Così in questi giorni un amico:
«Caro Ennio, avevo già letto l'articolo di Carlo
Formenti (qui), invece quello di Sergio Bologna (qui) non lo conoscevo: semplici, chiari e
acuti, come sempre. Io negli ultimi giorni avevo previsto il successo
elettorale di Beppe Grillo tanto che ho vinto una scommessa con dei colleghi,
però non l'ho votato. E avevo previsto anche l'ennesima sconfitta della
sinistra cosiddetta radicale che ormai si è ridotta a un'esigua minoranza.
Seguo con attenzione l'evoluzione del movimento
5 stelle, ma ci sono alcuni aspetti che non mi convincono. Hanno scelto di
entrare in Parlamento ma dicono di voler cambiare le regole della democrazia
rappresentativa. Vedremo come. Saranno addomesticati pure loro? E' troppo
presto per dirlo. Inoltre in questa situazione economica e finanziaria molti
dei punti del loro programma sono irrealizzabili senza rovesciare il mondo.
Troppi proclami! Comunque sono riusciti a dare uno scossone al sistema politico
italiano e questo non può che farmi piacere. Ciao, G. »
Io
non ho votato. Il mio scetticismo verso le forze politiche in campo è stato
totale. E non sono né piacevolmente sorpreso per l’exploit grillino né dispiaciuto per la nuova
batosta della sinistra. Resta il
problema di valutare il fenomeno: schiuma del sistema o spina nel suo fianco? Ulteriore segno di crisi (l’ingovernabilità) o iniziale, confusa
reazione ad essa?
Resto incerto nel rispondere e per varie
ragioni. Diffido dallo stare alla
finestra. Né me la sento di fare la predica ai giovani perché idealisti o
ingenui o sciocchi o manipolati (ora da
Grillo e Casaleggio e - dicono -, dietro di loro, da
Soros o da lobby statunitensi, ecc.). Non mi presumo politicamente più saggio
di altri. Né mi pare si faccia qualche
passo avanti per uscire dalla nebbia dimostrando (a chi?) che oggi in politica quel che davvero conta è un’élite dirigente o un
leader adatto alla situazione drammatica e che, senza questi soggetti, i
movimenti finiscono male. Non ci sono, di
fatto, oggi né partiti degni di questo nome né Lenin o, a scelta, Cavour. Non ne
vedo in giro.
Siamo un po' tutti costretti ad oscillare tra anarchismo di fatto e “impotenza
intelligente” (tipica dei vecchi e più o meno libresca?), che ai giovani riesce
a somministrare al massimo avvertimenti, rimproveri e ben pochi suggerimenti (ammesso che li richiedano). E le pratiche politiche in corso sono distanti anni luce da quelle di un tempo ed è sempre un po’ un errore assimilarle o misurarle con quelle del Novecento o del ’68-’69. E tuttavia siamo, volenti
o nolenti, imbottiti di ideologie del passato e
magari anche di qualche teoria una volta efficace ma sul presente zoppicante.
