sabato 14 luglio 2012

Giuseppe Cornacchia
Su alcuni problemi della poesia d'oggi


Van Dongen, Clow

Per incoraggiare il confronto sui problemi della poesia d'oggi pubblico e apro la discussione su questa risposta ad  un questionario del 2001 della rivista Atelier. E' di Giuseppe Cornacchia, fondatore e co-gestore del  blog nabassar - letterature ed arti . [E.A]

La questione



"Ci si è lamentati, di recente, di una chiusura della poesia nel privato, ma di che cosa la storia ci chiede testimonianza? Ci si è anche preoccupati del pubblico della poesia, ricadendo in sociologismi viziosi e perdendo di vista la responsabilità del poeta che è forse rivolta, anzitutto, all'oggetto del proprio discorso. Allora, che cosa ci ispira poesia oggi, e perché? E che cosa significa essere ispirati? E come si resta (nella lingua e nello stile) fedeli all'avvenimento di cui ci sentiamo responsabili? 
È sempre più diffusa la convinzione che il Novecento sia prossimo alla fine, se non già esaurito. Sei d'accordo con la realtà di questo passaggio? E quale poesia sta soppiantando quella novecentesca? Quali scelte nuove sarebbero, secondo te, alla base della svolta? Dal Simbolismo in poi, e in un certo senso per tutto il Novecento, abbiamo assistito all'annuncio di un evento assoluto, come se il quid da sondare fosse la creazione in sé. Superare il Novecento significa riferirsi a questa tradizione, magari sviluppandone le istanze in modo finalmente costruttivo, oppure volgersi ad altre linee forti, ad esempio a certe esperienze progettuali oppure 'civili', per inaugurare (o tornare a) una poesia più inerente alla Storia?

Quali scelte linguistiche e stilistiche ne conseguono? Da più di un ventennio, per esempio, si manifesta una tendenza 'trasversale' alla restaurazione di metri tradizionali e forme chiuse, che coabita con una spiccata diffusione di generi nuovi come il poema, il poemetto narrativo ecc. Nella lingua della poesia contemporanea, inoltre, è sempre più cospicuo il ricorso all'italiano medio, ma persistono forme di ampia disponibilità plurilinguistica. Quali sono le soluzioni più congeniali della poesia di oggi? E se tutte fossero sensate, dove va rintracciato il criterio discriminante del quale si dovrebbe servire la critica?
Si richiede una risposta personale, dal momento che non si può delineare alcun dover essere della poesia che non risulti, in quanto tale, estraneo all'esperienza di ciascuno; ma si chiede anche la tensione verso un'opera comune, un orizzonte di senso condivisibile, un'esperienza comunicabile che si tramuti in storia."
(Marco Merlin, condirettore della rivista "Atelier" e moderatore del convegno, luglio 2001)......


Premessa



Compito della critica è riconoscere il dono poetico, dove c'è. Volerci intervenire, influire, plasmare non le compete. La critica militante non fa pensiero né poesia, ma storia e politica; non è un male ma non credo sia il momento adatto: non ci legge nessuno, socialmente abbiamo peso nullo, soldi ne girano pochi o niente. È ridicolo fare camarille in questo ghetto. Invito i poeti a non prostrarsi al giogo di chi vuole incasellarli scrutando da una lente, qualunque essa sia. Invito la critica a rispettare il dono senza strumentalizzarlo: non ha competenze sufficienti, né la forza dei numeri. Una generazione di poeti intraprendenti, questo serve, persone consapevoli della necessità di stare fuori dal proprio orticello per imporre la forza della poesia (contro i suoi surrogati) senza mediazioni e asservimenti; poi, magari, proporre pensiero. Basta con la figura del poeta romantico o neoromantico portatore di tutte le sfighe del mondo (in primis la propria); basta con il poeta-professorino tiranno di se stesso e dei suoi malcapitati allievi. Non sarà originale parlare di poeta-uomo d'azione ma l'alternativa è l'afasia, la calimerizzazione, la chiusura in un mondo privo di forza d'urto. Un piagnisteo. La rivoluzione si fa da dentro il sistema, non abbaiando alla luna fuori da eterne zone rosse. Pragmatismo, insomma, farsi largo in questa vita. Poi ci divideremo la torta, ma prima prepariamola... 
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1



Mi pare malposta la questione dell'originalità e dell'innovazione. Il poeta non propone ma rende quello che il mondo già dice, traducendolo a chi non capisce o non ha la sensibilità per distinguerlo. Più che di "ispirazione" parlerei di "sensibilità": il poeta vede prima di altri, poi magari stabilisce relazioni nel contesto spazio-socio-temporale. Questa seconda fase del fare poesia non è diversa da altri lavori d'ingegno: i più bravi "anticipano", nel senso che fiutano il non ancora noto e lo esprimono con i loro strumenti. L'originalità, l'avanzamento, l'innovazione sono il servirsi correttamente di strumenti raffinati dall'uso che se ne è fatto in precedenza, o del tutto nuovi (scaturiti da innovazioni digerite). Non portano avanzamento immediato poesie visionarie, di grande e pura potenza immaginativa, ma non si possono negarne legittimità e valore: l'albatro sta bene in ogni tempo. 
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Il discorso poetico non è metafisico: il "dono" è talento linguistico-verbale unito a una spiccata empatia con i fatti del mondo; per cavarne poesia occorrono capacità di sintesi e, soprattutto, discernimento critico nello stabilire le giuste relazioni (anche in ordine di importanza) in quanto si esamina. L'opera comune ha il compito di calibrare gli strumenti, migliorarli, crearne di nuovi mano mano che la critica registra innovazioni. E di dare una interpretazione degli esiti poetici, proporre relazioni che possono essere o meno condivise. 
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2



Ho un'idea laica della poesia e non porto "testimonianza". Mi faccio poeta di quello che penso (e sento) quando ho voglia di scrivere in versi e mi faccio responsabile di un esito di piena resa esperienziale. Mi propongo di scrivere a più livelli senza sacrificare una linea conduttrice di discernimento critico e lucidità intellettuale. I temi, le idee contingenti, le spinte ideologiche, i particolari stati d'animo, le pulsioni emotive hanno valore coreografico. Per ora non ho intenzionalmente scritto per fare "cultura" e di questo chiedo conto alla critica. Non milito in nessuna corrente e non ho idoli da glorificare, né mi attira l'idea di sacro quando va oltre una dimensione strettamente privata dell'individuo per incarnarsi in forme antitetiche al suo presunto Essere.  
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3



Dal punto di vista del pensiero, sono epistemologo di versante analitico. Wittgenstein e Popper hanno distrutto le pretese neopositiviste della scienza, Quine ha cercato di ripristinarne qualcuna. Rorty e Putnam sono gli ultimi di quelli che si interrogano su come stabilire chi ha ragione e torto, nelle controversie umane, e se proprio sia indispensabile procedere secondo questo schema. Io confido in un approccio "collaborativo": messe in chiaro le questioni, ognuno può dare un contributo attingendo agli strumenti suoi e a quelli messi a comune dal lavoro collettivo. Un modo di operare simil-scientifico che lascia all'artista libertà d'espressione ma ne verifica gli esiti e le intuizioni, padroneggiando gli stessi strumenti. Esempio: il poeta dice: "Ho visto che in tali situazioni succede questo"; la critica risponde: "Acclaro / non acclaro l'esito estetico". Poi, eventualmente: "Riconosco / non riconosco la tua intuizione perché la vedo / voglio così". 
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4 - Poesia dopo il Novecento. Brevi considerazioni



