Tabea Nineo 1990
9. Contraddizioni interne a gruppi
diversi, concorrenti ma in modi subordinati
Chiarito che siamo tutti ceto medio e che non è possibile più essere dei
piccolo borghesi alla Montale o alla Fortini (a seconda delle preferenze), ci restano
del passato vari modelli: eroicistici, nicciani, “neo/neon/avanguardistici” o
fortiniani, montaliani, ecc. Sono necessari (ciascuno porta con sé -
ammettendolo o negandolo - le sue «buone
«rovine»), ma da soli insufficienti per la chiarificazione della
situazione presente e in mutamento. Sono simboli non trascurabili, sintomi di adesioni
profonde a una storia o a una visione del mondo, ma da soli non decisivi.[1]
Nello specifico del discorso
poetico, ne consegue che, come dice Linguaglossa, è vero: la
“democratizzazione” dei linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di
quelli dei mass media ed è ad essi
subordinata (e depauperata delle sue potenzialità). Anche perché la democrazia e
la poesia non possono ridursi alla dimensione del quotidiano. Né esse possono esserci
(ammesso che le si trovi dove si dice che siano) soltanto nel quotidiano. È
però vero pure che l’aristocraticismo - opposto della medaglia -, che oggi permane
negli interstizi o nelle frange del ceto medio più ai margini dalle mode
“democratiche” e muove una critica in
parte accettabile a tale fasulla
democratizzazione, limitandosi a fare il broncio e a richiamandosi all’antico,
al premoderno o alle Origini, resta un aspetto,
complementare ma non alternativo della situazione di stallo. E riesce patetico coi suoi tratti di nobiltà
decaduta quanto l’altro - il democraticismo - appare arrogante, rampante o falsamente modesto.
Le critiche di Linguaglossa ai settori “democraticisti” della ricerca
poetica odierna avrebbero però un buon valore euristico, anche ai fini
dell’inchiesta che ho evocato, se appunto fossero depurate dal moralismo o
dalla pretesa di rappresentare la “linea””
o la poetica buona. Che manca e
andrebbe cercata. Qui un altro punto di dissenso. Mi va bene dibattere
tra contrapposizioni interne alla ex-piccola borghesia, come quella
tra i poeti proposti da Giorgio (Madonna, Busacca, ecc.) e
i minimalisti-quotidianisti, o, per stare a Pozzoni, tra i poeti che scrivono
poesie e i poeti che dicono di fare “non poesie”, ma non riesco a pensare che
queste siano le differenze ultime e determinanti e che, confliggendo tra loro e
portando a una chiarificazione auspicabile, ci faranno uscire dalla crisi della
poesia. Anche se - nolenti o volenti - la «post- poesia» ci avesse spinto su un
nuovo terreno, come Linguaglossa sostiene, non stiamo affatto per entrare nella luce di una nuova aurora.
A me non pare che precursori di
tale nuova aurora possano essere i linguaggi “morti” di Madonna o di Busacca
(come non lo sono quelli dei “quotidianisti”). Perché la subordinazione,
sostanzialmente politica, la vedo negli uni e negli altri. La vedo in entrambe
le poetiche. Entrambe per me sono poetiche
di sconfitta o risposte reattive di autodifesa dopo una sconfitta di fronte
a un mutamento della società che non riescono a pensare e a rappresentarsi e di
fronte alla crisi della poesia, che stava maturando da tempo ed è poi esplosa (all’ingrosso)
nella metà degli anni Settanta. Sono false risposte o - al meglio - mezze
risposte. Sia sul piano politico sia su quello estetico. Non un paradigma vincente
o addirittura dominante.
Nelle prime c’è troppa nostalgia per qualcosa di morto e l’accettazione
della sconfitta politica (complementare). Nelle seconde c’è il riconoscimento
che il morto è davvero morto, ma questa contrattazione, che potrebbe essere un
vantaggio, si perde nella rincorsa a bere il più in fretta possibile la “tazza
del consolo” della semplice accettazione del presente così com’è, senza
interrogarsi più su chi lo impone e cosa viene indirettamente così imposto alla
stessa ricerca poetica.
