martedì 12 dicembre 2023

Com’è nato il termine ‘moltinpoesia’

 


di Ennio Abate 
Ecco quattro tracce del passaggio dal discorso sugli scriventi di massa a quello della moltitudine poetante, poi moltinpoesia:

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2 ottobre 2001/ gennaio 2002
Da Ennio Abate, La poesia da lontano. Qualche ragionamento su Poesie e realtà 1945 - 2000 di Giancarlo Majorino in Esercizi critici. Letteratura e altro, gennaio 2002

"Un ultimo ragionamento: sui poeti moltitudine o gli  scriventi di massaIl cenno di Giancarlo Majorino al centinaio di poeti che in attesa di “consacrazione” (48) dovranno essere antologizzati tradisce, visto da vicino, una presa di posizione paternalistica e liberale pare una scivolata trascurabile specie in questi tempi dove contano solo i Personaggi, le Èlites. Da lontano, invece, il problema appare più importante.  All'ombra di poche fortezze corporative, che amministrano la cosiddetta Qualità Poetica, sono accampati miriadi di scriventi che sembrano poetare con gli scarti delle prime. È un brutto segno e si capisce lo sconcerto di un critico come Romano Luperini quando vede che “oggi si scrivono spesso poesie così come si cammina sui prati, o come si fa un qualunque lavoro specializzato”[i],  o di un poeta-critico come Majorino. Ma perché non si dovrebbe capire anche lo sconcerto di chi  non ha fatto in tempo ad infilarsi attraverso i ponti levatoi quando erano aperti o li vede arrogantemente sorvegliati oggi da certi cerberi editoriali venuti fuori anche dal ‘68?
Questa “proliferazione poetica... non s'attenuerà” (226), anche perché la verticalizzazione corporativa non s'è mai attenuata negli ultimi decenni. Ed è tutto il fenomeno della scrittura di massa che, assieme  ad un nuovo ripensamento della Poesia e della Letteratura di Qualità, andrebbe fatto coraggiosamente riemergere e non guardato dal buco della serratura di una disciplina universitaria.  Non basta lucidare alcuni nuovi criteri di  critica dei testi. Non basta l'allargamento della corporazione poetica o una maggiore inclusione di meritevoli, neppure in antologie spostate fuori dalla corporazione, come pare prospettare Majorino. 
Cosa vuol dire, piuttosto, per questi poeti-massa spostarsi? Il problema, comunque,  Majorino l'ha posto, apparentemente  ai margini del suo discorso generale. È proprio quello: “l'enorme rimanente giace nella penombra”; “e le ombre qui che fanno? Parlano le ombre? Pensano le ombre? Scrivono le ombre? La massa matassa dei muti e dei semimuti, dei senza cibo, degli accoltellatori per forza, quattro quinti del mondo, cosa fanno?” (364).
Le ombre: quelle della moltitudine poetante, quelle  dei semimuti, etc.  C'è qualcuno che saprà interrogarle e non scegliere solo le "migliori" o le più "presentabili" in Tv, all'università, nelle case editrici, nelle istituzioni cosiddette civili ma "nostre"


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5 giugno 2002
Brano di conversazione tra Ennio Abate  e Giancarlo Majorino:

E. A. - Esiste oggi una tendenza a fare indagini sulla poesia soprattutto negli immediati dintorni del critico o poeta  (al limite fra i propri amici o coetanei). Ti pare del tutto utopistico, invece, una ricerca come quella che vorrei tentare su un consistente campione di quasi sconosciuti scriventi poesia?

