Tabea Nineo 1990
Divergevano due strade in un bosco
ingiallito, e spiacente di non poterle fare
entrambe uno restando, a lungo mi fermai
una di esse finché potevo scrutando
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi presi l’altra, così com’era,
che aveva forse i titoli migliori,
perché era erbosa e non portava segni;
benché, in fondo, il passar della gente
le avesse invero segnate più o meno lo stesso,
perché nessuna in quella mattina
mostrava
sui fili d’erba l’impronta nera di un passo.
Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno!
Pure, sapendo bene che strada porta a strada,
dubitavo se mai sarei tornato.
Io dovrò dire questo con un
sospiro
in qualche posto fra molto molto tempo:
divergevano due strade in un bosco, ed io…..
io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta.
(Robert Frost, “La strada non
presa”, Traduzione di G. Giudici)
1. Coincidenze
Sul sito
(cuginastro?) di "Le Parole e Le Cose" ho letto «Il romanzo nell’epoca della postletteratura» (qui). Il saggio - una introduzione di Carlo
Carabba a L'inferno del romanzo del
francese Richard Millet - sfiora appena il tema ‘poesia’, ma ho trovato delle
coincidenze non casuali tra i suo concetti di «epoca della postletteratura» (la
nostra d’oggi) o di «estetica postletteraria» e i discorsi sulla «post-poesia»
o sul’«epoca della stagnazione» spesso accennati, sul questo blog e altrove, da
Giorgio Linguaglossa.
Per farsi un’idea, vediamo nella sintesi di
Carabba cosa si intende per
«postletteratura». Per Millet:
«Postletterario
è chi «scrive senza avere letto» (af. 277), la sua principale caratteristica è
scrivere senza rendere conto di trovarsi in una tradizione: «Nei postletterari,
tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e
nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio» (af. 346), o
anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico» (af. 233).
L’autenticità data dall’immediatezza è obiettivo dello scrittore postletterario
e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di
autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria» (af. 3); «il
romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica
obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con
l’immediatezza dell’autentico per unico argomento» (af. 92). […] In poche
parole l’autore postletterario è quello che considera la letterarietà come un
disvalore, che rinuncia a interrogare la tradizione a favore di uno
spontaneismo compositivo, in cui l’atto creativo può rispondere a certe regole
più o meno apprendibili e formalizzabili, ma mai a uno sguardo sull’«abisso
come principio di conoscenza» (af. 290)».
Ed
ecco come (sempre nella sintesi di Carabba) vengono indicati i dilemmi
dell’estetica (o del gusto) nell’«epoca della postletteratura» e si potrebbe
aggiungere senza forzare troppo della «post-poesia»:
«E la
domanda regina che comprende tutte le altre è: nell’epoca del «totalitarismo
della democrazia» chi decide del gusto? Una maggioranza sovrana, un capitalismo
che manipola una maggioranza bovina, sfruttandone le pulsioni più basse, un establishment culturale fintamente
indipendente e colto ma in realtà profondamente superficiale e «postletterario»
o un drappello di uomini coraggiosi e nobili che oppongono una sapienza dolente
e dolorosamente acquisita alla stoltezza dei tempi? O è ancora possibile
pensare, almeno in qualche misura, a un buon gusto cartesianemente diffuso in
parti simili tra gli esseri umani? In un motto è la questione irrisolvibile
degli arbitri elegantiae e delle preferenze
irragionevoli del pubblico.
L’oggi del
blog e il domani dell’ebook portano con sé la paura di cui Millet parla, di una
cattiva orizzontalità (come la proverbiale notte delle vacche nere di Schelling
su cui ironizza Hegel) in cui tutti i romanzi avranno pari dignità e sarà
impossibile tentare di ristabilire gerarchie che non siano quelle del mero dato
commerciale.
Pare che
Alberto Arbasino osservasse che, con i criteri delle classifiche di vendita, il
miglior ristorante del mondo sarebbe McDonald’s. Eppure laddove alla tirannia
del mercato si è sostituita quella della critica letteraria, i risultati sono
stati ancora peggiori. Lo stato della poesia oggi è miserevole. Non è letta,
non è amata, anche molti lettori colti (e conoscitori dei poeti della
tradizione) davanti a una raccolta scritta da un poeta contemporaneo storcono
il naso e alzando le spalle si schermiscono con finta umiltà: «Sai, io la
poesia non la capisco.» Così al poeta non resta, se vuole essere letto e
apprezzato, che rifugiarsi in scuole e consorterie, che – più rigide dei corsi
di scrittura creativa – impongono regole a cui non si può non rifarsi e da cui
si ingenera un fiorire di poeti indistinguibili gli uni dagli altri, poesie di
maniera, banalmente e interamente aderenti a un modello.