10. Scommessa e terreno di
chiarimento
A me pare realistico, invece, pensare che le classi (soprattutto
quelle popolari e lavoratrici) siano
state sconvolte; e siano per ora
impotenti, comunque disgregate, fluide nei loro contorni, che erano invece
abbastanza netti e affidabili una volta. Siano cioè incapaci di
autoriconoscersi e di ricostruire alleanze e progetti. E in mezzo ai residui
dei tradizionali raggruppamenti una volta fondamentali (borghesia e
proletariato, dominatori e dominati) vedo questo vasto e arlecchinesco ceto
medio in via di crescente impoverimento
o in uno stato di ebollizione perlopiù populistica (si veda il fenomeno
dei grillini[2]).
In esso si agita di tutto. E vi si fanno
sentire - in modi dissonanti, cacofonici o nichilistici - gli echi di sconfitta
del fascismo, delle lotte contadine prima e di quelle operaie; il risentimento dei figli di costoro
acculturatisi dagli anni Cinquanta in poi e collocatisi nelle istituzioni come
“intellettuali periferici”; e l’odio sordo, appena trattenuto e mascherato
dalle pensioni dei genitori o dei nonni, delle nuove generazioni alle prese con
la disoccupazione crescente e i lavori precari. (In questi discorsi “da ceto
medio” mancano, per ora e non a caso: - i nuovi poveri o gli immigrati, tenuti
a bada un po’ da tutti e magari affidati ai preti della Caritas; - i nuovi
ricchi o gli “immigrati di lusso” e cosmopoliti, ben asserragliati nei loro
covi di lusso).
Il ceto medio è nel pantano, senza autonomia culturale e senza consapevolezza
della situazione reale (si veda il silenzio e la rimozione sulla crisi!), in
cui si trova. E non sa quale strada prendere (come il personaggio della poesia
di Frost posta in exergo[3]).
Perciò il discorso va spostato
sulla scommessa in un progetto da fare, sulla scelta della strada da imboccare e sulle difficoltà
che incontra una tale ipotesi di lavoro.
Devo a questo punto raccontare
qualcosa che mi riguarda, ma che in piccolo rivela queste difficoltà e accresce
la necessità di chiarezza e di scommessa: o in un senso o in un altro.
Convinto che una differenziazione all’interno del ceto medio (in cui ai
livelli medio-bassi rientro) vada stimolata, in questi anni ho fatto spesso
riferimento, anche in poesia e nei discorsi sulla poesia, a eventi politici
minori o maggiori: in particolare le sconfitte elettorali della sinistra nel
2008, gli indisturbati attacchi israeliani contro Gaza nel 2009, le nuove
“guerre umanitarie” che dal 1990 all’ultima contro la Libia proseguono). A me
erano parsi rilevanti e capaci di
indurre una qualche reazione “brechtiana” o “fortiniana” o indurre almeno ad approfondire
anche la riflessione sulla crisi della poesia, che altrimenti somiglia sempre
più a una discussione sul sesso degli angeli.
Preciso subito, contro la malafede in agguato, che tale reazione per me
non significa né produzione immediata e
reattiva di una poesiola contro la guerra né
dare il proprio obolo alla cosiddetta “poesia civile”.
Ora, quando, ad esempio, nel 2004, scrissi Contro i poeti che in tempo
di guerra non tremano abbastanza o, altre
volte, ho pubblicato poesie “politiche” sul blog, sono fioccate accuse del tipo: Ma perché ti tiri fuori da noi (intesi noi di
sinistra o democratici)? Da quale pulpito
tieni la tua lezione? Perché non vai a Gaza? Hai forse un mandato dagli
irakeni o dai palestinesi di Gaza per parlare a nome loro?
È un fatto che queste critiche o il silenzio (in fondo complice) su certe vicende di
guerra da parte di colleghi o amici denota una differenza sia sul piano
politico (io non voto da tempo i partiti che hanno appoggiato le guerre, gli
altri forse sì o sicuramente sì) sia sul
piano della ricerca critica e poetica (per
me tali temi entrano sia in poesia sia nella riflessione critica e sono
convinto che possono indurre dei chiarimenti anche nello “specifico”; altri li
evitano o li tacciono, suppongo in base alla convinzione che la poesia è autonoma
dalla storia. Più banalmente e drasticamente mi è stato detto: “ tu mescoli
poesia e politica e fai brutte poesie e cattiva politica”).
