difficile. È cambiato il clima. Balestrini ha cercato di far nascere un Gruppo 93, ma
ciascuno poi ha corso per conto proprio. È un po’ per lo stesso motivo per cui
oggi i giovani non si riuniscono più in associazioni o partiti. Siamo in
un’epoca di cani sciolti».
Non crede sia anche
un po’ colpa degli scrittori, sempre più interessati a vendere il proprio libro
che non a imporsi come autori?
«Anzitutto, se alcuni
giovani scrittori sono presi da esigenze di mercato questo non esclude che, se
ci guardiamo in giro, esista il gruppo che fa la rivistina dove per vocazione
si produce senza pretese di far cassa. Poi, negli anni Cinquanta in televisione
la rubrica sui libri di Luigi Silori s’intitolava Decimo Migliaio,
il che voleva dire che se un libro riusciva ad arrivare a diecimila copie era
un successo al pari di Via col vento. Quindi chi faceva letteratura
(ma anche pittura: il contemporaneo allora non veniva venduto certo per milioni
di dollari) sapeva benissimo che non era da quella attività che avrebbe tratto
da vivere. Ora, si metta nella situazione di uno scrittore che vede intorno a
sé un mercato che può trasformare il suo prodotto in qualcosa che gli permette
di vivere».
L’aspetto di
marketing della letteratura è evidente…
«Il libro di successo non fa più diecimila copie, ma parte da centomila per arrivare in alcuni casi
al milione. Ma non è detto che uno come Philip Roth, che vende milioni di
copie, non sia un grande autore».
E cosa avevate
all’epoca voi del Gruppo 63 che oggi non c’è più nel mondo letterario?
«La possibilità e il
gusto del confronto. Immagini la scena: uno di noi aveva appena scritto
una pagina e veniva in pubblico a discuterla. Se oggi uno facesse una cosa
simile sarebbe preso per le orecchie dal suo editor. È cambiata l’atmosfera
generale. Il gusto del confronto forse è rimasto solo nell’università: lì i
giovani si confrontano, fanno seminari, si attaccano, litigano. Ma solo perché
non c’è da guadagnarci. Uno può fare un feroce dibattito sulla sua
interpretazione di Heidegger, ma questo non fa salire le sue vendite».
Voi del Gruppo 63 non
avevate un’identità politica ben definita.
«Diciamo che eravamo vaga sinistra».
Appunto, vaga…
«C’erano comunisti come Sanguineti e socialisti come Barilli. E altri che semplicemente non
facevano politica».
Vi rimproverarono di non essere abbastanza engagés?
«Uscivamo dal periodo
di dominio del Pci sulla cultura che aveva creato una neoscolastica
marxista – per cui si attaccava persino Visconti solo perché si stava occupando
di drammi ottocenteschi e non più di ponti della Ghisolfa. Era più che ovvio che
il Gruppo non potesse e non volesse collocarsi in qualche “chiesa”. Però questo
non escludeva che ciascuno, per conto proprio, avesse le proprie compromissioni
politiche».
Dopo il Gruppo 63 si
può parlare di altre correnti o generi?
«Non in maniera
visibile. E comunque non con lo stesso impatto che avemmo noi allora».
Gli scrittori
pulpitaliani degli anni Novanta?
«Ci stavano dentro
persino gli Skiantos, ai quali Maria Corti dedicò un bellissimo saggio. Ma
erano fenomeni più locali e più disseminati. L’ultima possibilità data a una
generazione di fare gruppo fu il ’68, ma non era gruppo letterario bensì
politico. Diciamo che molte di quelle energie che in un’altra epoca sarebbero
confluite in un’attività letteraria allora confluirono nella politica. L’unico
tentativo di diversificazione fu quello di Bifo nel 1977, dei deleuziani
bolognesi, ma anche lì sul piano letterario non ha prodotto molto».
Se dovesse fare un
bilancio del Gruppo 63 oggi, cinquantanni dopo?
