di Ennio Abate
Un equivoco forse resta nell’uso (utopistico?) che ho fatto finora del
termine «moltitudine poetante». Credo mi abbia suggestionato l’idea, afferrata di corsa (da Eluard, ad
esempio), che in questo scritto Fortini attribuiva ai surrealisti, profeti per lui dell’«avvento di una umanità
in cui non si sarebbero stati più poeti perché tutti lo sarebbero stati, perché ogni comunicazione sarebbe stata automatica, assolutamente spontanea e immediata in un mondo di liberi» (pag. 1275).
Ma davvero, a distanza di tanto tempo dai surrealisti, condividendo la loro tensione, ho dato ad intendere che "essere molti in poesia" significhi "tutti (facilmente o già) poeti"?
Non mi pare. Mi è chiaro infatti che i molti in poesia, di cui oggi parlo, sono un segno della crisi della poesia (o di una nuova crisi della poesia) più che il segno di una sua diffusione vitale e prorompente. E che bisogna proprio partire dalla crisi della poesia invece di parlare genericamente solo di "cattivi poeti" odierni, come se la poesia godesse ottima salute.
Fortini - (e questo suo scritto è del 1949!) - notava già una crisi della poesia in quegli anni di dopoguerra. Parlava di una «situazione paradossale delle tecniche e degli “stili”» e concludeva: «non
c’è più uno stile perché tutti hanno diritto di circolazione» (pag.1271). «Il nome di poeta» lo vedeva «disonorato non solo in coloro che
sono detti o si dicono poeti» ma nell'esaltazione esagerata di questa figura a causa del «gesuitismo della poesia e della critica di
poesia contemporanea, che tanto più avvilisce l’oggetto del suo culto quanto
più spesso lo maneggia e lo celebra» (pag. 1271). E, per contro, auspicava una «voce giansenista». La sua conclusione era drastica: «Non si tratta più di poeti; ma di difensori della poesia, di teoremi del poetico» (pag.1271).
Poteva parlare così perché era uno dei pochi che non aveva abbandonato la riflessione critica sulla religione e coglieva nel tentativo di «riaffermare, in un modo o in un altro, la sua [della poesia] vitalità perpetua e antica quanto il mondo», una tendenza per lui inaccettabile a identificare poesia e religione. E, cioè, a vedere «la tendenza perenne all'identificazione tra poesia e religiosità: poesia come sacro opposta alla prosa profana» (pag. 1272).
Più avanti parlava di «poesia-sacerdozio» (pag. 1273). E ricordava che «da un secolo fino a ieri la poesia e l'arte hanno sostituito la religiosità come "aroma" [nota mia: termine desunto da Marx, cfr. qui ]: a quel modo che della libertà si è fatta la "religione della libertà". Da centocinquant’anni e più, la poesia, sia nella coscienza dei poeti, quanto in quella dei lettori dei poeti, è stata rappresentata dal mito dell’isola (Rousseau), del viaggio (Baudelaire) della fuga» (pag. 1272). (Una visione del genere ritrovo
Leggendolo, si rafforza la mia insofferenza verso ogni esaltazione ingenua o ipocrita dei poeti e della poesia. (E il mio stacco dal
gruppo de Il Monte analogo è stato per me una svolta, un modo di rifiutare proprio questa visione della poesia-sacerdozio).
Può essere in sintonia con questi pensieri di Fortini l'aver pensato da subito che il Laboratorio dei moltinposia si debba rivolgere sia ai poeti che ai non poeti e che nessuna «situazione di privilegio al poeta» (pag. 1275) vada concessa? Credo di sì. E mi viene in mente la paradossale battuta di Giorgio Mannacio durante una conversazione del Laboratorio Moltinpoesia: «oggi, per essere poeti, bisogna odiare la poesia». Non so quanto sia vicina a queste considerazioni di Fortini ma la condivido.
Fortini scriveva anche che «si può passare accanto ad
un’opera di poesia senza prenderla sul serio», ma in altri momenti «possiamo
farla collaborare con noi, integrarla a noi stessi, al nostro passato, possiamo lottare con essa, spremerne tutta la verità
che possiamo assimilare e gettarne il resto» (pag. 1279). Mi pare un atteggiamento di grande libertà. Così pensando -scriveva - non
diventiamo automaticamente poeti o contemplativi,
come richiedevano ancora in quel dopoguerra gli idealisti, ai quali polemicamente replicava: «il poeta non genera poeti,
non genera chi ripeta all’infinito la sua eco, ma pone invece l’esigenza di un
superamento di quella forma: il passaggio dal formare al fare, dal poiein al prassein,
dall’estetica all’etica e alla politica» (1279).
E oggi? Che possibilità abbiamo di operare per un «passaggio dal formare al fare, dal poiein al prassein, dall’estetica all’etica e alla politica» (pag. 1279), esigenza fortissima nel 1949 e non certo solo di Fortini? Quale obiettivo dovrebbe essere posto alla moltitudine poetante?
Nota
Vergogna della poesia si legge in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003 (pagg. 1270- 1279)
1 commento:
Analisi nella sostanza ineccepibile. Ma contro la moltitudine dei "non-poeti ritenentisi tali", come li chiamo io, occorre tirare una linea tecnico-contenutistica; il che non significa essere elitari; meritocratici, semmai.
Posta un commento