Essendo il discorso su tali questioni pieno di vecchi trabocchetti,
devo ancnora riprecisare che non semplifico affatto il rapporto tra poesia e politica. Ma
insisto sulla sua importanza e consistenza di fronte a chi lo nega o sorvola. Non
sono certamente gli eventi esterni o la storia a guidare direttamente o
immediatamente la mente e la mano del poeta. Figuriamoci. Né sono così
schematico dal disconoscere la verità, ormai banalizzata, per cui un testo
poetico, anche trattando solo di un fiore, possa contenere più storia o
politica di un testo di piatta propaganda o d’immediato sdegno. (Di solito faccio
l’esempio di Celan, a cui m’inchino).
Resta il fatto che c’è la possibilità di misurare una poesia dai suoi
legami espliciti o impliciti con la storia (e la politica). E questo per me è un criterio valido che può avviare un
chiarimento nel ceto medio poetico. La poesia va
misurata con qualcosa di esterno alla poesia. Per alcuni può essere Dio, per
altri il bisogno di Bellezza o di libertà. Persino il criterio dell’ autonomia
della poesia è esterno. Per me è il bisogno di polis (o il dramma derivante dall’assenza di polis). Questa misura esterna è necessaria. Quando viene celata o
mascherata, impedisce o danneggia il chiarimento che potrebbe avvenire. Bisogna
dialogare, polemizzare criticare affinché tale chiarimento avvenga fino in
fondo.
[Continua]
[1] Ad es., la contrapposizione che
Ivan Pozzoni ha fatto (qui) tra contestatori
come lui e codini come me, ammesso che i termini siano adatti, è tutta di
parole e appunto simbolica. Allude a vecchie contrapposizioni ma non alla nuova,
vera contrapposizione per ora non esplicitabile proprio per la mancanza di
condizioni reali che le potrebbero dare
un senso non puramente soggettivo o
personale. Egli si può appellare alla figura di Papini ed io, per controbattergli
a quella di Fortini e Linguaglossa a quella di Ripellino o Mandel'štam e i quotidianisti a quella di Sereni
o di Giudici, e così via. Ma ne
deriverebbero delle pose “discepolari”, che svelano solo gli “immaginari di
partenza” di ciascuno di noi, quelli a cui siamo più legati. Perché al presente
né un individualismo anarco-aristocratico o papiniano di cui parlava Pozzoni né
un fortinismo “comunista” né ogni altra
impostazione hanno più dalla loro una accertabile “sostanza” attiva nell’oggi. Ci vuole una cornice, un progetto entro il quale
questi riferimenti simbolici
assolverebbero alla funzione benefica che ha un riferimento al passato.
Sono i vivi che interrogano e scelgono il passato e non viceversa. Basti pensare che, a meno che tutto il ceto
medio in blocco non condivida la reale politica di potenza dei dominatori d’oggi
(statunitensi soprattutto e ancora), non esiste di fatto nessuna politica di
potenza alternativa né un movimento di rivolta che preluda che so
ad un neo-comunismo, che potrebbero portare una parte del ceto medio a
decidersi di uscire dal vago.
[2] «Il primo testo, quello di Graheme
Turner [Ordinary People and the Media.
The Demotic Turn (2010) ], ci spiega consapevolmente la forma
sociale del nuovo populismo. Il demotic turn è infatti la
rappresentazione sociale egemone della ordinary people , profondamente radicata
nelle culture popolari attuali (che sono prevalentemente digitali). Una
rappresentazione che esce da diversi decenni di narrazioni mediali, compresa la
loro recente rielaborazione del web 2.0, dai reality, dalla continua
compenetrazione tra star system e gente ordinaria (che crea il linguaggio
popolare sulle star), dai microfoni aperti alle trasmissioni radiofoniche, dalle
miriadi di rappresentazioni di tutto questo nei cellulari sugli smartphone, dal
riflesso di questa egemone dimensione simbolica nella vita quotidiana. Ecco
quindi le forme di connessione sociale del nuovo populismo nella
rappresentazione della ordinary people, forme che sono profondamente innestate
nelle nuove figure del lavoro precario e instabile. Il “né di destra né di
sinistra” di Grillo, un classico del populismo vecchio quasi quanto la destra e
la sinistra, guarda quindi a questa rappresentazione italiana della ordinary
people, alle sue forme di connessione simbolica e quindi in una pluralità di
piattaforme mediali che elaborano identità valide anche per le figure sociali
del lavoro.» (da http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/2186-nique-la-police-beppe-grillo-e-la-regressione-modernizzatrice.html)
[3] A riportare la mia attenzione su di essa è stato un post di G. La Grassa letto sul
Web.
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