«Una delle accuse che
ci muovevano era, come ho detto, che si producevano poetiche e non opere. Ecco,
direbbe che La ragazza Carla di Pagliarani o le poesie di
Porta non sono opere sopravvissute ai loro autori? In ogni caso la
sopravvivenza di un’opera va però giudicata sull’arco di un secolo, non di
qualche decennio. Pensi che nella prima metà del Novecento c’erano scrittori che
contavano e oggi sono dimenticati -come Virgilio Brocchi o Papini. Persino
Bacchelli, che pure per me continua a essere uno dei grandi scrittori della
prima metà del Novecento. Vedremo se fra cinquant’anni si leggerà ancora
Sanguineti o no. Se sì, ci saranno certamente ancora alcuni che diranno che
però lui, tutto sommato, non apparteneva al Gruppo…».
4 commenti:
Interessantissima questa intervista a Eco per riflettere su quello straordinario fenomeno che ha causato la nascita della neoavanguardia, il fenomeno chiamato Anni Sessanta. Il problema è che con il '68 il Gruppo 63 era già stato superato dalla Storia; la strategia sanguinetiana di fare della neoavanguardia una avanguardia permanente era legata al suo interesse personale di legare il proprio nome e la propria poesia alla contestazione permanente del 68 che il 68 aveva inaugurato.
Oggi dobbiamo chiederci: Bilancio. Nelle condizioni di stagnazione spirituale e di recessione economica odierne: che cosa è rimasto oggi della neoavanguardia? Che cosa è rimasto del clima di dileggio dei "vecchi" letterati di quegli anni e di anti conformismo? Chiediamoci:
1) È possibile una Nuova neo-post-avanguardia nel Dopo il Moderno?
2) È ormai la poesia diventata un fenomeno di neo-retroguardia?
3) Che cosa è rimasto del «vecchio» Novecento?
4) Siamo entrati nella «radura» della Poesia o nella Poesia «superficiaria»?
5) Liquidare, come fa Giuseppe Conte, il fenomeno «storico» della
neoavanguardia quale operazione di «scalata alle posizioni di potere
editoriale», è una posizione storica corretta o un facile cedimento a
uno stereotipo culturale?
6) Il fenomeno delle neoavanguardie degli Anni Sessanta va inquadrato nel generale movimento Modernista della cultura europea?
Nel mio studio critico "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010" (EdiLet, Roma pp. 400), ho tentato di esporre una tesi molto semplice (in Europa orma viene utilizzata da 100 anni): che la migliore poesia de Novecento la si rinviene nella tradizione modernista. Ed è nell'ambito del Modernismo, in quel quadro culturale che sono state possibili congiunture culturali e artistiche come il Gruppo 47 in Germania, il gruppo Tel quel in Francia, il Gruppo 63 in Italia etc. - Occorre spostare l'ottica con cui si guarda al percorso artistico del Novecento e alle sue espressioni culturali e adottare finalmente la categoria centrale di modernismo per poter spiegare fenomeni culturali che, altrimenti, rischiano di non essere adeguatamente comprese nei loro intrecci storici.
Giorgio Linguaglossa
E' solo questione di passione, di passsioni. La passione è il motore di tutta la letteratura , non si vive più per la passione di ciò che si fa ma per la vanità per ciò che ci impongono di fare. Un mio pensiero , ingenuo? Scomodo? Un pensiero sincero. Emy
A Gorgio Linguaglossa:
Caro Giorgio,
anticipo qui in fretta e schematicamente (riprenderò la questione in un post sullo scritto che ho citato di Luperini sul modernismo) la posizione che al momento mi sento di prendere in proposito.
Avevo già riflettendo sui tuoi due libri, indicato alcune mie riserve sulla tua posizione “filo-modernismo”. Le confermo adesso, malgrado la (per me in parte sorprendente) attenzione data al fenomeno di Luperini.
Tu sostieni che «la migliore poesia de Novecento la si rinviene nella tradizione modernista».
Può darsi. Ma a me non interessa scovare soltanto dove si trovi la migliore poesia.
Ho guardato sempre con qualche simpatia il tentativo delle avanguardie storiche (con diffidenza maggiore quello delle neoavanguardie, specie italiane) per quel che alludevano o cercavano; e che a me non pare ancora oggi riducibile soltanto ad una ricerca della “migliore poesia”, ma semmai ad una critica dell’istituto storico della poesia. Risultato alla fine da parte loro – è vero - solo destruens.
Accertare la fine o l’impossibilità oggi di qualsiasi avanguardia non mi induce perciò a cancellare del tutto il problema *non puramente estetico* che esse si posero.