4.1 - Negli ultimi quattro-cinque anni vedo una riscoperta dei localismi, aggregazioni regionali (quando non provinciali) fuori dei circuiti editoriali maggiori. Vedo anche una fioritura di aggregazioni telematiche, specie giovanili, di livello medio-basso e amatoriale. Le migliori di tali iniziative andrebbero valorizzate, fatte entrare in un circuito più evoluto, anche considerando che molte sono del Sud Italia, spesso isolato ma affamato di idee e voglioso di partecipare. Si sono grandemente allargate le possibilità di muoversi fuori da ogni schema preordinato, anche nella vita quotidiana, a prezzo di perdita di complessità e di capacità di mettere in relazione idee ed eventi assegnando pesi specifici coerenti. Hanno perso valore le scale consolidate e se ne cercano di nuove; qui uno dei compiti di chi vuole fare cultura. 
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4.2 - A livello di poesia riconosciuta a livello nazionale, non ci si discosta dall'andamento suddetto. Credo si debba guardare attentamente all'ultimo trentennio, partendo da lì tanto la nostra esperienza vitale quanto una più decisa dissoluzione di quelle scale di riferimento. Mi pare sia qui il ritorno alle forme chiuse, che è forse un effetto di questa "paura del non più classificabile", del timore di perdere la propria identità. Una reazione conservatrice, più che una proposta alternativa. 
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4.3 - Salta all'occhio in molte delle pubblicazioni periodiche o antologiche che ho consultato il livore dei piccoli clan di provincia all'assalto delle Grandi Case Editrici, piovre inibenti "vera inventiva". In genere sono non-editi frustrati. Ogni cricca rivendica il diritto di esistere e, quando manca del tutto il senso del pudore, avoca a sé il Dono, la Verità. Questo è un nefasto effetto dell'assoluta mancanza di cultura razionale (se non di educazione civica) di questo paese, unita a ottusità e ristrettezza mentale. Dando un taglio a simili pietosi gracidii, oggi atteggiamenti di questo tipo non sono scusabili, essendo disponibili a basso costo strumenti per informarsi e acculturarsi, potendo altresì contare sul confronto con idee della più disparata provenienza ed estrazione, assicurato quantomeno dalla frequentazione di Internet, che non impone fruizione passiva e riduce le distanze (mi riferisco all'e-mail e alla possibilità di accesso a materiale accademico o comunque di valore riconosciuto).  
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4.4 - Più in generale, venendo al nostro specifico, non credo all'utilità di "distruggere" i padri (i cinquantenni & oltre al potere nelle Grandi Case Editrici). Chi se ne frega... gli strumenti per metterci nella condizione di superarli li abbiamo. Invece di cercare approvazioni che fisiologicamente non dovremmo avere (a meno di essere fenomeni in qualche modo spendibili come prodotto nuovo rispetto al già in circolo, freak o bimbi prodigio), e che probabilmente non fanno più testo in un mondo come quello in cui ci tocca vivere, diamoci da fare nel comporre opere di fronte alle quali non si possa che tacere. Se il genio non si forza, che almeno si tirino fuori prodotti che dimostrino serietà, capacità d'analisi, voglia di stare nel mondo. Sarebbe già tanto. Del resto siamo fortunati: questo paese non vive periodi di emergenza tali da imporre rigidi modi di essere e di fare, anzi, è un inno allo sfrenato anarcoidismo fai da te. Possiamo dunque tranquillamente allacciare contatti con chi ci pare, a costo zero o quasi.  Chiediamo ai nostri amati-odiati padri se appena trent'anni fa era possibile, se avevano questa coscienza...  
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Insomma, lasciamo stare il passato: chi non ha saputo emergere s'arrangi (o attenda qualche occhialuto ripristinatore dei Veri Valori, prima o poi...); noi invece guardiamo a cosa c'è di nuovo, da tenere d'occhio. Studiamolo, e se non ci piace comunque rispettiamolo: di certo scrivere versi non arricchisce e la gloria post mortem è una sciocchezza.  
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4.5  Magrelli 
Per mio percorso formativo rispetto alla direzione della sua poesia, non negherei un cenno a Valerio Magrelli. Ignorando le presunte sliricizzazioni del discorso (che a mio parere non esistono poi tanto), quello che va rimarcato è l'occuparsi con linguaggio abbastanza neutro di argomenti di attualità comune, comunissima. Questo è un modo per avvicinarsi al pubblico: chi compra un libro di Magrelli capisce quello che c'è scritto, ha da riflettere (anche se non ne ha tutti gli strumenti) e, al minimo, guarda astrattamente a oggetti che dà per scontati. Si potrebbe spingere molto su questo versante, ma servirebbe gente capace di muovere "dal di dentro" (che conosca come funziona materialmente la cosa), non questionando astrattamente da lontano. La tecnica non si capisce se non con gli strumenti in mano a istupidirsi per ottenere un certo risultato entro un certo tempo. Poi se ne può parlare. 
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Manca del tutto, inoltre, una poesia scientifica. Mentre tecnici che scrivono se ne trovano (sebbene spesso risultino piatti e senza spessore), scienziati-scrittori si danno spesso alla narrativa in modo "esplicativo", disegnando scenari usa e getta di evidente ingenuità. Esiti letterari richiederebbero ben altra consistenza.  
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Quello che voglio dire è che nel 2001 si fa più strada rivolgendosi a vecchi classici (come Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll) e che, comunque, una letteratura (poesia o narrativa) scientifica o tecnico-scientifica è ancora lungi dall'esprimere risultati apprezzabili. In poesia lo stesso Sinisgalli non mi pare scrivesse da poeta, quanto piuttosto da ingegnere-che-si-diletta-in-versi. Magrelli è un buon pioniere e merita molto, almeno nell'aver dimostrato che è possibile scrivere "metallico" (anche se lui in fondo non lo fa, poiché è umanista, e non ha la pesantezza, la "piattezza" del discorso puramente deduttivo). I suoi esiti sono notevoli quando elimina del tutto la componente umana dal discorso. Basti un cenno a questa poesia, tratta da La forma della casa, in "Nature e venature": 
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III.
La cucina è gremita di oggetti
e veramente può sembrare un bosco.
Ogni pianta è al suo posto
sorge là dove è messa
con pazienza infinita riposa.
Pensate alle cose
alla flora
metallica delle posate. 
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Questa è una situazione limite della disantropomorfizzazione del discorso magrelliano. Non è poco: geometria, stilizzazione del vivente (mascherata da vitalismo; del bosco, delle piante). Si potrebbe andare oltre, se l'autore riuscisse a metallicizzare l'ambiente domestico e caldo della cucina, senza devitalizzarlo, solo comprimendone l'energia. La si modifichi a questa maniera: 
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In cucina s'addensano oggetti
che realmente appaiono bosco.
Ogni pianta è ferma al suo posto.
Là sorge, dove è messa
con pazienza infinita riposa. 
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A orecchio e sensibilità tecnici la prima parte assume un'altra consistenza, non perdendone troppa per un letterato, che magari avvertirà indurimento e cantilenazione, ma senza danni sostanziali, senza omicidi alla resa.  
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Conclusione



Al di là delle evoluzioni individuali, mi auguro che la poesia guadagni posizioni nel dibattito culturale degli anni a venire. Il nostro impegno deve consistere nello spenderci anche fuori da questo ambito di nicchia, cercando di guadagnare visibilità e consenso senza sgomitare né "trafficare" (alla lunga ci screditeremmo). Per quel che mi riguarda proverò a realizzare quanto accennato in questo intervento sviluppando intenzionalmente una poesia parimenti fruibile (possibilmente di spessore letterario) da scientifici e umanisti. Sto lavorando a un libro, in questo senso. 
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Giuseppe Cornacchia, 29 agosto 2001, Pisa ......

24 commenti:

Anonimo ha detto...

Fin troppo chiaro, chiarissimo. Questa sicurezza mi impressiona e mi lascia anche perplessa. Non so , manca proprio il dubbio che scuote le coscienze . Per quanto riguarda Magrelli...io vorrei dire qualcosa di diverso, ma non lo faccio, non reggo al confronto con Giuseppe Cornacchia, ma forse qualcuno di noi saprà farlo al posto mio. Emy

gianmario ha detto...