 G. M. - L’esigenza di scrutare davvero e non così impressionisticamente  questa massa di scrittura poetica è positiva. I testi però, che arrivano sul mio tavolo,  a volte sono poesie per modo di dire. A  volte sono delle comunicazioni poeticistiche. Questo un po’ dà fastidio. Non lo dico per una difesa corporativa (almeno, per quel che mi riguarda,io sono attento a ‘sta faccenda). Il fastidio nasce perché tante energie vengono a volte imbrigliate per cose che forse non sono le vere cose che si cercano.Tante volte son forme di solitudine, di assenza di comunicazione; altre volte anche di bisogno di esserci, di avere una presenza.Così  tutto diventa subito un po’ ambiguo: come se uno sognasse che entrando di lì, dalla scrittura in versi (che mi obbliga a tener conto primariamente di ciò che sento necessario e non meno della possibilità di dare forma a ciò), potesse venirne chissà cosa. Mi sembra che ci sia una domanda muta che è ancora più forte, una insoddisfazione verso la vita che si fa. E questa è una grande molla di cambiamento. Ma, per esempio, se uno senza saperlo ripete forme poetiche già collaudate come se fossero proprie, in questo vedo un’illusione, ma anche un’ignoranza sul fatto che il ricorso a sé, all’interiorità di sé, non dà maggiore autenticità. Il  ‘sé’ è pieno di condizionamenti: è solo lo studio accanito, il confronto senza paura con l’altro da sé che può aiutare.

 E. A. - Secondo te, questa massa di scriventi cadrebbe in queste trappole dell’immediatezza anche  se i poeti, i critici o le istituzioni che si occupano di poesia avessero un’attenzione più alta nei nei loro confronti e ne alimentassero la ricerca con iniziative più mirate? Tu hai detto una volta: io  presto una certa attenzione, ma poi preferisco leggere Dante, ecc. Ma così l’esplorazione verso gli altri (e i molti scriventi poesie sono “gli altri”…) non si riduce? Questo non fa problema?

 G. M. - Sai, un po’ io l’ho fatto (scelte, letture, manifestazioni, ma tieni conto della mia età e degli impegni che mi prendono interamente (lo scrivere anzitutto).. Proprio non ce la faccio a leggere tutti i libri di poesia che arrivano. È difficile fare un discorso in generale.  Credo che ognuno debba farlo concretamente in base al proprio tipo di vita.  Sono straconvinto che siamo tutti gravati da una frenesia folle, da un gremito non fasullo, vero. Con tutti gli amici che un tempo vedevo  adesso non riusciamo mai a incontrarci. La quotidianità di ciascuno, soprattutto in città, è diventata convulsa. Io faccio una lunga mattina di lavoro dalle cinque alle due. Se mi salta, già m’incomincio a innervosire. Poi il pomeriggio e la sera cerco di liberarmi, di non legger più, di fare un’altra cosa, di vedere gente. Io alle due, per dirti, non ho più voglia di legger niente, ma davvero: anche libri di persone che conosco, poeti veri. Sono semistremato. Allora questa curiosità legittima verso quello che fanno gli altri è  ancora più soffocata, se vuoi. Tieni poi conto che  pratico fonti scritte e fonti viventi. Mentre con le fonti scritte bazzico continuamente, ho come l’impressione che, al di là di risentimenti corporativi discutibili, al di là di certe ambiguità della cosa,sia difficilissimo spalancarsi con disponibilità a migliaia di sconosciuti. È difficile, perché che cosa spingerebbe a questo? Un letterato potrebbe anche analizzare che tipo di tecniche passano in questa produzione, ma la forma che ti arriva è quasi sempre una forma non pienamente realizzata. Mentre, invece, se vi fossero  studi attendibili e rigorosi che dicessero che cos’è questo fenomeno, li leggerei davvero. Ma fino a quando questo non c’è… Io non riesco a guardare neanche le antologie.. C’è una vera restrizione del nostro orizzonte di curiosità, di attenzione,  che tutti quanti proviamo. Non c’è la libertà, la disponibilità all’ascolto. E questo non  dipende solo da arroganza o saccenteria.