Quanto al saggio di Luperini sul modernismo, a me pare utilissimo per i chiarimenti e inquadramenti storici che fa del concetto, isolato a me pare giustamente dall’area del decadentismo.
Ma non so fino a che punto si possa parlare di “rivalutazione” del modernismo. Egli fa, da critico, un lavoro di sistemazione storiografica: corregge le interpretazioni confuse dei manuali scolastici che confondono modernismo e decadentismo e quelle di Asor Rosa che vede decadentismo dappertutto.
E circoscrive il fenomeno: « Come couche culturale, il modernismo si estingue con l’avvento del neorealismo postbellico, quando si impone una nuova cultura ispirata da Gramsci e dal marxismo e da poetiche dell’impegno civile.».
Inoltre distingue nettamente modernismo e avanguardia, pur indicandone un’unica origine: « gli autori modernisti, pur nascendo dalla stesso parto, assumono caratteri diversi [dall’avanguardia] in ordine alla concezione del tempo (intermittente o seriale nei modernisti, genetica o dialettica negli avanguardisti, per esprimerci nei termini di Compagnon I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p. 70.), al rapporto con la tradizione, al modo stesso di concepire il lavoro letterario».
E afferma anche chiaramente – altro elemento di distinzione - che «le avanguardie tuttavia non esauriscono le possibilità del modernismo, ne esprimono solo un versante, quello più oltranzista, volto a rompere i ponti col passato, a mettersi alla testa di un processo che deve anticipare il futuro e far trionfare il progresso, e infine, coerentemente, a travalicare l’azione estetica in azione politica».
Non indica, infine, il modernismo come poetica-modello, come tendi a fare tu.
A me pare, per concludere frettolosamente, di dover ancora scavare però “in direzione fortiniana”, direzione che non so quanto possa essere avvicinata al fenomeno del modernismo. Nella ricerca di Fortini, pur imbevuta di hegelismo ma mai del tutto appiattita su quella cultura marxistica che assieme a quella idealistica tendeva a liquidare troppe cose come Decadentismo, forse ci sono spunti utili sia per cogliere i limiti delle avanguardie sia quelli ( che per me pur ci sono...) del modernismo. Ma è solo un’ipotesi da vagliare sui testi e approfondendo la questione.
Fare gruppo senza che ci siano affinità, senza un'idea comune, non dico una somiglianza ma almeno una particolare stima reciproca, tenuti insieme unicamente dal rispetto, dalla cortesia e dalle buone maniere, a me sembra un'impresa squinternata per forza destinata a fallimento. Ed è un bene, perché altrimenti si starebbe in un generico contenitore, non in un gruppo di artisti affamati di novità e d'avventura. La città è piena di associazioni culturali dove la gente si ritrova in questa maniera, per forza non ne esce niente. Ci si affida all'insondabile immaginario degli altri che, si sa, stravolge e ingigantisce ogni cosa. Tanta immagine, quando c'è, e poca sostanza. Si potrebbe dire che tutto il novecento sia stato così, gruppi di amici si ritrovavano ad essere protagonisti di movimenti che la storia dell'arte (la critica) trasformava in eventi epocali. E tutt'al più erano faccende che duravano meno di un decennio, e spesso era un metter insieme artisti che tra loro non c'entravano per niente.
Dietro la storia dell'arte si nasconde la storia della critica. Forse è questa l'idea di fondo che ha mosso Ennio Abate nel il suo intento di fare gruppo? Infatti l'obiezione principale mossa da Ennio è quella dell'impossibilità di "ricucire il legame tra critica e poesia". Pochissimi tra i Molti l'hanno seguito per questa strada, ma una ragione ci deve pur essere. Si fa critica anche quando si entra nei problemi specifici della scrittura, non solo alzando asticelle genericamente intellettuali. In un laboratorio conta il lavoro, non solo la teoria. Conta anche il gioco, la scrittura, conta il mezzo con cui ci si vuole esprimere. E' da questo confronto, da questa gara direi, che potranno nascere affinità e comunanza d'intenti. Ma i Molti sono una scommessa, persone che non si uniscono per scelta e ammirazione reciproca cosa possono fare? dove possono andare? ma poi: cosa li potrebbe unire?
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