Mi meraviglio un poco trovare tracce di questa annosa questione negli scritti, vecchi di due lustri abbondanti, di Marco Merlin e dell’amico Beppe Co. Rileggendoli, non mi trovo né con le obiezioni di Merlin né con alcune prese di posizione di Beppe. Le prime soprattutto, rappresentano, a mio avviso, una sorta di sguardo rovesciato e mi spiego.
a) Non è la poesia a identificarsi nella storia, ma la storia a identificare ex post che cosa sia poesia o non lo sia. Molti dei poeti che oggi vanno per la maggiora, fra pochi anni saranno dimenticati e molti che oggi sono invisibili o quasi, domani saranno additati come i veri innovativi cantori della nostra epoca. La cosa patetica che vedo, oggi, è la corsa all’innovazione linguistica e non la corsa all’innovazione poetica, come se la lingua fosse “la poesia”, ma non è così: la poesia è pensiero poetico e la lingua non è che strumento, uno strumento limitatissimo che viene soppiantato dal tempo. C’è troppa poesia che parla a se stessa, poesia di poesia e vanità, parola di parola e flatus vocis, abilità tecnica e basta. Quasi tutte le composizioni musicali del ‘700 sono meraviglie di perfezione formale e di stile, ma senza Haydn, Mozart, Cimarosa, Scarlatti e pochi altri (lasciamo stare Bach, che ha un linguaggio non ancora settecentesco), la musica del settecento sarebbe più o meno da buttare, perché è incredibilmente morta nella sua leziosità. La poesia di oggi mi rammenta questa associazione. I bravi poeti ci sono (di forma e contenuti) ma non si vedono. La forza della “koinè” linguistico-espressiva è meno opprimente che nel settecento, ma questo non è un male.
b) in virtù di quanto sopra, diamoci una calmata e cerchiamo quale sia la poesia che ci rappresenta come era, che dice quello che soltanto la nostra era può dire. Un po’ quello che scrive Beppe: “Compito della critica è riconoscere il dono poetico, dove c'è. Volerci intervenire, influire, plasmare non le compete” La responsabilità del poeta è quella di cantare quello che del suo tempo è valido per tutti i tempi, sia in rapporto al passato che in rapporto (ipotetico) col futuro, in ogni contesto (lirico, civile, satirico, elegiaco, epico, religioso, amoroso, erotico, ecc.). Il compito del critico è scoprire il respiro dell’epoca nei versi del poeta, e dunque la genuinità, l’aderenza alla vita di questi versi, non di stabilire a tavolino, a priori, che cosa debba essere la poesia del futuro: questo soltanto il futuro ce lo potrà dire, e non certo un futuro prossimo. E, soprattutto, non dimentichiamo mai che a fare la poesia sono i poeti, non i critici. Il critico, militante o accademico, arriva sempre in seconda battuta, per riconoscere (krinein) distinguere, mettere in evidenza, non per decidere e sentenziare e giudicare. Tutti sappiamo giudicare quando abbiamo gli elementi di giudizio: compito del critico è mettere in evidenza questi elementi, non di sottrarre il ruolo al lettore che, a mio avviso, è l’unico che possa decidere se quella poesia vale o non vale (come al tempo dei greci e dei romani).
c) e, a questo proposito, il criterio di validità di un’opera dovrebbe essere diverso, perché, a mio avviso, è molto più attendibile un’opera letta da cinquanta persone e apprezzata da quarantanove che un’opera letta da mille e apprezzata da cinquecento.
d) Infine, è un falso problema quello di porsi come obiettivo di “superare” il novecento. E perché mai e, soprattutto, che cosa significa davvero? Che i moduli espressivi e linguistici si coagulino intorno a una certa modalità, quello che sopra ho chiamato forse impropriamente “koinè”? No grazie. Non deve essere questo fattore a “novecentizzarmi” o “duemilizzarmi”, ma la genuinità e la verità della mia poesia. Se resto, come poeta, non deve importarmi nulla. Una cosa sola conta: essere veri, con se stessi, prima di tutto. E, in subordine, amare la lingua e adattarla agli scopi espressivi di questa verità, per quanto è possibile. Il poeta deve essere testimone di una sua verità, una sua poetica visione del mondo. Il resto è solo miraggio.

Anonimo ha detto...

Ringrazio Ennio Abate per l'attenzione e per aver ripescato questo articolo, Emy e Gianmario per i commenti. E' interessante fare un bilancio ad undici anni di distanza. All'epoca non avevo scritto nulla, la "forma" era solo pensata e abbastanza seccamente, come scrive Emy. Sono seguiti un sacco di esperimenti propriamente letterari, qua e la' segnalati ma di scarso richiamo comunitario.

In effetti sono andato per la mia strada e pace. Se dovessi considerare questo articolo come scritto da un altro fuori di me (quale in effetti era il Giuseppe Cornacchia del 2001), penserei: "Accipicchia, il giovanotto! Vediamo cosa fara' concretamente." Questa fu grossomodo la reazione dell'ambiente letterario e conobbi un sacco di gente.

Adesso sono stanco e davvero poco interessato alle "cose", che invece sono il perno su cui Ennio Abate investe molta energia anche letteraria, motivo per cui credo abbia ridato luce a questo scritto. Viene un tempo nel quale le visioni di 10-20 anni prima trovano conferma nei fatti, ma noi siamo gia' passati oltre. Questo e' il caso.

Ringrazio di nuovo per l'attenzione e auguro buon proseguimento a tutti. Seguo questo spazio da qualche mese, specie le proposte poetiche. Come scrivevo ad Abate, questa vostra aggregazione mi sembra un kolkhoz e la rispetto nei modi e nella forma. Una presenza vera, come scriverebbe Lucini, nell'internet letterario contemporaneo. Tanto basta.

Saluti. Giuseppe Cornacchia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Devo dire la mia a questo punto.
Visitando il blog nabassar- letteratura ed arti (per me notevole), mi sono imbattuto casualmente in questo questionario e nelle risposte stringate e incisive di Giuseppe Cornacchia, che conosevo come il GiusCo per esserci incrociati sul Web in qualche occasione.
Malgrado l’autore oggi sembri rinnegare (o distanziarsi) dalle sue risposte risalenti al 2001, mi pare importante rifletterci su. Anche per capire meglio cosa egli oggi non condivida più di quel che scrisse. Lo dico perché ho una visione della storia molto meno postmoderna di quella oggi di moda, rileggo spesso testi del passato e anche scritti miei vecchi di decenni, perché a distanza di tempo permettono altre riflessioni, che al momento in cui nascono sono impossibili.
Perciò aggiungo ora questi miei appunti:

1. Le domande di Marco Merlin mi paiono abbastanza generiche e nate - credo - da una certa diffidenza verso i temi su cui si concentrava il dibattito di quegli anni. Ma restano puntuali. Forse che non c’era, non c’è oggi, da valutare il significato di «una chiusura della poesia nel privato», della composizione del «pubblico della poesia» (sì, dal punto di vista sociologico, che io non disprezzo), della “responsabilità” del poetare?
La lettura distanziata permette di riepilogare quantomeno problemi tuttora aperti e che a me paiono ancora oggi trattati in modo confuso: siamo davvero «oltre il Novecento»? che tipo di poesia è quella che si è andata facendo nel frattempo? c’è bisogno di una “progettualità” ( magari “civile”, con evocazione del fantasma “poesia civile”)? che legame con la Storia (ancora con la maiuscola per Merlin)? ecc..

2. Nelle risposte di Cornacchia noterei che:
2.1. mi pare (felicemente) contraddittorio svalutare la funzione critica, proprio nel mentre la si esercita lodevolmente rispondendo alle domande dalla rivista.
2.2. «riconoscere il dono poetico» è un’affermazione - esagero un po’ - che incita a un atto passivo-contemplativo, abbastanza neutro (e, secondo me, nessun lettore lo è o può esserlo mai veramente).
2.3. invitare i poeti a «non prostarsi al giogo di chi vuole incasellarli scrutando da una lente» o sostenere che « La rivoluzione si fa da dentro il sistema, non abbaiando alla luna fuori da eterne zone rosse. Pragmatismo, insomma, farsi largo in questa vita» è, in fondo, una posizione politico-filosofica (legittima) contro altre posizioni. Perché sono convinto che «storia e politica» entrino in modi complessi (tutti da indagare) in poesia, che non è fuori da tali dimensioni.
2.4. pienamente condivisibili sono gli inviti “etici” (ma in fondo anche “politici”) a non «fare camarille in questo ghetto», a non fare gli sfigati neoromatici, ecc.
2.5. particolarmente apprezzabile (dovrei aggiungere: purtroppo) è la sottolineatura della laicità della poesia, ma la materia della poesia (temi, idee, ideologie, emozioni) non è riducibile a un valore meramente «coreografico».
[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


2.6 saggia e pacata è la scelta di lavorare da buoni artigiani (« diamoci da fare nel comporre opere di fronte alle quali non si possa che tacere»). (Anch’io nella mia tesi 3 ho detto «. Essere molti in poesia è soprattutto essere laboratores di poesia (essere in laboratorio), più che oratores della Poesia sacerdotale o bellatores della Poesia d’avanguardia»: http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/06/ennio-abate-una-riflessione-per-la.html).