 E. A. - Ma, oltre all’esperienza di vita convulsa e ai condizionamenti materiali, fisici, a me pare che ci sia anche un certo tipo di cultura che è chiusa a questa esplorazione sui molti. La poesia, specie quella italiana, è sempre stata più pronta ad annusare aristocrazia piuttosto che plebe o popolo. Mi chiedo, allora, se non si sia consolidata una forma mentis culturale, rafforzata da un certo armamentario ideologico, per cui sei più spinto ad utilizzare il tempo di cui disponi  in una certa direzione (verso i “pochi ma buoni”) piuttosto che in un’altra (verso  i molti, di cui sotto sotto si diffida sempre).  Faccio un esempio:  in questa ricerca sto usando il concetto di moltitudine (poetante l’ho aggiunto io…), che ho ripreso da Spinoza, tramite letture di Negri, Virno,   e altri. Mi pare un concetto che m’incoraggia ad affrontare anche le difficoltà di una ricerca sulla realtà dei molti (nel caso gli scriventi poesie). Perciò l’ho fatto mio, malgrado riserve e diffidenze anche di amici con cui collaboro. Mentre se utilizzassi un altro concetto, che so: ermetismo, coscienza, minoranza, restringerei la mia proiezione verso i molti. Allora, c’è anche un problema di impostazione del proprio agire intellettuale. Se certi concetti venissero elaborati e poi usati e messi in circolazione, l’attenzione dell’individuo comune ma anche dell’esperto si riorenterebbe verso certi fenomeni trascurati. Quando c’era un certo tipo di marxismo, Asor Rosa si occupava di scrittori e popolo, no?

 G. M. - Sì, io penso che questa sia una tesi sostenibile. Bisognerebbe però portarla oltre. Noi siamo in grande difficoltà persino quando diciamo cos’è bello e cosa non lo è. «Poesie e realtà 1945-2000» mi ha causato difficoltà e su due fronti, che si ritengono opposti. Da una parte una certa guarnigione corporativa, lottizzata da modelli tradizionali, al seguito di rapporti di potere, dall’altra persone, magari in buona fede incompetenti (non sono pochi, difatti, coloro che chiamano poeti certi cantautori o semplici portatori di “poeticità”). C’è un equivoco di fondo, un problema che dovrebbe far parte di questo tuo corredo critico di attenzione  verso il fenomeno della nebulosa poetante, come tu la chiami. Da una parte c’è una domanda diffusa, che presuppone chiarezza comunicativa e accusa di oscurità e di aristocraticità letteraria una certa produzione poetica. Dall’altra parte c’è il richiamo:  fai il tuo mestiere, tu sei un poeta, non sei un critico che vuol diventare anche un praticante di lotta. Chiaramente qui tutti coloro che ritengono che la poesia sia da valutare in sé, nei propri valori, che ancora ci sono o ci dovrebbero essere, ti rimproverano che tutte le volte che esci da lì, entri nel  “sociologico”; e ti  immischi con cose che con la poesia non hanno niente a che fare. Ma, peraltro, è sbagliata anche l’altra posizione, perché ritiene che, se tu adotti la comunicazione e assumi dei contenuti seri, sei già a posto. Per arrivare ad una nuova definizione di estetica, a me sembra che si debba insistere su un punto comune e debole di entrambe: che è poi sotto sotto , se vuoi, l’ignoranza, la mancanza di criticità in atto, quella criticità che deve investire sia la poesia sia quello che c’è di rilevante nel mondo. Io sento non–criticità  in tutte e due le  parti. Allora, torniamo al concetto di moltitudine poetante e alla voglia d’indagarne la consistenza possibile nella realtà…..È vero che non bisogna essere esclusivamente orientati da lavori che portano già in una direzione. Però la faccenda ha come due nemici, non ne ha uno solo. E allora come la mettiamo? Se tu parli di «moltitudine poetante»  e la tratti come una grande massa di persone che scrive poesie, già lì ti viene l’obiezione: ma son poesie davvero? Perché, se non son poesie davvero, è una cosa; se sono masse enormi di persone che credono di scrivere poesie, la faccenda cambia. Si tratterà, allora,  di  «moltitudine poetante» tra virgolette, una moltitudine che comunica attraverso modi che crede poetici. Questo cambia tutta la situazione. Son davvero poesie? Non  lo so. Questo  non è un discrimine da poco. Se usi il termine «poetante», è come se dicessi che ci sono milioni di persone che scrivono poesia e la corporazione e altri non prestano attenzione. Sotto sotto la domanda è: non è una colpa?  Ma io chiedo: scrivono poesie o scrivono comunicazioni diaristiche, righe che ogni  tanto vanno a capo, che rifanno moduli poetici consumati. Si rientra allora nel vastissimo e generico campo delle comunicazioni (non in quello delle espressioni: niente male, solo che se le cose stanno così, il discorso critico deve adottare altri tipi di misurazione, per capire come sono fatti, cosa significano i testi in questione).

