Mario Marchisio La
falena sulla palpebra. Poesie gotiche 1973-2007 Mimesis, Milano 2008
Ofelia
C’è un vento lieve che
increspa l’acqua
C’è un vento che
l’accarezza:
Erba, fiume, fronde contro
il cielo,
E lei nell’acqua e i pesci
che la schivano.
E un tiepido raggio esplora
il silenzio,
Un sole tiepido indugia sul
vetro
Nero dei suoi occhi, scende
agli splendori
Dell’esilio senza tempo a
cui fa vela
Mentre resta là in fondo cullata
Dal guizzo dei pesci, né
trema
Se gelo anche l’abbraccia.
non trema
Ofelia, di verdi alghe
incoronata.
Il ritorno
Sono giunto prima che l’alba
Troncasse nel sangue
Il balbettio senza meta
Delle tenebre. Oh sangue
Denso e cupo di quelle
stanze
Dove pure del sangue
Nessuno parla; oh pareti
Nere imbevute di sangue
Scarlatto, ora crosta
Che grida roca nel sangue
Novello che dentro le
sgorga;
È tornato il pallido sangue
Barcollando nel buio!
Una coppa di sangue
Vi preme di nuovo, cuscini
Rossi in velluto, ma sangue
Che serpeggia ed annega.
Sono entrato: ecco sangue
A fiotti sulle finestre,
Porte e sedie grondano
sangue.
Non potevo dimenticare
Nelle vene a lungo il sangue
Cupo denso implorante.
È tempo, è tempo di sangue.
In alto, in cima
In alto, in cima
Alla ricurva scala
Udire gli angeli le lodi il
canto
D’ogni divino amore, ogni
giorno divino
Senza pudore
Levarsi lieto, dare le
spalle al mondo,
Come una febbre scuotere le
più remote venerdì
Monche di sangue, d’ingrato
sonno piene
E di terrore.
«Eccoti qui, civetta,
malinconico
Barbagianni, e voi rissosi o
muti
Amici. Quale lunga attesa
Ci strazierà
Prima che schiuda i suoi
cupi fulgori
Quaggiù la vera, la sola
santa di luce
Notturna! Pietoso un angelo
l’induca
A medicare i nostri volti i
nostri cuori
Sigillandoli
Per farne urna, intatta
madia e specchio, fiume
Dalla riva taciturna…»
Sostare,
Mutarsi in calma; cedere
All’umido sorriso che ora
fluttua nelle tenebre.
Mentre mi seppellivano
Mentre mi seppellivano
All’ombra dei platani casta
Un miagolio di sordidi
violini
Riempiva l’aria: i grilli e
le cicale
Astute… Io ero vivo, io
Mi divertivo.
Carme ipogeo
I
Ama talvolta comparire
Satana
Dove l’acqua s’increspa,
dove scorre
Se traluce quel malefico
profilo,
La coda di minutissime
scaglie
Nere o verdastre, il
ripugnante zoccolo
Che insegue nelle vie da
carne umana.
Egli ha saputo edificare il
mondo
Fatto certo insondabile per
chi
Consuma gli anni ricercando
Dio
Da una palude all’altra: in
ogni vena
Buia di vita: stomaco,
vampiro.
Sozzo l’ardore che lo guida
e preme
Per quanto voli con ala
celeste
A dare un nome al fango,
alla paura.
Oh fiumi di Babele
incandescenti,
Quell’arte che rende iniqui
e felici
- Creare – muta adesso nelle
viscere,
Superba luce, fra le stelle
erranti
Giacque sepolta e il giorno
del risveglio
Fu la sua fine, la fine
indicibile…
II
Nessuno si vanti di
riconoscere
Il volto divino: qui non
esiste
Corpo mai che non mostri
l’abisso
E i neri figli in fermento:
riparo
Non si trova qui nell’onda
che inghiotte.
È Satana a confondere le
lacrime
Del sonno e della veglia
affinché muoia
Con l’ultima scintilla anche
l’abbraccio
Azzurro sopra gli angeli di
Dio.
Poiché l’ampolla traboccante
grazia
E alta armonia rifugge i
vani sguardi
Solo l’inferno è visibile in
terra,
Solo il demonio è tangibile;
come
Al misero cieco cui non si
dona
Altro che un’unica, maligna
notte.
L’esplorerà con passi
titubanti,
Nell’odio che il timore
ingigantisce:
Ne pioveranno elmi, spade,
corazze
E un fuoco di silenzio
crocifisso:
Un’anima dal fuoco
snaturata.
Garuda
Dal buio, dove la tigre
sogna l’antilope,
Discende la virgola rosa che
è la mia lingua,
L’Aurora inseguita dalle
folgori di Indra
Abbandona il suo carro e di
se stessa tinge l’oceano
Dell’aria, un solo gemito un
solo sospiro
Racchiuso nel cerchio dei
grandi occhi accesi.
Le oscilla sul petto
l’incerto lucore
Che la pioggia di latte ha
trasformato in Ganesa,
Pachiderma e bambino in un
unico stampo
Fratello di Skanda, progenie
di Siva:
La verde foresta drizzandosi
in piedi
Si srotola e distende come
una tunica sull’acqua.
Se un fantasma di sofferenza
accorcia
La linea sovrumana di quelle
braccia
Protese all’incontro alla
notturna vampa
Sinuosa in mezzo al cielo
ombelico di brace,
Io rompo ogni indugio,
m’inabisso per non tornare
Fino al giorno in cui la
morte si consegni ai miei artigli.