2.7. l’eccessiva fiducia nella libertà concessa dalla comunicazione in Rete (Possiamo dunque tranquillamente allacciare contatti con chi ci pare, a costo zero o quasi»).

2.8. Su Magrelli (cartina di tornasole; aspetto le punture di Giorgio Linguaglossa!) Cornacchia
vedeva un merito dove in realtà per me c’è cancellazione della storia e appunto una sua riduzione all’attualità («quello che va rimarcato è l'occuparsi con linguaggio abbastanza neutro di argomenti di attualità comune, comunissima»).

2.9. l’ipotesi di una poesia scientifica non è da prendere sottogamba (ne avevamo tentato di parlare anche su questo blog in un confronto con Roberto Maggiani: http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/04/discussione-ennio-abate-e-cosi-facile.html

[Fine]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Gianmario:



« La responsabilità del poeta è quella di cantare quello che del suo tempo è valido per tutti i tempi, sia in rapporto al passato che in rapporto (ipotetico) col futuro, in ogni contesto (lirico, civile, satirico, elegiaco, epico, religioso, amoroso, erotico, ecc.). Il compito del critico è scoprire il respiro dell’epoca nei versi del poeta, e dunque la genuinità, l’aderenza alla vita di questi versi, non di stabilire a tavolino, a priori, che cosa debba essere la poesia del futuro: questo soltanto il futuro ce lo potrà dire, e non certo un futuro prossimo. » (Gianmario)

Detti così, i compiti (o le responsabilità) dei poeti e dei critici restano tanto vaghi e generici da lasciare le cose come stanno e poi alla fine si vedrà.
È quasi un *laissez faire* del liberismo in poesia. Non dissimile da quel «che cento fiori crescano», cui invitò Gianni D’Elia qualche anno fa, quando c’erano ancora in giro i giovanotti di «Calpestiamo l’oblio».
Come fa il poeta a decidere di « cantare quello che del suo tempo è valido per tutti i tempi»? Lo capisce da solo? E il critico come fa a «scoprire il respiro dell’epoca nei versi del poeta»?
Nessuno pretende di « stabilire a tavolino, a priori, che cosa debba essere la poesia del futuro», ma lasciando il poeta a cantare (e poi perché solo cantare? è un uccellino?) quello che egli crede valido per tutti i tempi e affidando al critico un compito quasi da mago (o da specialista dei polmoni di un’epoca) - non si cava un ragno dal buco; e la discussione veleggia verso spiagge incerte o noiose.
Non è vero che a fare la poesia sono «solo» i poeti. E con questo non dico che la facciano i critici, sentenziosi o meno. Né mi pare risolutivo affidare l’operazione del riconoscimento a un eventuale “popolo di lettori” (attenti al grillismo anche in poesia!).
I modi fare la poesia e i criteri per giudicarla tale, oggi, sono talmente incerti e confusi che il compito più urgente per tutti - poeti, critici, lettori - sarebbe quello di farsi un buon esame di coscienza (se ancora credenti) o una «verifica dei poteri» residui (se laici); e poi tutti a purgarsi da postumi di questa gozzoviglia di approssimazioni, banalità, auto incensazioni che circolano quasi ovunque. (Scusa il tono tra ironico e dolente).

Anonimo ha detto...

Caro Abate, lei e' un generoso. Non e' che io non mi riconosca in quel che ho scritto nel 2001, e' che molta aria e' passata e ho infine dato forma a quel che dovevo dare. Non sono piu' nella condizione di dover fare il mestatore, avendo a mio modo infine parlato.

I destini delle Lettere e delle brave persone che ancora danno un valore alla cultura, al seme nobile della poesia, alla sua incarnazione etica e politica, alle sue possibilita' di riscatto sociale, di elevazione collettiva o di rivoluzione dell'umano, non mi competono piu'. Ci sono invece poesie, traduzioni, teatro, un paio di scritti critici, robette narrative e altra ferraglia ben circoscritta entro il recinto artistico.

Parole lette da pochissimi e infine morte, ma se almeno una persona avra' tratto giovamento, la pena di 15 anni matti e disperatissimi, di sangue vivo passato su carta, di menzogne verosimili (o vere), di esperimenti per iniziati, di robe che verranno bene fra 20-30 anni, sara' valsa a qualcosa.

Altrimenti pace. Io mi sono divertito, poi stancato e infine annoiato. Rimango, in questo ambito, al cinque per cento montaliano (pungolo anch'io il buon Linguaglossa). Non aumentiamo la dose, ognuno si faccia gli affari propri e buona vita a tutti.

Saluti. Giuseppe Cornacchia

Unknown ha detto...

"Io mi sono divertito, poi stancato e infine annoiato"
pur non essendo un letterato, un critico o un poeta, sono molto d'accordo con questo iter. Lo spiego dal punto di vista del lettore/lettrice.

Posso capire che all'inzio della vita scolastica, professionale, artistica, musicale, poetica, pittorica etc etc occorra stabilire continuamente, ossessivamente, maniacalmente in cosa costi o meno la propria identità:ogni sua legge, canone, etc etc, quando presente o non presente, ingannata o spacciata per tale, rispettata o meno
Ma poi, via via di ogni "canale" si voglia abitare, dovrebbe venir meno o scamre sempre più il desiderio di circoscrivere continuamente chi è dentro o fuori quei codici, passati o futuri, presenti o da venire.

Consapevoli che siamo in una prigione, dove viene mistificata tanto all'attore( poeta o artista, politico ogiornalista) quanto al lettore (pubblico?) la rappresentazione del mondo, sia individuale sia collettivo, occorrerebbe dopo un po capire che nulla ci appartiene, questo sia ad uno sguardo materiale che ad un altro se si vuole, spirituale. Per prima motivazione il fatto che se si vuole "ricercare" incessantemente il codice(da una parte dell'autenticità ,che è dall'altra quello della mistificazione), tale ricerca dovrebbe per primo motore avere a cuore il lettore, altrimenti sarebbe solipsismo o una menata per se stessi e/o al massimo per la comunità di riferimento alla ricerca pirandelliana dei personaggi come autori.

Poesia come altro canale espressivo è sia di per sé per l'artista, ma tanto più per i suoi lettori se l'artista è così orientato al "politico", vuoi come crtica vuoi come poetica. Questo legame , per ora, è stato raggiunto solo da coloro che lo hanno principalmente alterato per questioni puramente commerciali. Nell'alterazione buttare tutto a mare o continaure a girarci attorno, contribuisce alla decadenza dei tempi, ma soprattutto alla millenaria impostazione per cui "la cultura" è robbbba per eletti, sia quelli che rifiutano i mezzi dei potenti del proprio tempo, sia quelli che ne fanno parte.

facendo un paragone azzardato ma è per rendere, non è la tv in sè come non è la poesia in sè, ad essere cosa morta per morti, ma è l'uso che ne fa l'uomo a sporcarle e usarle contro l'uomo, il quale se fosse ( come telespettatore o lettore) incondizionabile, potrebbe vedere qualsiasi grande fratello, compreso quello poetico, senza alcun danno , rimanendone impassibile, e sapendo differenziare chi ha ancora qualcosa da dire (o anche da ripetere) rispetto a chi è deliberatamente usato, a sua saputa o insaputa, dalla comunità degli pseudo intellettuali per essere piu prigioniero di quanto non siamo gia per nostra natura, per default, per le condizioni stesse della vita.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giuseppe Cornacchia:

Se io sono generoso, lei è ammirevole per aver dato un taglio così preciso (il 5%) alla sua attività di mestatore (!). Resta il problema: il 95% di mestatori da chi è composto e come mestano?
Mi sa che se si moltiplicassero i Cincinnato…

giorgio linguaglossa ha detto...