Temo perciò che siamo affetti da forme di cecità complementari: da una parte gli
esaltatori ingenui o interessati di ogni movimento (adesso è il turno del M5S,
prima erano le “primavere arabe”, ecc.), i quali trascurano quali apparati di
controllo e di manipolazione i dominatori hanno in mano. Dall’altra alcune sparse intelligenze che tendono a sferzare fin troppo l’ingenuità o le superstizioni del “popolo” o, più in concreto, di quanti credono di dovere e potere fare qualcosa. Queste ultime rischiano di non entrare mai più in
azione. Per lo più ci azzeccano nel profetizzare e quasi evocare
il fallimento dei movimenti, ma a me pare
davvero una misera soddisfazione ridurci a confermare quello che i conservatori o i reazionari dicono da
sempre: che nulla cambia o può cambiare e che solo i forti prevalgono sempre
sugli altri…
Sarà perciò anche vero, come scrive G. La Grassa, uno studioso che io
stimo e di cui seguo con attenzione le analisi politiche e teoriche, che «le rivoluzioni scoppiano, e soprattutto hanno possibilità di
successo, solo quando il conflitto tra dominanti ha raggiunto una considerevole
acutezza e ha inceppato, perfino sconvolto, i meccanismi riproduttivi di una
data formazione sociale (di un certo sistema di rapporti sociali), il cui
funzionamento ha caratterizzato la stessa per una lunga epoca storica», ma nel frattempo che
me ne faccio soltanto di un tale sapere? Restiamo in attesa e studiamo? Non tutti
possono farlo. Molti, troppi, sono mossi solo da urgenze immediate e vorrebbero
almeno suggerimenti più spiccioli per fronteggiare gli eventi con i quali la crisi li schiaccia. Può darsi (o
forse è sicuro) che “agitandosi” non ne troveranno. Può darsi che si illuderanno soltanto. Ma è un fatto che essi non
possono solo aspettare e studiare. E se il sapere di quelli che possono studiare e
riflettere resta separato e lontano dal "senso comune" di quelli che sono costretti ad “agitarsi” tra i
gorghi della crisi, è segno che viviamo tempi davvero molto
brutti. I primi rischiano di aspettare “il momento giusto” per entrare in
azione (e bisogna sperare che non sfugga anche a loro - che garanzia hanno? -
e non siano troppo arrugginiti o indeboliti per coglierlo). I secondi, dopo l’euforia
del movimento “allo stato nascente”, prima o poi toccano il Muro (chiamatelo come volete: realtà, forza dei dominanti, potere di lobby, mafie, partitocrazie, caste); e o vi si
schiantano o scendono a compromessi.
Non me
la sento di far
spallucce a chi mi mostra che oggi non sono più i lavoratori e neppure il ceto medio
impoverito ( i cosiddetti "lavoratori della conoscenza") a far pesare i loro interessi in politica e mi avverte, invece, che i
giochi si fanno soprattutto tra potenze statuali e ben al di sopra delle nostre povere teste, che non vengono certo illuminate ma piuttosto oscurate dalla valanga di "informazioni".
Né mi pare trascurabile (almeno per chi
ancora trova un po' di tempo per leggere
e informarsi) andare ad esaminare che idee hanno della realtà d'oggi Grillo e i grillini per valutare l’attendibilità
dei loro programmi (ad es. che valore ha la loro cultura dei limiti dello
sviluppo o della decrescita?).
Con questi dubbi e senza
pretendere che la poesia riesca a darci “qualcosa di più” dei commenti dei mass
media o dei politologi ho letto la poesia di Mayoor.
Mi
è parsa ben riuscita perché parla con sincerità e intelligenza dei dilemmi politici in cui ci dibattiamo. E lo fa evitando la banalità dei mass media e la chiacchiera che rimbomba sui blog
o nelle conversazioni da bar.
Egli
parte da un giudizio sostanzialmente negativo sul voto («questo voto / che
contiene, sembra, i colori del veleno»; «la croce ignorante»; «gente
addomesticata e allineata / alle urne / come in sala d'aspetto silenziosa e
ubbidiente»), ma evitando i toni aggressivi e diretti. Da qui le sue riserve sulla
foto che ho scelto per il suo post (abbastanza neutra per me e non di esaltazione di
Grillo: indicava il personaggio del
momento e nulla di più). Dice poi chiaramente che col voto non cambiano le cose. Neppure in poesia («Sapevo / che le lettere firmate con una sola croce / non
dicono / che arriveranno presto volumi di versi / taglienti / sulle mani dei
ladri»). E allude anche lui alla lotta politica che si svolge ben alta, al di sopra delle
nostre teste e forse della nostra comprensione (gli aristocratici / che
s'azzuffano tra di loro davanti al pubblico / che muore / dalla voglia di
vederne uno che vince»). Dice bene anche che siamo oggi senza speranze, per lo più ridotti a
scommettitori, ma sempre rimanendo servi («Come servi per bene e senza speranze / scommettitori
/ del loro futuro che è la sola cosa che gli resta / hanno puntato / tutto
sulla fantasia e l'improvvisazione / di un pugno / ben assestato, come quello
del poeta che sa / tacere»). Prevalente è lo scetticismo («Questo cambiamento
non assomiglia / alle rivoluzioni»). E non manca un po’ di nostalgia critica («Liberazione
/ quella interrotta troppo presto dalle gomme / americane / che con l'hula hoop
aggiustavano tutto / sulla terra».
