sabato 9 marzo 2013

Umberto Simone, Poesie.



UN ORDINE DEL VEGLIO

Un ordine del Veglio della Montagna, sussurrato appena,
e il giovane Assassino scosta la zanzariera
e sorridendo accetta quel pugnale che, desto, brilla come
una selce del Delta al calo della piena. Poi, paese

lo dà a paese, regno a regno; a ogni stazione
trova ostesse materne e cambio di cavalli;
con jeans immacolati pur senza guado passa, con stivali
lucidi pur senza sentiero viene;

pur senza fretta, sciolto, dinoccolato, arriva;
fra quercia e quercia appare ai taglialegna dell’ultimo bosco -
lungo l’ultimo ponte incrocia il carro dei comici - e il cieco
fermo all’ultimo bivio ne sente i tacchi sopra i rovi secchi.

Cremisi d’occidente strapiomba per la valle addosso al campo.
Qualcosa sta accadendo, ma la segale è alta e lo nasconde.




 LA CORRENTE DEL GOLFO



Alla pensione Luxor, tutto nel nome il lusso,
quattro pareti e un letto -
però, sulla parete incontro al letto,
un’onda a stencil di rose turchine,

così, certe mattine, svegliarci era trovarci
sospesi in una liquida, subacquea primavera,
o la Corrente del Golfo era, e al suo tepore
noi pure ci aprivamo insieme ai fiori blu. 

Ma già il sonno svaniva come cala una marea,
attardandosi appena nella tenera rena delle palpebre;
già sbattevano porte, con una furia gelida
di cesoia che scatta e taglia via;

tonfi nel corridoio, bidoni che dabbasso
cozzavano - e i cerulei petali dei fondali
affiorando appassivano, non erano che macchie fra altre macchie
d’unto, polvere, usura, umidità, realtà.


UN REMBRANDT APPESO ALLA ROVESCIA




Buio di buio avvolto e incoronato,                     
ma quella voce me chiamava, Lazzaro!
era voce e fu subito anche luce e mi ferì
là dove ricordai di avere avuto gli occhi.

Volli coprirli, ricordai le mani -
fuggire volli, i piedi ricordai -
gesti e passi impossibili, le bende mi fasciavano
stretto, supino, duro, freddo, morto.

E ormai riavevo gola e petto e li riavevo invasi     
dal ritorno urticante di un respiro, scheggia a scheggia   
io specchio infranto mi riunivo, e m’incendiavo                                   
del mio nome, gridato come un sole.             

E ora altre voci udivo, però ai confini, come                  
le ombre che su un soffitto la fiaccola disperde, finché tremano
acquattate negli angoli, ombre eppure sussurri, e sussurravano:
Era davvero così bello, vivere?

E a un tratto quel soffitto franò, non più dall’alto
ardeva. ma di fronte, non più soffitto era, era una
porta, di fiamma, immensa, le ombre tacquero, la porta
s’avventò sul mio mucchio di aromi marci e aneliti,

mi ebbe una soglia : ah quanto giorno c’è al mondo, quanto
giorno - salgemma lancinante  - nivea  
cecità.
            Ma già, in là, a macchie sparse, nasce, e cresce, e esulta,
come un urrà, il colore.


I METRI E L’IDROMELE


Quello che il druido canta non è un canto,
è una foresta, dove di continuo
si trova e si riperde, dove in ogni meandro
gli esistono intorno parole -

e ci sono parole scoiattolo, fulve, imprendibili,
salgono, scendono, si nascondono,
riappaiono, e il loro traffico ai tronchi fa
ancora più solletico delle miti piogge d’aprile -

e ci sono parole salmone, schioccanti, sinuose,
liete solo se irridono la corrente, se negano
la cascata, se di guizzo in guizzo
sembrano luce più della luce -

e poi ce ne sono di quelle inattese, fulminee,  
ramo che a un tratto ha occhi e fissa, verde
che all’improvviso si torce e biforca una lingua,
perché sono parole serpente -

e intanto da verso germina verso, come
sull’antica fronte del cervo
si leva e s’allarga la gloria dei palchi,
altare vivo a sostegno del cielo.

  
INVISIBILITA’

Quel vescovo di Rennes che ha scritto un Liber Lapidum
spiega un modo per rendersi invisibili:
basta cucirsi su una manica, ravvolto
in una foglia d’alloro, un opale,
e puoi, dopo felpati slalom di eunuchi e dribbling di giannizzeri,
goderteli in diretta, dal vivo, i retroscena dei potenti
o il bagno delle belle, fra spruzzi e porfidi, e persino più da presso
della mora che porge il lino giallo.     