Gentile Giuseppe Cornacchia,
vorrei alcune precisazioni. Partiamo dalla proposizione "Uscire dal Novecento", che cosa significa?:
USCIRE DAL NOVECENTO, Ma il Novecento è già finito il 31 dicembre 2000! E poi: bisogna chiudere la porta del Novecento alle nostre spalle? O lasciarla aperta o semi chiusa? Vi sono una o più porte alle nostre spalle? E quale porta lasciare chiusa o semichiusa?
USCIRE DAL NOVECENTO: ma per andare dove? A destra? A sinistra? Al centro?
USCIRE DAL NOVECENTO: ci indichi Cornacchia la direzione da seguire;
USCIRE DAL NOVECENTO: Cornacchia ci dice di seguire l'esempio della scrittura di Valerio Magrelli? - Ma, veramente, è uno scherzo o una beffa da coccodrillo? O una incauta affermazione? Se ho capito bene Magrelli viene posto a emblema del NUOVO, dell'uscita dal Novecento!
Non entro nel merito delle numerose contraddizioni del decalogo di Cornacchia: ma se si ritiene che la critica sia ingombrante e inutile perché scrivere un decalogo di dichiarazioni critiche contraddicendosi platealmente?
Se l'uscita dal Novecento significa la poesia di Magrelli, beh, veramente qui la montagna ha partorito il topolino! Ho la sensazione che il magrellismo sia un fenomeno di psoriasi dell'intelligenza molto diffusa... la neutralità della scrittura magrelliana è appunto una neutralità costruita e precostituita a tavolino, ma è neutralità tra posizioni di poetica confliggenti, una neutralità che non vuole prendere posizione tra i contendenti, ma che anzi alza la bandiera bianca della propria innocenza immacolata! È una neutralità posticcia che vuole gabbare i lettori mettendoli tutti d'accordo! come non accorgersene? E il fatto che Cornacchia non si accorga di questo fatto mi lascia molto perplesso sulle sue capacità di introspezione critica della poesia contemporanea. Comunque, non me ne voglia Cornacchia, proporre il paradigma magrelliano come via privilegiata per uscire dal Novecento a me sembra una ingenuità imperdonabile sulla quale non vorrei neanche insistere troppo per non apparire antipatico, la considero un'imprudenza gettata lì per caso da chi non è avvezzo ai pericoli che comporta il fare critica del contemporaneo.
E, infine, un'ultima considerazione, Cornacchia scrive che «La critica militante non fa pensiero né poesia, ma storia e politica; non è un male ma non credo sia il momento adatto: non ci legge nessuno».
Ma il fatto che la critica militante non la legga nessuno significa soltanto che non si tratta di vera critica militante ma di scritti che mimano la veste critica, scritti di supporto a, amicali, scritti di scambio etc. che forse è meglio lasciar perdere come un vuoto a perdere...
Personalmente io credo nel lavoro serio, fatto con coscienza e libertà.

Anonimo ha detto...

Caro Linguaglossa,

Ai tempi, Magrelli rappresentava il tratto d'unione fra una poesia squisitamente letteraria, prodotta cioe' da chi entro il recinto gia' c'era, e chi aveva un'altra formazione (fra cui il sottoscritto). Ha ragione nel sostenere la debolezza strutturale dell'intervento, un dialogo con Merlin che lui scelse di rendere pubblico in un tempo nel quale la rivista Atelier coagulava molti under 30 per il suo progetto di opera comune. Contribuirono una trentina di giovanotti e Merlin raccolse in Atelier n.24, del dicembre 2001.

In effetti ho successivamente prodotto un altro contributo critico, impostato piu' canonicamente, che risponde alle questioni che lei pone. Si puo' trovare qui e scaricare in formato .pdf: http://nabanassar.wordpress.com/2012/07/15/mi-costruisco-un-sistema-di-pensiero-e-una-poetica/

Rispondo anche ad "in soffitta". Credo che il lavoro artistico sia giocoforza individuale e che non operi per la comunita' coeva, ma per quella che verra'. Non starei a preoccuparmi della ricezione e del rapporto sociale fra arte e pubblico o arte e potere. Faccio anch'io un paragone improprio, citando la cronaca. Avrete sicuramente letto della probabile scoperta del bosone di Higgs al CERN di Ginevra. La sua teorizzazione risale al 1964 ed una prima conferma sperimentale si e' avuta nel 2012. Con la buona arte, a mio modesto avviso funziona grossomodo cosi'. Il buon Higgs e' stato fortunato ad aver visto realizzata la sua intuizione ancora in vita, a molti tale fortuna non e' data. Moltissimi altri vengono sconfessati dal tempo che passa, anche in modo drammatico. Si fanno prove, i ragionamenti vengono testati e questionati, il sapere condiviso fa un passo avanti. In tutto questo e nel frattempo, il signor Higgs ha fatto la sua vita e oggi e' un arzillo ottuagenario che ha pochissimo in comune con il se' di 50 anni fa. Fatte le debite proporzioni, rivedere questo scritto del 2001 ripescato e ridiscusso qui, come fosse stato prodotto ieri, mi fa grossomodo lo stesso effetto: piacere da un lato, nel trovarlo ancora attuale (a parte il Magrelli chiave-di-rosetta della poesia contemporanea); sorpresa dall'altro, perche' 11 anni sono passati e la vita e' cambiata per tutti, anche per me.

Saluti e grazie ancora. Giuseppe Cornacchia

Anonimo ha detto...

Ad Ennio Abate
Mi scrivi: "Come fa il poeta a decidere di « cantare quello che del suo tempo è valido per tutti i tempi»?
Oh certo, ognuno canta la "sua" verità, non una verità metafisica e universale, che nessuno ce la può dire (nemmeno i critici). Infatti, non lo decide lui nè iol critico "quello che nel suo tempo è valido", lo deciderà la fortuna dell'opera. Se non ci azzecca la sua opera verrà ignorata, se ci azzecca la sua opera verrà letta e criticata. Sono cose che noi non possiamo decidere nel "qui ed ora", a meno di pretendere da avere in tasca la verità. Io non lo. Se l'avessi, la butterei via perché il gioco sarebbe finito. Quello che ci è chiesto è soltanto di essere veri: questo lo possiamo fare. Non si tratta di "liberismo in poesia": io ho espresso un forte richiamo alla verità (ripeto: non assoluta, non metafisica, ma individuale). La poesia falsa la vedi, la senti, la tocchi, come critico e come poeta. ma di che abbbiamo bisogno, di vati? di nuovi D'Annunzi e di nuovi "sommi poeti" riconosciuti tali in vita, che ci strappino un "oh!" di barocca meraviglia ad ogni pisciata nel pineto? Ci sono, ci sono, i "sommi" ma, a parte qualche raro caso, io ci trovo solo mediocrità, se non delle autentiche merdacce. E che deve fare un critico, obbligare a scrivere quelli bravi e attentare alla vita delle merdacce? Semplicemente non se ne parli: il tempo li cancellerà.
E dove la troviamo un'autorità che ci dica che cosa è meglio o no cantare nel nostro tempo? Io posso solo giudicare la serietà di un lavoro poetico. buono o cattivo poeta non sta a me dirlo: a me critico sta il compito di mettere in evidenza quello che fa e come lo fa, le sue intenzioni, il senso della sua poetica, della sua ricerca linguistica, l'attualità o la vetustà del suo eloquio e del suo linguaggio, la pregnanza dei suoi temi, quanto è possibile riconoscersi nei suoi temi, che cosa in lui è ideologia e che cosa è (a mio avviso) poesia, ecc. Il resto non è affar mio, se non nel mio privato, nella mia opinione. Ma della mia opinione non importa nulla a nessuno e neppure ci tengo, perché non ho nessun potere da difendere. E chi sono io per avere opinioni più valide o importanti di altri? Posso avere competenze più sicure, magari, ma se qualcosa vale o non vale è un giudizio di chi se ne avvale. Un giudizio di valore risponde sempre a un sistema di valori: e quale sarebbe quello buono e quello gramo?
E scrivi: il compito più urgente per tutti - poeti, critici, lettori - sarebbe quello di farsi un buon esame di coscienza (se ancora credenti) o una «verifica dei poteri» residui (se laici); e poi tutti a purgarsi da postumi di questa gozzoviglia di approssimazioni, banalità, auto incensazioni che circolano quasi ovunque".
Le domande che fai me le pongo da una vita e non trovo risposte definitive, non le troverò, perché dopo ogni risposta ci sta sempre una domanda. Tu mostri di averle trovate e allora dille!
Ma insomma, che cosa si vuole: far tacere chi scrive o non sa criticare? E allora fuori i nomi e cognomi. La mia opinione invece è che meno se ne parla, di costoro, e più si parla di chi scrive bene, meglio è. Tertium non datur.
L'alternativa è infatti fare una crociata per stabilire la buona e cattiva poesia o predisporre spandimerda ideologici per smerdare un po' di narcisi. Auguri! Non sono adatto alle guerre di religione. E, al limite, per provocare: W la cattiva poesia, che ci fa capire che esiste una poesia vera e ben scritta, CHE HA LA SUA VERITA'IN SE' anche se non è la nostra, e che è da leggere e sostenere.
Gianmario