Questa
poesia per me non è solo coraggiosa, ma induce a pensare. E lo fa da subito proprio a ridosso dell'evento e al presente, evitando di porsi - come mi pare auspicherebbe Linguaglossa - da un punto
di vista “alto” (del futuro? di Dio? del Saggio che sta al di sopra delle
miserie umane?) o da quello puramente estetico, che sono tentazioni ricorrenti in poesia. Eppure c'è da chiedersi perché la poesia dovrebbe essere
fatta solo per i posteri? E chi può
garantire il suo arrivo ai posteri?
6 commenti:
caro Ennio Abate,
mi sembra evidente che siamo arrivati al punto critico, a quella soglia critica raggiunta la quale i materiali iniziano a decomporsi. E qui mi sembra che il materiale Italia stia iniziando a decomporsi. La cd. sinistra ufficiale, intendo quella del PD è diventata, di fatto, un'altra cosa: un partito che è rimasto indietro rispetto al Paese. Mi sembra chiaro che il PD non sappia (e non vuole) più leggere il Paese. Paese che nel frattempo si è impoverito.
Ma il problema è che la CRISI economica del Paese non è solo economica (guai a chi la vedesse solo in termini economicistici) ma anche di cedimento morale di quei ceti che hanno sorretto il Paese in questi ultimi due decenni. Di fatto, per il prevalere di interessi corporativistici, il Paese ha perso i due ultimi decenni. Due decenni senza riforme e il vagone Italia si è fermato. Che cosa c'è da stupirsi? Ma il PD non vuole (non può) rinunciare alle pratiche di sotto banco e al sotto potere che costituiscono la sua essenza e la sua presenza nel Paese. Il PD rischia di essere un partito incapace di rinnovarsi, cioè di rinunciare alle guarentigie e al potere nelle istituzioni (nelle Banche, negli Enti, nelle Fondazioni, nei Giornali, nelle Televisioni etc.) Il problema è che questa incapacità di rinnovarsi del PD rischia di trascinare il paese nella ingovernabilità. Altro che governabilità invocata da Bersani! È uno specchietto per le allodole. E poi: che cosa si intende per governabilità? Certo, la vecchia governabilità è tramontata (spero per sempre), e invocarla come una icona miracolosa non serve a niente; Bersani e il suo partito rischiano di fare un buco nell'acqua: il fallimento del suo tentativo di governo rischia di rinvigorire sia il PDL che i grillini.
Il problema vero non lo si vuole vedere, e si preferisce andare dritti contro l'Iceberg.
Di fatto, il PD non è più da tempo un partito riformista. È questo il problema.
Per conoscenza:
http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-dibattito-e-noi/discussioni/103-dopo-le-elezioni.html
Dopo le elezioni
Scritto da Romano Luperini 04 Marzo 2013. Categoria: Discussioni
Siamo entrati in un tempo in cui il senso della storia, dell’etica e dell’impegno civile non solo sono diventati meno frequenti ma hanno cambiato natura. Siamo dentro una fase storica in cui il senso della storia, quando ci sia, è senza storicismo, il senso dell’etica, sempre più raro, è senza morale precostituita e il senso dell’impegno civile, comunque poco presente, è senza più nazione o popolo.