 E. A. - Sì, questo è un punto delicato, che mi pare di aver già colto. Infatti, per me il termine non dovrebbe far pensare unilateralmente a qualcosa di già esistente e neppure soltanto a questa massa di scriventi poesie. Voglio andare a vedere anche all’interno della poesia riconosciuta come tale e dei suoi testi (Questo dovrebbe essere un altro aspetto indispensabile del lavoro critico e storico da affiancare a quello dell’inchiesta sulla «moltitudine poetante» che sta partendo…). La domanda iniziale in tale senso potrebbe essere: si percepisce nei testi dei poeti riconosciuti la presenza della moltitudine in generale e magari anche qualche “effetto” su di essi  riferibile alla nebulosa o moltitudine poetante? Non vorrei separare l’analisi del fenomeno a livello sociologico da quello dei testi prodotti anche dai poeti riconosciuti come tali. Vorrei cercare tutte le possibili e spesso trascurate interferenze. Anche nei poeti riconosciuti trovi, se vuoi, “aspetti non poetici”, non ben formalizzati, ecc… Si individuerebbero così dei punti  di raccordo fra i due poli, che oggi sempre più divaricati, e cioè fra la pratica di massa degli scriventi poesie e quella dei poeti riconosciuti. Dovrei riesaminare un certo tipo di poesia che ha accolto, magari anche solo a livello di citazioni, certe istanze dei molti. Che so, il “basso” di Montale, un certo parlato quotidiano che tu pure hai usato…..

G. M. - Sì, se non entri in questa  problematica, la cosa che ti proponi di fare sembra benevola a priori verso la massa degli scriventi a cui sembri dare una sorta di discutibile patente poetica. Questo è uno dei punti da affrontare. Se  i tanti che  credono di scrivere poesie, fanno della “poeticistica” è un guaio. O trovano delle persona che glielo dicono  o diventa una specie di compensazione… 

Oggi in 
http://www.poliscritture.it/2023/03/02/poesia-moltitudine-esodo/



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marzo 2003
Da Moltitudine e poesia di Ennio Abate marzo 2003 su Il Monte Analogo n. 1, febbraio 2004 