Il testo non specifica il genere d’opale,
perciò, senza eccezioni, chiaro o di fuoco, ceco o messicano,
andranno tutti bene; quanto all’alloro, e dove non ne trovi?
in certi ambienti, ormai, lo svendono più ancora dell’incenso …
L’unica cosa insomma da starci attenti sono i punti - bada!
amen, se il filo cede! riappari! e sei fregato! e se hai sgamato
traffici d’alta mafia, o se hai pasciuto la pupilla lesta
sul gineceo del re, non sperare mercé, di’ addio alla testa!

Ma tanto, pure senza opale e senza alloro noi
non veduti esistiamo: nebbia soffice,
paciosa gelatina, c’è la mediocrità    
che ci scorta e ci scarta, ci esilia e ci protegge,
mentre pallidamente digeriamo
cogitando in sordina, agendo in miniatura,
morendo in rate innocue, fino all’ultimo anonimo incidente
che da nessuno ci riporta in niente.



       TURISTI NELLA LUCE

Eccomi a Capo Sunio, senza alcuna
briga se non esistere
in un nitido ritmo di cieli e di colonne,                                  
felice come il cieco guarito da Serapide

in qualche antica aurora, o come i diecimila
di Senofonte che di fila in fila
sull’ocra arso del piano dal grigio erto del monte                 
si gridavano il mare il mare il mare -

allora e adesso azzurro e amico, quello, 
fresco di sale mattutino, e tanto
liscio che lascia gli occhi regnare in punta d’ali fin là dove
la lontananza è pura chiarità.

Come te, come tutti, nella luce io non sono che un turista,
ma qui sento rispondersi, per un istante, istante e eternità.


ALUNNI DEL CENTAURO


Quando eravamo alunni di Chirone,
nella grotta oltre il tunnel folto d’edere
ogni materia, dallo stilo all’arco,        
dalla clava alla cetra, aveva la sua ora,
e di ora in ora, senza ancora scorgere
nelle arti l’allusione e nelle scienze l’ironia,
Teseo imparava a non perdere il filo
ed Ercole a contare fino a dodici.

Specchiati di continuo da vetrose stalagmiti,    
di sprazzi, di scintille ci credevamo fatti -       
e ci veniva il grido dei cacciatori in caccia
già nel cantilenare in coro gli alfabeti -
oh, era molto paziente, però tuonava, a tratti,
il Centauro, pur sempre parente di una Nuvola  -
e dopo cena Orfeo cantava, e se era in vena
le brande, mollemente, si schiudevano da sé.

Di notte, la caverna assomigliava,
più che a una scuola, ad una tana, tiepida
di respiri selvatici, da fiere adolescenti,
da cuccioli d’eroi - e di ringhi puerili anche, se noi     
nel sogno avvistavamo, dietro le ambigue foglie
a forma qui di cuore ma più in là a punta di lancia,       
il mondo, e i grandi spazi fino a allora indovinati
soltanto sulle mappe o dai racconti:

l’Oceano, che scatena fra i suoi venti                  
destini ed orizzonti - e  la Foresta,
che ovunque brilla e non si sa se brillino
rugiade o linfe o resine o loriche di serpenti -
e il Deserto, sul quale più pure e aguzze sorgono
le stelle a rivelare le invisibili strade -         
e, in fondo a una vertigine di scogli e gorghi, il viola della Colchide,      
con il suo odore immenso di neve che non cade.  

*Umberto Simone è nato nel 1949 a Monfalcone, in provincia di Gorizia, da padre pugliese e madre istriana.                                                                                                                                                              Ha trascorso in Puglia infanzia e adolescenza, quindi si è trasferito a Padova, dove si è laureato in medicina. Attualmente vive a Pisa.                                                                                                        Ha pubblicato le raccolte: L’isola delle voci (2001, premio “Diego Valeri” 2002) e Il sacco del curdo (Il Ponte del Sale, 2008, premio "Massa città fiabesca" 2010)





