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Gianmario:

Non me ne volere se controbatto con pignoleria.
Se ognuno cantasse la “sua” verità e solo questo potesse fare, nessuno (e non solo i critici) può fiatare. Tutto resta come prima. È semplicemente una “sua” verità inverificata e inverificabile. Siamo al relativismo assoluto. Cciascuno avrebbe la “sua verità” ma nessuno la potrebbe far riconosce a qualsiasi altro. A meno che due non s’accorgano - accostandole - che hanno la stessa verità; e allora forse si potrebbe fare un piccolo passo avanti. Perché sarebbero almeno due ad avere la stessa verità.
Questa seconda ipotesi è però mia. Il tuo ragionamento si fonda sul relativismo più assoluto e, applicato in poesia, mi spiace, darebbe proprio quel “liberismo” che ho criticato nel commento precedente. Non prevede nessuna fuoriuscita dalla visione che una monade; e non può comportare alcuna responsabilità *comune*: del singolo nei confronti di un altro singolo o gruppo o comunità (in questo caso di quelli che s’occupano di poesia).
Al massimo una responsabilità nei confronti di se stessi: «essere veri», come tu scrivi ( usando il plurale, mentre a rigore dovresti usare solo il singolare): solo l’io-monade di cui parli può, infatti, dichiarare di “essere vero”. Nessun altro (se non Dio forse…) lo può verificarlo. Ed, infatti, sei costretto a rimandare tutto ad un futuro indistinto, quando «la fortuna dell’opera» risulterà (forse) evidente. Partendo da questa posizione, solo a te stesso puoi raccontare che «la poesia falsa la vedi, la senti, la tocchi».

Da parte mia, non invoco nessuna autorità, tantomeno un D’Annunzio (figuriamoci!) o un “sommo poeta”. E lungi da me voler azzittire «chi scrive e non sa criticare». Anche perché ho sempre pensato e detto che lettura e critica sono gemelle e procedono assieme o falliscono assieme.
Io ho posto e pongo un problema di onesta intellettuale ma al plurale (oltre che ovviamente al singolare).
Se siamo in un mondo di “mediocrità” o “merdacce” poetiche, per usare i tuoi termini coloriti, come se ne esce? Come si fa a distinguere «la serietà di un lavoro poetico» da una patacca? (Che è poi la funzione elementare svolta o che dovrebbe essere svolta dal più ingenuo lettore-critico al critico-lettore più attrezzato).
Non capisco come questo si possa fare partendo dal tuo “monadismo”. Da lì sei costretto obbligatoriamente a ripiegare nel «privato», nella tua «opinione», che del resto svaluti («Il resto non è affar mio, se non nel mio privato, nella mia opinione. Ma della mia opinione non importa nulla a nessuno e neppure ci tengo, perché non ho nessun potere da difendere. E chi sono io per avere opinioni più valide o importanti di altri?»).

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Non si scappa: o si trovano criteri di valutazione condivisi da un certo gruppo di persone:poeti, critici, lettori (o almeno di metodo per riuscire chissà quando a formularli in modi accettabili); oppure continueremo a morderci la coda, ciascuno nel suo solipsismo, nella sua setta, nella sua “pseudo comunità”, nella sua “parocchia”.
Quindi è sbagliata la sfida che mi lanci: «Tu mostri di averle trovate [le risposte giuste] e allora dille!». Non sarò io a tirare fuori nomi e cognomi, perché il compito di tirarli fuori, quando sarà necessario, dipende da questo lavoro ancora ai primordi per fare *tabula rasa* di pregiudizi e abitudini. Ecco perché il “Laboratorio Moltinpoesia”:

« Si può e si deve, in queste forme cenacolari e “povere” approntare spazi per un paziente e amoroso lavoro di critica *inter nos* (non ipocrita, non diplomatico, severo, serio, argomentante, non cannibale/fratricida) per uscire dal guazzabuglio di marxismi residuali, psicoanalismi, ecologismi, estetismi postmoderni in cui di solito ci dibattiamo e avviarci verso un pensiero critico adeguato al paesaggio sconvolto in cui ci siamo venuti a trovare. Tale bonifica va fatta con tutti i sensi attenti all’*extra nos*.
Saranno elementari spazi di dialogo viso a viso, non virtuali (senza negare il valore della comunicazione virtuale in assoluto). Perciò: singoli o gruppi che s’incontrano, discutono, si scambiano possibilmente scritti privati ma tendenzialmente pubblici, vagliano qualità e contenuto dei medesimi, si ripuliscono dalle inevitabili tensioni, invidie, antipatie e simpatie, attrazioni e repulsioni, pregiudizi, avendo presente che l’obiettivo è di arrivare ad altri mondi, agli altri di cui *si parla* (e di misurarsi con i convitati di pietra che ci dominano)».

(dal post che sto preparando intitolato SULLA EX-PICCOLA BORGHESIA O CETO MEDIO IN POESIA)

E *en passant* vanno benissimo tutti i tentativi di definire questi criteri, non solo i miei.
Ho appena letto lo scritto di Giuseppe Cornacchia, *Mi costruisco un sistema di pensiero (e una poetica* e, al di là della impostazione nettamente ma coerentemente semiologica e una chiusura un po’ preconcetta a “sociologismi” e “ideologismi”, in cui ficca “rovine” secondo me da ricontrollare, credo che muova in una direzione giusta, che magari io chiamo con altro nome (quello di “poesia esodante”).
Nessuna «crociata», dunque. Discutiamo e approfondiamo.

[Fine]

Gianmario ha detto...

Caro Ennio: "relativismo" è mettere tutti i valori sullo stesso piano: tutto è relativo. Non è relativismo avere un pensiero proprio (che io mi auspico). Non farmi come Benedetto XVI, che accusa tutti di relativismo, propriamente e impropiamente. Il relativista è lo scettico, il nihilista, colui per il quale nulla ha un valore assoluto. Io dico inceve che ognuno di noi deve avere un valore assoluto-per-lui, anche in poesia, e che lo difenda, ma sia pronto a cambiarlo dal momento che gli viene dimostrato essere relativo, ma che lo sostituisca sempre con qualcosa che gli sia di riferimento. Quello che tu suggerisci assomiglia un po' alla soluzione che Jürgen Habermas propone per regolare tante questioni spinose e irrisolvibili in termini vincolanti per tutti, ossia un “agire comunicativo” sul quale si può anche essere d’accordo, ma con l’avvertenza che le soluzioni trovate, in questa prospettiva, sono soltanto interpretazioni, magari socializzate in un gruppo, come tu dici, ma interpretazioni che non possono avere valore di vincolo per nessuno. Se le cose stanno così, trovo che sia una soluzione ragionevole, ma trovo anche che sia una soluzione che non porta a nessun effetto pratico, se non quello di porre un problema in maniera forte, ossia il problema della critica e della poesia. Che già si è posto, perché ogni poeta e ogni critico con un minimo di coscienza del suo ruolo, se lo pone (è il “ruolo” della poesia, oggi, in discussione, non tanto la sua qualità letteraria). Io credo che il problema della critica non sia tanto quello di dire cose giuste o sbagliate, ma di scrivere cercando di non pestare i calli a nessuno, e, in secondo luogo, di scrivere troppo, anche per chi non merita una parola. Per questo suggerisco che il silenzio, sulla cattiva poesia, è la strategia migliore. O se proprio si deve parlarne (per mille ragioni che ci inducono a farlo, ad es. un giornale o un sito che ti chiede un articolo o altro), cerchiamo di essere onesti, di mettere in risalto (krinein) gli aspetti validi e le composizioni valide e non scrivere il solito panegirico a futura memoria, e comunque non tacere anche i punti di debolezza di quella scrittura. Il descrivere è un’operazione empirica, è la base della scienza: uno descrive e non dà giudizi di valore: non è affar suo. Se non trovo un senso nella poesia di Lucini, posso scrivere: a) “la poesia di lucini è gravemente deficitaria nei contenuti e si preoccupa soltanto dell’eleganza formale; le parole si arrovellano intorno a concetti che il poeta soltanto può capire, con esiti solipsistici e incomunicabili”; oppure b) “l’attenzione del poeta Lucini è soprattutto orientata all’eleganza della scrittura e agli effetti prosodici. Il suo è quasi un culto per la lingua e la musicalità del verso, un gioco di fonemi e ritmi che assorbe ogni ragione della sua poetica”. Ho detto la stessa cosa, ma nel primo caso ho espresso pesanti (anche se veri) giudizi di valore, nel secondo mi sono concentrato sulla fenomenologia del verso, su come si presenta, senza nessun giudizio. Il giudizio se lo fa il lettore: se egli cerca “le petit rien” elegante e l’aulicità prosodica, per lui Lucini sarà un grande poeta, se invece cerca un pensiero poetico, per lui Lucini sarà la merdaccia di cui si diceva ieri. Certo, io non mi faccio carico dell’ignoranza dei lettori e suppongo che siano tutti “lettori” e non “bambocci”. Criticare così (nel secondo modo), NON è “relativismo”, ma pura e semplice “critica” che si sforza (anche se mai vi riesce) di essere obiettiva.. Il relativista scriverebbe: “la poesia di Lucini è una continua e stringente interrogazione dell’inconscio alla ricerca di verità che il poeta rende, per complesse allusioni, di non semplice interpretazione, sorrette però da un’anima prosodica accattivante e di assoluta maestria, che si radica nella sensibilità musicale del lettore, e lo sollecita con un incessante lavorio interiore”.
[segue]

