di Ennio Abate
Questi sono gli appunti che usai per il mio intervento sul tema proposto all’incontro del 25 giugno 2007 dalla Casa della poesia al Trotter di Milano.
Partiamo dal titolo di questa serata: Il territorio della poesia. Le riviste. Lo intendo come un invito a parlare della poesia pubblicata sulle riviste di poesia o su quelle che trattano anche altro; e mi pare sia sottinteso che le riviste siano ancora oggi i luoghi più investiti dai flussi vivi e magmatici della poesia che si facendo oggi in Italia; e che, quindi, andrebbero considerati i più attendibili per dar conto dello stato della poesia italiana assieme alle antologie di poesia, che in tali flussi dovrebbero mettere un po’ di ordine. Subito dopo mi chiederei: come operano le riviste di poesia e quelle non esclusivamente di poesia nel territorio della poesia? Ma anche - questione per me importante - cosa fanno ai confini di questo territorio della poesia?
Una approssimativa risposta alla prima domanda l’ho pubblicata sul
N. 4 de Il Monte Analogo, riassumendo le risposte di 26 riviste italiane di
poesia a un questionario di 13 domande proposto nell’ottobre 2005 da
L’Ulisse, rivista on line diretta
da Broggi, Dentati e Salvi.
Dall’inchiesta emergevano una pluralità di tendenze, che andavano dal
recupero del simbolismo in polemica con le neoavanguardie (es. Anterem, Smerilliana, Atelier) alle
aperture socio-antropologiche (es. Atelier,
Clessidra, La mosca di Milano, Pagine, Polimnia, Annuario, Le voci della luna).
Oppure dal ripensamento critico (o storico-critico) dello spazio
letterario e poetico (es. Kamen, Il Segnale,
Hebenon, Tratti) alla volontà di relazionare la poesia con
l’extra-letterario, sociale e a volte politico (es. Daemon, La gru, Pagine zero, Re, Semicerchio, Versodove, Nuovi
argomenti).
Nella organizzazione interna del lavoro della rivista o sulla sua
destinazione - sempre secondo le dichiarazioni e solo per esemplificare – si andava
da una gestione collegiale (Il segnale) a
quella iperindividualista (Steve) o artigianale (Atelier) o professionalizzante (Tratti).
E poi c’erano riviste che si rivolgevano a un pubblico non specializzato e a
lettori-scrittori sentiti alla pari dai redattori e riviste attive in ambiti
universitari ed editoriali o legate ai mass media e a grosse istituzioni (Nuovi argomenti, Re, Semicerchio), che
sembravano intrattenere col pubblico un rapporto più verticale e gerarchico.
Avevo annotato pure varie questioni, spesso comuni a varie
riviste:
- la volontà di misurarsi con la «globalizzazione» (uno spettro generico però), aprendosi alle letterature straniere o alle cosiddette letterature “minori”;
- il bisogno di confronto e di dialogo (talvolta però enfatico e astratto);
- l’investimento (poco problematico) sul valore etico della poesia (Atelier, Versodove).
Leggendo questa inchiesta, mi sono fatto l’idea che sia in corso una sorta di privatizzazione competitiva della ricerca poetica contemporanea. E che siamo spesso di fronte a riviste-monadi: alcune con finestre aperte solo sul territorio della poesia-poesia (quella della tradizione e con i suoi problemi specifici), altre con finestrelle appena aperte verso l’extraletterario. Tutte mi sono sembrate disponibili a mettersi in vetrina ma ben poco a stabilire confronti serrati e reciproci su quanto già fanno o sul da fare. E ho concluso che questo monadismo culturale delle riviste di poesia mi pare in netto contrasto con la natura sociale e comune della produzione odierna in altri territori del sapere, che soprattutto nelle scienze è pienamente riconosciuta e praticata.
Nel rispondere alla seconda domanda (cosa fanno le riviste ai confini del territorio della poesia), devo dire che vedo molti affaccendarsi sui confini dove s'incontrano o si sfiorano o s'intrecciano poesia e arte o filosofia o antropologia o religione, ecc. Ma mi pare che da alcuni decennio su certi confini particolarmente trafficati, - mi
riferisco a quelli che portano ai territori del sociale, della critica e della
– nominiamolo il mostro! - politica, che io ancora seguo costantemente – sono
stati eretti muri altissimi. Non di cemento, come quello vergognoso della West
Bank in Israele, ma “immateriali” eppure tanto più
resistenti quanto più si presentano come a-ideologici o a-politici, per rendersi appetibili al senso comune dei paesi
modernizzati e/o postindustriali.
A causa di questi muri e della conseguente interruzione dei
traffici coi territori appena nominai, il territorio della poesia è diventato - a
partire all’incirca dagli anni Settanta - una babele solo apparentemente plurale e
libera.
Si dice che i molti avrebbero invaso come barbari i tradizionali
sacrari della poesia, eretto accampamenti reali o virtuali (sul Web), scriverebbero
troppo e leggerebbero poco, pubblicherebbero a più non posso. In barba ai
critici, che una volta erano temuti governatori dei sacrari poetici o addirittura doganieri.
