Leggo su FB che
"dal 2 al 23 maggio torna la #poesia all' Università
degli Studi di Milano con "UNIMI Connect Poesia 2023. Grande Poesia a
Milano”, nuova edizione del ciclo di incontri aperto alla comunità
universitaria e cittadina "ospiti" dell’Aula Magna di via Festa del
Perdono 7 , ogni martedì, alle ore 18.30.Con la cura artistica di Maurizio
Cucchi e la partecipazione degli attori Paolo Bessegato ed Elena Sardi,
l’iniziativa si articola in quattro incontri dedicati ad altrettanti poeti: 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐅𝐨𝐫𝐭𝐢𝐧𝐢 (Una volta per sempre, 2 maggio), 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐜𝐚𝐫𝐥𝐨 𝐌𝐚𝐣𝐨𝐫𝐢𝐧𝐨 (Gli alleati viaggiatori, 9 maggio), 𝐀𝐥𝐝𝐚 𝐌𝐞𝐫𝐢𝐧𝐢 (La presenza di Orfeo, 16 maggio) e 𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐢𝐨 𝐏𝐨𝐫𝐭𝐚 (I rapporti umani, 23 maggio)."
Sono curioso di sapere
che diranno di Fortini e di Majorino soprattutto. Per il momento mi rileggo
quanto scrissi il 3 febbraio 2011 sulla loro "poesia critica" in un
articolo intitolato "Da quali nemici e falsi amici si devono guardare
i poeti (esodanti) [ Seconda puntata] su questo stesso blog (qui il testo completo):
«Non voglio dire però che la “poesia dell’impegno”, già a suo tempo corretta in
«poesia critica» (Fortini, Majorino), sia stata una cosuccia del
tutto insignificante. Ebbe sicuramente limiti interni di poetica: eccesso di
contenutismo; ingenuità (o malafede) nel pensare che un’emozione forte, un
evento eccezionale, mettiamo pure l’orrore storico, producano di per sé, in
automatico, poesia e cioè trovino la forma giusta, innovativa, attraente,
impensata per fare arrivare a un pubblico politicamente motivato un contenuto
“importante” o scuotere/rinnovare l’istituto della poesia. Ci hanno poi
spiegato “giustamente”, ma da pulpiti universitari sempre troppo pronti a
bersagliare con un surplus di dottrine d’avanguardia ogni tentazione plebea dei
“poeti sociali” (alla Scotellaro per intenderci) che la “poesia dell’impegno”,
per quel suo eccesso contenutistico, trascurava “la forma”, il lavorio creativo
sul/del linguaggio, che permetterebbe invece (sempre? e con quali svantaggi?)
il raggiungimento della mitica (per i letterati e i critici) «qualità estetica»
e lo rende veicolo di un di più di emozione, di pensiero, di piacere estetico.
E posso concordare sul fatto che, anche per tali carenze, essa non fu in grado
di ottenere quell’effetto politico (comunicativo, persuasivo, pedagogico, di
agitazione, di esortazione, di edificazione) cui miravano i suoi fautori.
Eppure un merito glielo riconosco: coglieva nel segno nel porre un’urgenza,
nel dire: occupiamoci della realtà, non abbandoniamoci soltanto al sogno
(e al sogno per pochi). In effetti, la “poesia dell’impegno” tentava di aprirsi
a qualcosa (la realtà, i comportamenti sociali, la natura, la storia) che
spesso era rimasto esterno all’habitat mentale dei poeti-letterati. Ma se si
giudicassero quei poeti anche sul piano ideologico, politico, filosofico,
verrebbe fuori che furono deboli nello scavare quella “realtà” che pur pretendevano,
in competizione coi poeti ermetici o intimisti, i quali opportunisticamente la
rimuovevano, di conoscere o far conoscere al pubblico (alla “classe”, al
“popolo”). In troppa poesia “impegnata” di allora l’impegno restò
un’infarinatura della solita anguilla cucinata dell’ermetismo. I poeti
“impegnati” non s’industriavano in tutti i modi possibili, in proprio, direttamente
e con sforzo e vivendolo nel loro pensiero e nella loro pratica anche
poetica, per pensare in poesia l’orrore, il conflitto, la lotta di classe, la
guerra, lo scontro tra ricchi e poveri, la politica, le teorie sociali. I loro
avversari (politici e formalisti) preferirono attaccarli soltanto su uno dei
loro punti deboli. Gli gridarono: voi “impegnati” fate propaganda, scivolate
nella retorica, non raggiungete la forma, la poesia. Ma sorvolavano sul fatto
che gli “impegnati” alla retorica si abbandonarono (o si abbandonano oggi),
perché si erano accontentati e si accontentano di farsi passare spiccioli di
pensiero politico avariato da altri, dai “professionisti della politica”».
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