*Nota di Giorgio Linguaglossa
Se la via della «povertà»,
che sa di utopia francescana, è probabilmente una via illusoria e salvifica, ne
consegue che anche la via del «lusso» non è mai innocente, anzi, di più: quasi
sempre ci ritroviamo tra le mani oggetti di oreficeria, elitarie smancerie,
dolciumi. Perché non c’è più una strada, un sentiero assicurato (nel bosco
coperto di foglie) per il quale qualcuno
abbia stipulato un contratto di assicurazione verso terzi contro i sinistri
causati dalla speculazione dei beni mobili delle scritture talqualiste,
replicabili e moltiplicabili; non c’è più un «bosco» in cui smarrirsi. Per
Marchisio il peccato del «viandante» è nel suo stesso vagabondare; il viatico
del «viandante» è il suo errare (il suo peccato).
La scrittura letteraria è
uno «spazio di morte» ha scritto Blanchot ma uno «spazio» dove protagonista
assoluta è la vita; dal corpo morto della scrittura ora risorge la vita. Ed
ecco che il cattolicissimo Mario Marchisio si ritrova a meraviglia in questo
«spazio di morte» qual è il «poetico». Preceduta da Versi giocosi e satirici (1999) e dal canzoniere amoroso Il viandante (2003), questo volume
conclude il trittico delle poesie complete dell’autore torinese secondo il
retro di copertina del libro. Sono dunque versi di un bilancio di vita, un
epicedio tortuoso e maniacale sull’ossessione del «diavolo e della carne», del
simbolico e del metafisico.
I saggi di questi ultimi
anni sul post-contemporaneo di
Roberto Bertoldo affrontano una serie di questioni. La domanda che si pone
l’opera poetica è: chi è colui che parla e a chi lo dice? C’è separazione tra l’autore e il lettore? Da
dove deriva questa separazione? Ma la parola dell’autore non nasce da una
situazione comune a tutti i parlanti? Non è la parola della poesia quella della
comunità? O è quella di una dispersione? La parola della poesia non fonda né
stabilisce nulla, tranne la propria interrogazione? Un tempo forse la sua
finalità era quella di dare un senso più
puro alle parole della tribù; oggi è una domanda che la poesia rivolge a se
stessa. Questa domanda è un atto di fede, un dubbio, una ricerca? La domanda
prende una forma: ecco alcuni segni che si proiettano su un fondale bianco da
cui si diramano una molteplicità di significati possibili. Il significato
finale di questi segni non può essere conosciuto dal poeta: viaggia insieme al
tempo, o meglio, si dirama in più temporalità. Il poeta interpreta ciò che il
tempo dice, ma il tempo dice: nulla:
dunque nichilismo. Ed ecco che un
autore integralmente cattolico come Mario Marchisio tenta di opporsi con tutte
le proprie forze al nichilismo; ed ecco spiegata la ragione della adozione di
uno stile gotico.
La
«secolarizzazione» che ha investito il discorso
poetico lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo
metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche,
sempre più riconoscibile, di aproblematica identificazione. Lo stile di
Marchisio, invece, appare di problematica identificazione: un bersaglio mobile.
Lo sviluppo delle tecniche del tardo Moderno, che ha invaso anche la vita
quotidiana, ha avuto un contro effetto anche nel discorso poetico, deprivandolo
di tutto ciò che è il «territorio del poetico». Ciò che resta oggi di questo
processo che ha attraversato il Novecento è, appunto, il discorso poetico del post-contemporaneo:
la tematica del rapporto erotico invade il genere poesia, diventa
preponderante, occupa lo spazio di quello che negli anni Ottanta si definiva il
«Privato» e che oggi, grazie alla influenza mediatica delle televisioni, è
diventato uno spazio voyeuristico, dandystico, di un dandysmo di massa. A tutto
ciò si oppone lo stile gotico e raffinato della poesia di Mario Marchisio; un
modo come un altro di spadaccinare il nulla
che ci sovrasta, fingendo di ungere la punta del fioretto prima di un altro
affondo sulla pedana del male.
3 commenti:
Dio mio! Emy
Il termine "Gotico" veniva usato nel Rinascimento per indicare l'architettura non di moda, perché in quell'epoca era moderno il neoclassico. Lo si potrebbe dire anche qui, dopo aver letto queste poesie di Marchisio? Dipende. Si sa che dal settecento in poi il Gotico non ha mai smesso di far parlare di se'. Se non avessi letto che Marchisio è del '53 nulla mi avrebbe impedito di pensare ad un giovane dark innamorato di Poe che scriveva: "... Ho udito tutte le storie nel Paradiso e sulla Terra. / Ho veduto molte cose all'Inferno. / Ma il suo occhio d'avvoltoio azzurro chiaro / è l'occhio del Diavolo in persona. / Portatemi via adesso! / Ma fate che il silenzio anneghi il battito del suo cuore. / Non posso sopportarlo! / Liberatemi dall'orrendo mare che non posso vedere. / Vi prego, liberatemene!" . Quindi un dialogo con la modernità sarebbe possibile, anche senza scomodare l'eterno. Altro non posso dire ma ce ne sarebbe: il "nulla" che è anche nelle tematiche (perché no filosofiche) che degenerarono dal Punk ai Dark, e magari anche gli Emo. Ma non vorrei scadere troppo nel ridicolo, anche perché è evidente che la fattura e la visionarietà di queste poesie sono d'altro livello. Strano però, per un cattolico credente, trattar così da vicino il nulla, e così disperatamente.
Se difficile è alle volte comprendere il significato di ciò che ci circonda, riuscire ad esprimerne la complessità con la poesia allora la sfida è vinta. La poesia di Marchisio va ben oltre lo sguardo, è una ricerca in continuo divenire.
L'immagine del pellegrino, come evidenzia Linguaglossa, è una metafora molto cara al credente ed è al tempo stesso l'emblema dell'uomo, il suo stigma l'avvertire l'essere del mondo.
Giuseppina Di Leo
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