E, allora, mi chiedo cosa facciano i critici oggi. Prendo un loro esemplare bene in vista come Alfonso
Berardinelli, del quale proprio adesso per Le lettere è uscita un’antologia con
suoi testi, un’intervista e una presentazione a cura di Emanuele Zinato (qui).
Come tanti ha seguito una traiettoria che va da un’antologia
“storica”, Il pubblico della poesia
(scritta con Cordelli nel 1975) a Il
diario, una «rivista personale con periodicità variabile», scritta con Piergiorgio
Bellocchio e uscita dal 1985 al 1993.
Berardinelli è partito dall’esaltazione della pluralità, intesa come un essere «più
liberi di andarsene ciascuno per la sua strada» (pag. 230) rompendo i ceppi
dell’ideologia imposti da quegli imperialisti culturali degli anni Sessanta che
erano i Novissimi ed è giunto al rigetto altezzoso, individualista e rancoroso
dei maestri (Fortini in particolare: cfr. Stili
dell’estremismo del 2001), della politica (di sinistra), della stessa
critica letteraria come istituzione, della scuola.
A me pare che, dopo aver
scambiato la deriva per un atto liberatorio e messo in un calderone pluralità,
caos, vitalità e illusioni su un poetare facile (233), alla fine, pentito,
dichiari: «la sola cosa che veniva comunicata a quei “tutti” che affollavano le
letture di poesia era la voglia di fare tutti poesia, di produrla in proprio
invece che leggere e ascoltare quella scritta da altri, da quegli individui
speciali che pretendevano di essere loro e solo loro poeticamente creativi» (pag.
232). Berardinelli ha anche parlato di morte dell’antologia di poesia
contemporanea: «Nessun catalogo, nessuna bibliografia, e tanto meno nessuna antologia potrebbe
ormai contenere il mare della Nuova Poesia Italiana. Nessun Ercole
dell’informazione e della critica potrebbe venire a capo di questa Idra dalle
mille teste». (Berardinelli 1984).
Altri, invece, continuano proprio a fare antologie. O alla vecchia maniera
elitaria, fino a volte alla loro parodia, come accade con Daniele Piccini e la sua La poesia italiana dal
Passo al punto che riguarda Poliscritture. La rivista comparsa nel 2005 è il tentativo di
alcuni singoli che, impegnandosi a fare
rivista e conseguentemente a fare gruppo - (fare rivista è in fondo
questo) - pensano di potersi misurare meglio e più da vicino con qualcosa in cui sono immersi. (Chiamatelo come volete: materia,
mondo, società, inconscio, moltitudine, altro). Certo, permangono scetticismi e individualismi anche in questo tentativo. E c'è sempre il rischio che la rivista si riduca a palestra (o a volte persino a ring) per
sterili risse. Né va taciuto che oggi siamo di fronte all’indebolimento dei
due modelli contrapposti e a loro modo classici della storia delle riviste novecentesche: quello
incentrato sulla forte personalità di un Autore e quello avanguardistico, più o
meno collegiale (dei futuristi, della
neoavanguardia).
Fare rivista, perciò, potrebbe
avere un significato positivo, soltanto se, nel costruirla, si riuscisse a farsi carico contemporaneamente della
crisi dell’io (a partire da quello dei singoli redattori), in modo da renderlo meno chiuso e narcisista, e della
crisi del noi, che resta superegoico, rigido, tendenzialmente burocratico e autoritario. Oppure a fare uscire molti dalle proprie
solitudini. O a spingere al confronto con altri/e. O a diventare scuola di
cooperazione, di messa in comune e
trasformazione di quello che, da soli, ci appare spesso immutabile ed eternamente
negativo. (Il che, però, non ci deve far negare o sottovalutare la dimensione solitaria e singolare, che è oggi - per ragioni storiche - propria di ogni ricerca; e non solo di quella poetica).
Poliscritture - lo dice il titolo - non è una redazione composta solo da poeti, poetesse o studiosi di poesia. Abbiamo ben presente (e da tempo) che poeti
e poetesse fanno cose molto diverse per gran parte del loro tempo (giornalismo, lavoro editoriale o
impiegatizio, insegnamento, altro ancora). E crediamo che tali attività non debbano essere occultate o messe tra parentesi. Siamo poi, per l'affermarsi della scuola di massa enormemente e disordinaamente cresciuti di numero. E il dilemma in cui ci dibattiamo potrebbe, essere
enunciato così: bisogna correggere l’elitarismo tipico delle istituzioni (università,
case editrici, riviste stesse) mirando a una sorta di elitarismo di massa (adeguato ai nuovi tempi di una società più
scolarizzata che in passato) oppure si devono costruire modi di comunicazione, nuove
istituzioni e nuovi luoghi di ricerca in una prospettiva il più coerentemente plurale?