9 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

...dal momento che il discorso poetico di Umberto Simone tende ad occultare la dinamica interrogativa, essa viene, direi, ancora di più alla luce e tende a de-pistare e rimuovere l'affermatività mascherata a festa dei discorsi di minore rigore metrico e formale; e ciò mediante il ricorso a metafore e a personaggi (mitici e storici: vedi Rembrandt, Chirone, Serapide, il vescovo di Rennes etc.) quali referenti simbolici e traslati dell'«io» che è stato de-centrato e de-sostanziato. C'è quindi un grande rigore metrico e formale insieme a un considerevole incremento di «oggetti», tradotti, ovviamente, negli equivalenti non oggettuali; c'è voglio dire una grammatica, una differenziazione problematologica e, quindi, anche stilistica che viene fuori e zampilla là dove una volta c'era il discorso suasorio assertorizzato dall'«io» posticcio. C'è un ritmo versale interno che riproduce il disorientamento esterno mediante linee di forza metriche e, quindi, anche stilistiche contraddittorie e distanti.
Il dubbio e l'interrogazione (di cui questa poesia è piena) non sarà più affermatività mascherata e assertorizzata ma diventa discorso pieno, ricco e multanime nella misura in cui ingloba e adotta l'interrogazione e la in-direzione quali modalità costitutive del discorso poetico; ed anche la quantità e la diversificazione lessicale diventano qui una miniera di ricchezza e di ricettività.
Anche Umberto Simone, come i migliori tra i suoi contemporanei, si muove decisamente in direzione di una poesia modernista, che ingloba una grande quantità di tracce lessicali con quelle della modernità (dribbling), senza che si venga a notare alcuna dissonanza o attrito. Non c'è contraddizione, c'è continuità tra le parole e tra le cose e tra gli oggetti. Il tutto, conglomerato e vivificato, viene storializzato entro un discorso poetico ampio e poliedrico.

Anonimo ha detto...

Onorico affascinante. Un lavoro che tende alla perfezione dove sentimento e parole s'intrecciano in uno stile che mi sorprende. Grazie .Emy

Mayoor ha detto...

Forse modernità e post-modernità sono soltanto modi diversi di guardare al presente e la tempo. Se così fosse, e se ho ben capito, sono interpretazioni che si potrebbero togliere dal contesto storico che le hanno definite, per lasciarle nel divenire. In tutti i casi queste poesie post moderne di Umberto Simone trasmettono nel presente una forte vitalità esistenziale. E sono belle. Complimenti.

Anonimo ha detto...

Il critichese è un mestiere difficile. Il gioco del lotto in confronto è più semplice.

Anonimo ha detto...

correggo onirico scusate emy

Mayoor ha detto...

Pienamente d'accordo.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Direi che fare il 'critichese' è invece facile: si trovano sempre adepti che hanno bisogno di appoggiarsi ad una sponda o all'altra.
E' fare il critico che è difficile perchè si tratta di separare il grano dal loglio. Ed è un lavoro in solitudine che può appoggiarsi alla propria formazione, alla propria esperienza e
a delle figure con le quali ci può essere uno scambio significativo. Non ha bisogno nè di fanfare nè di luce di riflettori: quelli possono esserci (come è anche giusto che sia) ma non è quello il motore del critico.
Quanto alle poesie di U. Simone, mi hanno preso molto ma ancora di più avendo avuto il supporto 'critico' portato da Linguaglossa che mi ha fatto capire un po' meglio come attraverso *il ricorso a metafore e a personaggi (mitici e storici: vedi Rembrandt, Chirone, Serapide, il vescovo di Rennes etc.) quali referenti simbolici e traslati dell'«io» che è stato de-centrato e de-sostanziato.* si possa tentare di 'gestire' in poesia l’attuale (sè-dicente) eclisse dell'io.

Mayoor ha detto...

In effetti dalla critica, a partire da quella rivolta a noi stessi, non si sfugge, a meno che non si voglia procedere sempre improvvisando. Forse qui "critichese" era riferito al linguaggio specialistico, sapienzale e ben strutturato, che difficilmente un comune lettore, anche se poeta, può mettere in campo. A ciascuno il suo, come si dice. Ma si può migliorare nel tempo; credo sia importante mantenere una buona autonomia di giudizio, con coraggio, e fare affidamento sul proprio buonsenso (ahimè!). Comunque leggere non comporta le difficoltà dello scrivere, e Linguaglossa - pensando a lui mi sono inventato un "linguaglossario" - sa rendersi comprensibile, va al centro delle cose come in questo caso a proposito di queste ottime poesie di Simone. Ma dice che "si muove decisamente in direzione di una poesia modernista" e qui il dubbio che ci sia una forzatura ce l'ho. Vabbè, sono solo definizioni, e poi lo leggo qui per la prima volta.

Giuseppina Di Leo ha detto...

Oltre alla bellezza dei versi, ciò che più mi colpisce di queste poesie è la nitidezza delle immagini, per mezzo delle quali e senza sforzo alcuno si entra direttamente nei luoghi rappresentati. Complimenti a Umberto Simone.