Da questo punto di vista gli italiani, sempre più massa e sempre meno popolo, civili e barbari insieme, europei e per molti versi ancora selvaggi, sono alla retroguardia e all’avanguardia in Europa. All’avanguardia proprio perché di retroguardia: quanto è successo alle ultime elezioni non è che il giusto corollario di un processo avviato da decenni. Da un lato un ceto dirigente di pagliacci, di affaristi o di burocrati, che da tempo hanno perso il sentimento della nazione e anche quello del decoro e della vergogna mirando solo al loro particulare (nel caso meno ignobile, quello di gruppo o di partito ridotto ad apparato); dall’altro una massa scarsamente alfabetizzata, influenzata dal narcisismo dei demagoghi di turno. Mussolini, da noi, non è passato invano: è stato il frutto non casuale di una antropologia, di un carattere che l’antifascismo e la Resistenza hanno appena scalfito. Di qui il dialogo con le piazze che rispondono a comando (aveva cominciato d’Annunzio all’inizio del Novecento e poi attraverso Mussolini questa abitudine oratoria è arrivata a Berlusconi e a Grillo), la ostentazione della virilità (torsi nudi, olgettine e attraversate a nuoto), il monologo al posto del dialogo, la politica come spettacolo, la volgarità del linguaggio, la costante esibizione del proprio ego in rapporto con la folla, senza più mediazioni. Il trionfo italiano dei (cosiddetti) populismi massificati di destra e di sinistra pone l’Italia alla testa di un processo storico che rischia di coinvolgere tutta la vecchia Europa, il cui ceto politico, d’altronde, già oggi appare assolutamente privo di prospettive che vadano al di là degli interessi economici immediati.
Certo Grillo non è Berlusconi, e soprattutto i seguaci dell’uno presentano significative differenze rispetto ai seguaci dell’altro. Però “uno non vale uno” nemmeno per il Movimento delle Cinque stelle, dove c’è un “uno”, un “uno” solo, che decide e che può dire a ciascuno dei seguaci “fuori dalle balle” (mentre la reversibilità non è concessa). Fra le differenze, una è notevole: da un lato un partito di plastica fondato sul controllo della TV, dall’altro invece un movimento di giovani, per certi versi persino animato da una nobile utopia, che fugge la TV e idealizza misticamente internet, evoca la democrazia diretta e la revocabilità dei delegati e soprattutto propone una idea della politica non come separazione specializzata ma come attività che coincide con la vita stessa (qui la differenza fra Grillo, che fa spettacolo, e il movimento dei suoi seguaci, che tengono assemblee e fanno meet-up, mi pare notevole): tutte suggestioni che derivano da pratiche partecipative di tipo nuovo sperimentate anche nel Sessantotto. Il problema è che esse si conciliano spesso col leaderismo più sfrenato e incontrollato.
[continua]
(continua)
Inoltre trovano ragione d’essere in una situazione di mobilitazione permanente prodotta da una crisi acuta, ma poi, in una situazione invece di normalità e di stabilità, vengono meno perché prevale invece il bisogno di mediazione e di rappresentatività, con la conseguenza che quelle spinte, rimaste frustrate, possono radicalizzarsi pericolosamente (anche in questo caso il Sessantotto indica la strada).
Nel movimento dei grillini ci sono alcune potenzialità positive, ma perché emergano e possano eventualmente affermarsi (cosa d’altronde difficilissima là dove il potere è di fatto nelle mani di uno solo) occorrerebbe un tempo che invece non c’è. Nel presente è facile immaginare che le componenti negative purtroppo prevarranno e la situazione politica precipiterà in un caos pericoloso per le sorti stesse della democrazia. Partiti sclerotizzati da un lato e un movimento ancora immaturo dall’altro non promettono niente di buono. Una classe dirigente sta dichiarando bancarotta, ma una nuova non è ancora all’orizzonte.
Ovviamente sarei contento se qualcuno intervenisse a dimostrarmi che questa analisi è troppo pessimista e che mi sto sbagliando.
[Fine]
Non credo sia il momento di spendere parole rassicuranti. Se il cambiamento l'avessero fatto persone di provata esperienza forse sarebbe diverso. Ma quelle persone hanno dimostrato non solo di non saper vedere oltre il loro naso, erano anche semplicemente incapaci di farsi venire anche la minima idea di come si potrebbe uscire dai ricatti economici internazionali. Di fatto ne sono conniventi, e secondo me questa è la triste verità. Fa paura doversi prendere delle responsabilità? Tra breve dovremo prendere delle decisioni importanti: uscita dall'euro, cambiamento delle regole parlamentari, sparizione dei partiti, forme di democrazia davvero rappresentativa, nuove direzioni di sviluppo (ecologia e lavoro) ecc. Dico solo che queste saranno decisioni che non verranno calate dall'alto (vedi governo Monti), ma si faranno referendum e tutti saranno chiamati a ragionare su tutto. A me sembra questa la novità.