Per finire, esprimo un po' dei miei desideri. Vorrei che
Poliscritture si impegnasse nell’approfondimento
della polisemia e specificità dei testi poetici contemporanei (della loro
forma, della loro bellezza), che diventi crocevia di incontri tra scriventi
sconosciuti (anche stranieri) in cerca non solo di un legittimo riconoscimento
per sé ma di nuovi strumenti interpretativi in cui collocare le proprie ricerche.
Di una nuova critica insomma, capace,
attraverso saggi, inchieste, seminari, di delineare un’estetica per una poesia dei
molti. Ma per far questo bisogna
che i grumi delle varie crisi (della poesia, della critica, della politica) si
sciolgano attraverso confronti serrati fra tutte queste diverse pratiche. Bisogna che i muri “immateriali”
(ma un po’ sempre materiali) che su certi confini sono stati costruiti vengano
smantellati.
Basta anche con lo snobismo
all’inverso, cioè della rivista che accoglie solo poeti “non famosi”,
“trascurati”. Attenzione sicuramento verso i molti, così come sono. Ma
sappiamo pure che il semplice inventario di testi e di nomi non basta. Bisognerà capire se questa “scrittura poetica di
massa” covi in sé qualcosa di liberatorio o se non si riduca - come molti con
un po’ di boria insinuano - a semplice sfogo, a
forme espressive epigoniche o velleitarie.
Poliscritture potrebbe avere, dunque, il compito di
rivista-cerniera tra dimensione lirica della poesia e dimensione sociale e
storica; e costruire un plurale non genericamente pluralistico o interdisciplinare, passare DAL PLURALE ALLA COOPERAZIONE IN COMUNE.
Insomma, il plurale è il problema da cui partire, non un punto d’arrivo su cui arroccarsi.
Come mappare e sviluppare il plurale, dunque? Come mantenere fluidi - come in vasi comunicanti - i livelli alti, medi o bassi
della ricerca in poesia, evitando monadismi, gruppettismi, cordate?
Solo un minimo accenno, infine, alla questione del
pubblico. Che poi è prossima alla questione della forma che la rivista deve/può
assumere: cartacea e/o on line? Problema
che implica un volontà di rivolgersi ad un pubblico “tradizionale” o “nuovo” o,
in altri termini, ipotesi più o meno contrapposte di continuità o discontinuità
col passato.
4 commenti:
Il panorama poetico del nostro quarto di secolo mi pone più di fronte a interrogativi che a certezze. Autori spesso sconosciuti e spesso inediti mi colgono di sorpresa e positivamente conquistano la mia attenzione, altri mi lasciano indifferente, anche tra i più conosciuti e proposti dalla critica e dall'editoria, o mi deludono. Esiste un perbenismo un po' altezzoso che svilisce le pagine social come mezzo di possibile divulgazione e scambio artistico di qualità. Io ho incontrato e incontro ottimi autori tra le pagine dedicate alla poesia. Ma non basta la sola frequentazione superficiale di pagine weeb per approfondire una conoscenza realmente capace di penetrare il presente della produzione poetica contemporanea anche criticamente.
Ben vengano occasioni di dialogo e riviste poliedriche che sappiano mettere diagio, confronto e ricerca tra i propri obiettivi. Sappiamo quanto sia difficile.
Sottolineo queste tra le frasi che ho colto come centrali nell'articolo:
- Come mappare e sviluppare il plurale, dunque? Come mantenere fluidi - come in vasi comunicanti - i livelli alti, medi o bassi della ricerca in poesia, evitando monadismi, gruppettismi, cordate?-
@ Simona
Purtroppo questa domanda del lontano 2007 (" Come mappare e sviluppare il plurale, dunque? Come mantenere fluidi - come in vasi comunicanti - i livelli alti, medi o bassi della ricerca in poesia, evitando monadismi, gruppettismi, cordate?-) è rimasta senza risposte chiare. E tutto il quadro mi pare peggiorato o più confuso. Non era/è un compito di singoli isolati.
Se nel 2007 scrivevi che le riviste mostravano che c'era "in corso una sorta di privatizzazione competitiva della ricerca poetica contemporanea. E che siamo spesso di fronte a riviste-monadi: alcune con finestre aperte solo sul territorio della poesia-poesia (quella della tradizione e con i suoi problemi specifici), altre con finestrelle appena aperte verso l’extraletterario. Tutte mi sono sembrate disponibili a mettersi in vetrina ma ben poco a stabilire confronti serrati e reciproci su quanto già fanno o sul da fare.", oggi sostituando al termine rivista il termine blog possiamo dichiarare che la privatizzazione si è compiuta e che le finestrelle si sono definitivamente chiuse. Se manca una sede autorevole e riconosciuta nella quale confrontarsi è assai probabile che la ragione principale stia nel fatto che nessuno la cerca.
@ Luca C
Sì, è come tu dici. Ma non bisogna arrendersi e dare per sconato che "le finestrelle si sono definiivamente chiuse". Qualcuna è ancora aperta, altre si riaprono e altre aprono adesso.
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