Gianmario ha detto...

Il relativista insomma usa le parole per giustificare il niente, usa concetti vuoti ed ecolallazioni concettuali con un’evidente intenzione di depistaggio del senso, come facevano i sofisti nell’antica Grecia.
E dunque, per rispondere alla tua domanda, a mio modo esiste un sistema per distinguere i poeti dalle merdacce: dei poeti ne parliamo, delle merdacce no. E per forza sono costretto a rifugiarmi nel mio monadismo, quando faccio critica: la critica e la poesia non la si fa a quattro o sei mani e, quando la si fa anche in gruppo, è sempre la combinazione di diverse libertà che si esprimono. Ho editato adesso adesso un libro che si intitola “Nopi rebaldìa 2010”, con l’apporto di 28 penne su un unico poemetto: tu lo leggi e leggi un poemetto solo, ma è scritto da 28 persone, ognuna scrivendo quello che le pareva. Il risultato è sorprendente. Ma perché può avvenire questo? Perché il desiderio di fare insieme non è partito da una regola o da una convenzione alla quale tutti hanno aderito, ma perché tutti quelli che hanno aderito insieme hanno prodotto questa regola e questa convenzione che si chiama “we are winning wing” (titolo ovviamente ironico) e che vale solo per quel poemetto e non per altre cose. Altre cose si costruiranno diversamente.
Il ragionamento va quindi rovesciato: non tanto “approntare spazi per un paziente e amoroso lavoro di critica *inter nos*”, (chi appronta lo spazio? che cosa ci mettiamo dentro? come ci muoviamo in questo spazio? discutendo di che cosa? e chi decide tutto questo? cosa metterci e cosa tralasciare?) ma piuttosto, ad esempio, producendo lavori monografici su singoli autori o movimenti o idee, alimentato dall’apporto di diversi critici che scrivono dell’autore quello che gli pare e mettendo insieme il tutto per vedere che cosa ne esce. Facciamo un lavoro sulla poesia di Abate? Ok, io faccio il mio, tu il tuo, Pinco il suo e Pallino lo stesso. Poi li mettiamo insieme e vediamo se stanno insieme e discutiamo di come metterli insieme. Così facendo si fa un “libero” lavoro di gruppo, ci si confronta, si attua quel “agire comunicativo” che produce un qualcosa di forte, anche se non di assoluto o definitivo o normativo. Un tentativo (tu lo sai) lo sto già fatto: ho invitato 18 critici, fra i quali tu, a scrivere qualcosa di un argomento. Il risultato è che non se ne fa niente (addirittura uno di questi, solo leggendo il nome degli altri, mi ha accusato di voler fare del “revanchismo”... - ma lasciamo perdere - e che, in fin dei conti, ci volevano nomi più in vista e non quelli da me ipotizzati). Proposte “dall’alto” fanno questa fine.
[fine]

Anonimo ha detto...

Scusate , vorrei sapere cosa si intende per poesia falsa. Così tanto per capire meglio e per distinguere. La falsità secondo il mio modesto parere può appartenere alla poesia proprio perchè in essa trova campo. Non vorrei si confondesse l'onestà con la falsità - In poesia mi sembra siano da distinguere molto bene, se non altro sono concetti da chiarire. Emy

Gianmario ha detto...

"Falsità" così come la intendo, in poesia, è quella poesia che non esprime un pensiero autentico (non di facciata, non un "passatempo", non una banalità), che risolve il suo compito nella forma e non esprime nulla del mondo. Ovvio che qualcosa di dice sempre, non c'è un linguaggio che non esprime nulla (anche soltanto l'intenzione di non esprimere nulla è comunque un "qualcosa"), ma c'è il linguaggio che esprime il detto e il redetto (i soliti luoghi comuni), la sciocchezza (gli sciocchi sanno scrivere: eccome se sanno scrivere), il banale, l'orecchiato, il pensiero massificato e acritico (es. tutte le donne sono chiacchierone, gli uomini sono più violenti delle donne, ecc. ecc.) tutta la noia di mille minestre riscaldate.
C'è un vecchio adagio di Marziale che potremmo adattare la poesia: M. dice al tirchio Cotta, che lo invita a cena, lo fa mangiare in piatti d'oro ma lo fa alzare da tavola non sazio: o porta da mangiare o porta via i tuoi piatti d'oro. Io sono stufo di belle parole che esprimono banalità: mi piace mangiare bene, quando mangio, e a sazietà. Quelle poesie sono false, come le cene di Cotta.

Anonimo ha detto...

a Gianmario: risposta chiara e semplice. Non so... mi ero fatta una mia idea, che il contrario del vero in poesia non esistesse, o meglio il contrario è la non poesia. Il falso in poesia, potrebbe essere l'imitazione di un pensiero di uno stile che va di moda, un voler fare ciò che non ti appartiene al punto di rifare nè più nè meno ciò che ha già fatto qualcun altro. La falsità io così la intendo e l'arte si deve difendere in qualche modo, riconoscendo la purezza, l'idea che rompe "tutta la noia di mille minestre riscaldate". Grazie Gianmario. Emy

Unknown ha detto...

Io penso che il falso, compreso quello in poesia, è facile da stabilire laddove sia un po' come il post su monti che ho appena letto ed a cui rinvia il piu recente pezzo di Ennio .

E' facile stabilire quanto imbarazzo provochi ciò che alla fine Gianmario ha giustamente definito in una sola parola "merdacce" . Il problema è che nell'ambito di questa facilità ad individuare il falso(spacciato come vero e autentico atto poetico, dagli stessi critici ufficiali di sistema,per il poltronificio "celebrità" nonché tanti incassi) ci cascano in molti lettori.Però in questa rete vengono soprattutto accalappiati per altri generi letterari.. poesia per ora rimane purtroppo lettura di pochi. Comunque è per questi lettori che chi si occupa del settore poesia NON merdacce, deve giustamente concentrarsi su autrici, autori e traduttori che non fanno poesia merdaccia e che ci sono vivaddio come diceva fin dal primo intervento Gianmario...e gioco forza devono farsi conoscere, anche con logiche d'impresa, che non significano assolutamente snaturare, scardinare la natura dei rapporti tutti(autori, critici, lettori, punti di acquisto/distribuzione etc) fino ad assorbire le logiche perverse delle "merdacce" .

Occorre concentrarsi davvero dentro la trama di questi rapporti e non perdere tempo sulle "merdacce", se non per dimostrare via via al lettore attratto dalle prime , che esiste un'educazione all'ascolto come in musica, e che non ci sono solo canzonette peraltro di bassa qualità(siamo già un paese da canzonette e operette e melodrammi).

Molto più difficile è stabilire un falso d'autore , fatto così bene, ma così bene, che occorre avere una tale preparazione specialistica, letteraria, critica, etc etc che solo gli esperti(ovviamente non corrotti dal grande fratello) possono fornire le chiavi sia ad altri autori che ai lettori, del falso di volta in volta autoreclamato come fenomeno "record" dell'anno (banale induzione da marketing operativo per accelerare lo svuotamento degli scaffali e il riempimento delle casse, di cui non mi stupirei se dessero target, budget e commissioni ai critici "ufficiali")

Anonimo ha detto...