Speriamo che il potere mafioso non interferisca nelle decisioni importanti che Mayoor elenca, io in questo senso ho molti dubbi per non dire certezze. Hanno sempre dovuto fare i conti con questo potere e non mi sembra che oggi in questo senso qualcosa sia cambiato. Emy
Per Abate
L’unica è essere nella mischia, rischiare anche di votare per una galassia di cui non si conoscono tutti gli aspetti. Autoridursi i compensi come hanno fatto i 15 giovanissimi grillini eletti all’Assemblea Regionale Siciliana mi sembra un fatto rivoluzionario. Qualcuno potrà dire che è poco ma la cosa ha grande importanza tanto più se si pensa che su questo punto nessuno dei parlamentariosauri si sogna di rivedere le proprie concezioni che sono radicate ormai nel DNA.
Nel frattempo assistiamo alla diffamazione del movimento di Grillo con la macchina del fango. Ci sarà tempo per scoprire quante e quali connivenze i grillini hanno con il potere e le lobby …e quanto il loro movimento possa essere assimilato alle “rivoluzioni arancione”. Anche il movimento No Global era stato oggetto di congetture inventate per screditarlo anche se poi lo stesso movimento a Seattle nel 1999 aveva invece individuato fra tutte le ONG accreditate alla Conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio quelle finanziate da multinazionali o legate alle lobby.
Ma cosa fare di fronte ad un caso De Gregorio”(è solo un esempio!) “vicino ai servizi” (Il Fatto Quotidiano) passato dalle file dell'Idv (Italia dei Valori) alle berlusconi per la modica cifra di 3 milioni di euro, in combutta con il governo americano, per fa cadere Prodi? Come chiamare tutto questo, complotto, golpe.. Molti hanno capito che non se ne poteva più... Eravamo oltre la fine di una storia ed è per questo che qualcosa si è smosso. Non v’è nulla di definito, le forme che il fiume può assumere ora sono imprevedibili.
Trovo però sia un bene differenziarsi dalla cultura e le ideologie del passato poiché sono proprio quelle che hanno creato uno status quo e potrebbero essere quelle che andrebbero ad inquinare le nuove idee che nascono. Nè si può stare a guardare quello che succederà per poi dire ah io l’avevo previsto. Una cosa di cui i detrattori accusano i grillini è la filosofia della decrescita per cui il movimento viene tacciato di iper malhusianesimo.
La decrescita o meglio un tipo nuovo di crescita è un aspetto ereditato dal movimento no global o di "Occupy Wall Street" che pensava di liberare il mondo della produzione dalle multinazionali e dai poteri del FM e della BM liberandosi da quell’economia della finanza virtuale e dalle sue operazioni di sciacallaggio che qualcuno giustamente ha chiamato “Armi di distruzione di massa”.
Le sollecitazioni di Abate mi sembrano importanti ma soprattutto mi chiedo cosa dovrebbe o potrebbe fare il mondo della poesia invece di continuare a riunirsi in locali asfittici per esibirsi con una poesia che vuole obbligatoriamente segnare una differenza tra la Poesia con la P maiuscola e la Poesia Civile. La poesia civile come quella di strada esce dai luoghi dove si era rintanata, dalle aule di scuola, dai corsi di composizione, e qualche volta anche dalla carta stampata, dai Blog. Questa poesia difficile da comparare è la stessa che a partire da Withman /Eliott/ Pound & comp. passando attraverso il “Rinascimento di S Francisco” e la “Beat Generation”…. aveva detto no alla poesia accademica che aveva chiuso gli occhi alla realtà ed era piena di convenzioni e di luoghi comuni. Se poi la poesia civile o di strada arriva ai posteri tanto meglio ma ne più né meno dell’altra quella che nasce al chiuso e per la quale nutro comunque grande rispetto. Enzo
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