   Può allora la poesia – oggetto di questa mia riflessione – contentarsi di uno sventolio periodico di crestomazie, di distinguo fra maggiori e minori, di canoni, di cooptazioni e favoritismi di cordata? Di operazioni cioè che, in sospetta sintonia con i sistemi elettorali in politica o le quote di capitale proprietario in economia, impongono alla ricerca poetica patteggiamenti che ne tarpano lo sviluppo o le impongono una clausura solo apparentemente nobile?
  Di fronte a questo stato di cose, il fenomeno della scrittura poetica dei molti, spesso presentato come una boriosa avanzata di un Quarto stato scrivente senz’arte né parte, una prova per alcuni dell’attuale «declino della poesia», può invece rappresentare un segno di vitalità e un tema capace di rinnovare l’asfittico dibattito sulla poesia, arenatosi su posizioni nostalgiche, resistenziali o di ritorno al valore assoluto di una poesia fuori dal tempo.
  Infatti, malgrado limiti estetici, ambiguità pratiche e rischi di derive privatistiche, rispetto alla chiusura corporativa, la nebulosa poetante ha il vantaggio di essere dinamica e legata alle forme di lavoro e di vita dei molti. Certo,  non è chiaro se un tale legame  sia consapevole e alimenti in profondità la ricerca dei molti scriventi poesie. Tuttavia la loro diffusa presenza  nel più ampio corpo sociale offre una possibilità: creandosi delle condizioni favorevoli e non solo nel campo della poesia, questi molti potrebbero esprimere, più direttamente e da vicino, bisogni, desideri e problemi finora rappresentati e filtrati da un lavoro poetico prezioso ma pur sempre di pochi. 



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2003- 2004. Una prima inchiesta sulla moltitudine poetante

 Questa inchiesta nasce da un gruppo di lavoro che si propone di far uscire dal vago la ricerca poetica che tanti conducono in solitudine o in piccoli gruppi di amici. È un fenomeno complesso, ambiguo e carico di potenzialità positive, sul quale vorremmo riflettere e confrontarci con gli individui concreti che come noi, più o meno consapevolmente, ne sono gli attori. Da qui la molteplicità dei temi da indagare e la meticolosità sociologica delle domande, di cui un po’ ci scusiamo. Lasciamo però ampia libertà di risposta a quanti – amici/he, sconosciuti/e – decideranno di collaborare con noi: se troveranno troppo gravoso rispondere a tutti i punti o a tutte le domande, potranno scegliere quelli o quelle che più sollecitano la loro riflessione. Un’unica raccomandazione: la risposta ad ogni singolo punto non dovrà superare all’incirca le 2000 battute (due paginette se scritte a mano). Ovvio il motivo: il gruppo di lavoro si propone di entrare in una relazione alla pari e sperabilmente duratura con quanti risponderanno e non può essere sommerso da una valanga di parole che impedirebbe ogni possibilità di un serio dialogo.

[Ennio Abate e Franco Tagliafierro (INOLTRE), Paolo Rabissi (LA MOSCA DI MILANO),  Lelio Scanavini (IL SEGNALE), Adam Vaccaro (MILANOCOSA)]

 Oggi in: https://moltinpoesia.blogspot.com/2023/03/moltinpoesia-appunto-6-piccolo-bilancio.html                                                                                                                                                                                

 *Nota
Gabriele Pieroni, uno dei partecipanti al Laboratorio Moltinpoesia nella prima fase, suggerì
 per primo il termine ‘i molti in poesia’, da cui ‘moltinpoesia’.



[i] L'osservazione è tratta da un'intervista a Luperini di Massimo Raffaeli (il manifesto 31 marzo 2001) a proposito di un recente convegno senese, Genealogie della poesia nel secondo '900, a cura di R. Luperini e M.A. Grignani, Pontignano 23-25 marzo 2001. In esso, oltre all'elenco dei sintomi esterni, immediati e ormai ben noti, dello stato di crisi della poesia italiana nel secondo Novecento, e al riconoscimento di una certa vivacità della ricerca poetica in corso, il problema della moltitudine poetante è affrontato col "bastone" del canone. A me pare che questi studiosi non vogliono misurarsi a fondo con il fenomeno moltitudine poetante o scriventi di massa.  Ripercorrendo, per suo conto  e lateralmente rispetto alla critica letteraria universitaria, lo stesso arco storico, Majorino arriva  anch'egli,  nella riflessione sull'epoca del gremito, a questo scoglio della “novità più che ventennale di una crescita impressionante di scriventi versi” (226), ma lo pensa, purtroppo, solo in termini di "aggiungiamo qualche altro posto a tavola". 

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