Gli ultimi commenti aprono un ginepraio: poesia vera vs. falsa, critica ideologica vs. liberista, poeti vs. merdacce. Non se ne viene fuori in maniera netta, anche perche' la ricezione della letteratura e' una pratica sociale e dunque politica o almeno ideologica.

L'ideologia che Abate mi chiede di non "rovinare" sacrifica il talento in nome dell'utilita' particolare di un gruppo di riferimento, il che e' un controsenso in faccende estetiche. L'estetica, fosse anche utilitaristica, sfugge alla gerarchia; ma soprattutto l'estetica potente, quando e' realmente tale, abbaglia il resto (non voglio comunque entrare nella scia di George Steiner e della sua "angoscia dell'influenza").

Dico solo che tutti i sordi rancori, tutto il livore sociale, tutte le aspettative caricate su questa semplice forma propria chiamata poesia non fanno di un poeta mediocre un buon poeta. Al massimo, gli regalano un po' di ascolto contingente, che puo' tornare utile in sede di contrattazione politica.

Ma in un'epoca nella quale ognuno puo' autoproclamarsi genio perche' due fessi si mettono d'accordo per lanciarlo come tale, lo svilimento del candore romantico a cui tanti/e affidano nascostamente le proprie parole in versi rende la pratica in pubblico fortemente disdicevole. Rimanga dunque un vizio privato, un percorso da iniziati.

Saluti. Giuseppe Cornacchia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio a Gianmario:


1. « A mio modo esiste un sistema per distinguere i poeti dalle merdacce: dei poeti ne parliamo, delle merdacce no». A parte il fatto che io credo che a una cosiddetta “merdaccia” vada detto (in privato o in pubblico, a seconda anche dell’atteggiamento assunto dalla persona in questione) perché sia tale (o meno moralisticamente cosa non va della sua scrittura), mi devi spiegare ancora una volta - e insisto per chiarezza non per cattiveria -, visto che hai saltato il punto, perché ai poeti che consideri “merdacce” lasci autogestire una auto-vetrina all’interno dell’Enciclopedia della poesia di CFR.

2. Il lavoro di Laboratorio (mio o tuo o di altri) non può, non dev’essere un mero assemblaggio di io monadici. Purtroppo non è un problema facile. Io sempre in questo scritto che sto per finire l’ho messa giù così:

«Non nego che a parlare di progetto moltissimi storcono il naso. E so bene quanto sia problematico collegare discorsi progettuali e “pubblici” alla propria pratica poetica di singoli operanti in solitudine o in piccoli gruppi, spesso precariamente funzionanti e niente più che un assemblaggio di io, tenuti assieme da qualcuno/a che ha la doppia e non sempre gradevole funzione di leader, facchino e a volte persino terapeuta.
Di solito il singolo poeta bada con la coda dell’occhio a questi discorsi, li vive come “discorsi dei critici” o degli “organizzatori di cultura”, partecipa alle iniziative pubbliche (laboratori, riviste, blog) con una certa saltuaria eleganza (in modo da esserci e non esserci) e poi continua a scrivere come prima (almeno in apparenza). Come se i discorsi pubblici fossero prediche e le iniziative pubbliche dei riti a cui si presenzia per cortesia. Tutto per lo più pare scivoli via come acqua corrente sui sassi che resistono. E sasso che resiste è l’io del poeta, che molti intendono non solo singolare (ed è pur vero che scrivere poesia è atto compiuto in solitudine e senza un intervento previsto o auspicato di altri, se non magari a operazione data per compiuta o a uno stadio avanzato) ma *irrimediabilmente e naturalmente* destinato ad essere individuale.

Ed è indubbio - ma questo è positivo - che sia davvero difficile convincere il proprio ‘io’ poetico non - la mia proposta non è così banale - ad ubbidire ad altri/e o a confrontarsi necessariamente con loro o a imporre a se stesso addirittura una poetica elaborata da un ‘noi’ (un gruppo, un’istituzione). Il vero problema posto almeno da un progetto di poesia esodante [la mia proposta che illustro nello scritto da cui traggo questo brano] è secondo me trovare - se ci sono e quando ci sono - i punti delicati ed esatti di raccordo tra la ricerca dell’io e la ricerca del noi. Che - e qui ci vuole per forza un minimo di volontà teorica per riconoscerlo - ci sono davvero, essendo in realtà quello che oggi ad alcuni può ancora apparire come un io compatto, unitario e chiuso in sé (tradizionale insomma) nient’altro che un io-noi.[Nota1] E per ragioni storiche, per mutamenti intercorsi proprio negli anni in cui è maturata la crisi e la crisi della poesia.
Le incognite da ricercare, perciò, sono sia sul versante dell’io, che non è più quello di una volta, sua su quello del ‘noi’, altrettanto mutato rispetto al passato. Ed è importante che nell’ottica esodante che propongo *la ricerca del ‘noi’ vado considerata decisiva quanto quella dell’’io e viceversa*.

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (Continua):


Il difficile è, come ho detto, farle incontrare. Non è detto che ci si riesca, ma neppure è deciso che si fallisca perché io e noi sarebbero incompatibili, come gli individualisti e i comunitaristi per partito preso sostengono.
Non è facile selezionare dalla ricerca spontanea o singolare dell’io (la poesia - ripeto - in genere si scrive ancora da soli) la parte che può incontrarsi con la ricerca del ‘noi’ (l’attività di laboratorio, di rivista, di blog è in genere più collegiale o collettiva) . Eppure la prospettiva per capire, valorizzare, collocare in una nuova cornice progettuale sia il lavoro dell’io che del noi, evitando sia la chiusura solipsistica sia l’imposizione obbligante di un Noi superegoico, ha oggi - a essere prudenti - più fondamenta di ieri.
Il problema può essere però posto al di fuori di una semplice contrapposizione io-noi, privato/ pubblico. Ma senza facili ottimismi. Ci sono cose prodotte dagli ‘io’ che sono fondamentali per un io-noi e per un possibile nuovo ‘noi’ e incompatibili invece con certi Noi, che si sono andati imponendo nella storia della poesia e nella storia tout court. E ci sono anche cose dell’io che sono dannose per l’io stesso, per l’io-noi e per il possibile noi da costruire in un progetto di poesia esodante.

Nota1.
È quel che ho cercato [sempre nello scritto in questione] di dire parlando degli intellettuali di massa e periferici (e quindi anche dei poeti) che vivono una situazione del tutto diversa da quelli tradizionali. Ne trovo una conferma anche in queste parole di Romano Luperini: «I nuovi intellettuali, privi di autorità e di centralità, stanno cercando forme di organizzazione d d’intervento che sembrano possedere due fondamentali caratteristiche: agiscono dal basso, puntando sulla relazione orizzontale a rete, su connessioni fra loro liquide e veloci, e agiscono collettivamente, cercando intese capaci di formare movimenti o gruppi mobili, che si aggregano e si disgregano facilmente, ma che implicano comunque un’idea di comunità. Non hanno più nulla della figura tradizionale dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di intervenire con la loro voce. Tutto sommato non è poco». ( R. Luperini, Otto tesi sulla condizione attuale degli intellettuali, p.14, in Allegoria n. 64 luglio-dicembre 2011

[Fine]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giuseppe Cornacchia:

Per carità, rovini l’ideologia, la picconi, la faccia a pezzi! Quando è possibile. Io ho dell’ideologia l’idea marxiana-althusseriana- gransciana: necessaria ma non sufficiente; e in fin dei conti: nebbia. Per uscirne, però, non è facile. Ci riescono più spesso quelli che per costante e quotidiana applicazione professionale (filosofi, scienziati) arrivano ad un sapere diciamo più “ripulito”. Ma anche loro senza garanzie di completa disinfestazione. E coerenza, se ci sono scienziati in cui il sapere metodico convive con altri saperi anche “superstiziosi”. Il resto dell’umanità mai. O solo in casi particolari e momentanei di grandi rivoluzioni.
Credo che l’ideologia non sia faccenda in cui restano impelagati più di altri preti e politici, che appunto hanno a che fare spesso con fedeli o elettori che vogliono i miracoli, ma anche - certo in forme più raffinate - gli studiosi di estetica, a lei cari. È un discorso complicato che spero riusciremo in qualche occasione a fare.