La
letteratura, dunque, non può fare a meno di un pubblico. Può darsi che Millet
abbia ragione, e da fare non resti nulla, se non contemplare, con la
soddisfazione e il dolore di Cassandra, la fine già in atto.»
Noto che
da più parti ci poniamo gli stessi problemi. Giancarlo Majorino» ha parlato di
recente di «dittatura dell’ignoranza».[1]
Anche il mio discorso sui “moltinpoesia”(qui))
rientra in questa cornice. Come vi rientra quello che Giorgio Linguaglossa va
facendo da tempo sul «predominio culturale della piccola borghesia», sul quale
concentrerò la mia attenzione in questo scritto, partendo da una domanda: perché si oscilla tanto tra disperazione, profetismi, piccole risse, ripetizioni in farsa di vecchie contrapposizioni?
2. Uscire dal pantano. Siamo tutti ex-piccolo borghesi, meglio cetomedisti
Provo a
dare una risposta: perché stiamo parlando di noi stessi, delle nostre
ambivalenze, delle nostre sudditanze convenienti e mascherate, delle nostre
eroicistiche ma a volte inconcludenti solitudini. Perché, in altri termini, siamo tutti ex-piccolo borghesi, siamo i cetomedisti della poesia.
Non è
un’affermazione qualunquista. Né vuole essere solo provocatoria. È che i
discorsi inter nos tendono al
moralismo (io sono diverso - e sotto sotto superiore - da questi a cui mi
rivolgo) invece che alla politicità (siamo
tutti io-noi diversi, discordi, in cerca di un noi possibile, ma non più
garantito). E moralistico è stato l’uso della categoria piccola
borghesia, che da marxista è diventata
negli anni Ottanta del Novecento berardinelliana-enzensbergerghiana;[2]
Il moralismo non ci fa vedere quanto sia cambiata la realtà della società né
capire che il ceto medio, concetto sostitutivo, sia in effetti un
‘concetto-ripostiglio’ troppo vago: rimanda a una realtà che andrebbe indagata,
ma che nessuno o pochi indagano. Queste
cose in parte le avevo già scritte nel 2010 a Giorgio Linguaglossa in una lunga
lettera (qui); e avevo citato pure una delle
poche analisi serie del fenomeno, quella di Sergio Bologna (qui). Senza ricevere né smentite né approvazioni. E anche
questo me lo spiego con la vischiosità della nostra condizione. Vivendola dall’interno, anche le differenze che
tentiamo di stabilire (che io tento a stabilire, che Giorgio o altri tendono a
stabilire) non riescono a portare più a
uno scontro chiarificatore neppure tra noi. Eppure è necessario uscire da questo
caos calmo”[3]
Perché questa vischiosità? Procedo per piccoli passi…
3. Non esiste
un «paradigma stilistico-politico della piccola borghesia»
Se si
potesse parlare di un mandato affidato dal
Capitale alla piccola borghesia (per me non più piccola borghesia ma almeno ceto
medio), (come una volta si parlava di mandato della classe egemone o
subordinata agli intellettuali, poeti compresi), il discorso potrebbe già
diventare meno nebuloso. Ma tale mandato non esiste. Chiediamoci, infatti, se il «predominio culturale» sia oggi davvero quello della piccola
borghesia, come sostiene Giorgio. Anche se
certi suoi rappresentanti pubblicano
con Mondadori e altri no, una differenza stilistica discriminante tra loro e i
non pubblicati dalle grandi case editrici
non c’è. E non ritengo possibile parlare di stile internazionale della piccola borghesia, come Giorgio ha
fatto, ad esempio, nel post su Hass (qui).
In Italia
i poeti che egli colloca nel “quotidianismo” o nel “minimalismo lombardo-romano”,
volendo accettare senza cavillare la giustezza delle categorie, non sono
davvero dominanti, non sono veri
«funzionari del capitale» (La Grassa[4]).
Hanno semmai un certo seguito e una funzione sociale minima (ne ha di più la
narrativa alla Saviano…) e il loro ruolo è appena di prestigio, onorifico. Neppure
il sistema massmediatico preferisce e potenzia
i “quotidianisti” o i “minimalisti” ma i reality show. Forse si potrebbe dire che “i quotidianisti” si siano
adeguati al sistema massmediatico imitandone gregariamente quello stile
emozionale, pubblicitario, spettacolarizzato. Non per questo ricevendo un
mandato o svolgendo un’azione di evidente egemonia culturale, che è al massimo
di nicchia.
Per me -
e qui una ragione di dissenso con Giorgio - non c’è, non si è affatto affermato
un «paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio
Mediatico». La crisi della poesia non è dovuta all’affermazione di tale
paradigma. La crisi, semmai, nasce dal non avere più questo ceto medio in
poesia (ma operante anche in letteratura o nei vari saperi umanistici) la
possibilità di autorappresentarsi rapportandosi o a un noi borghese o a un noi proletario.
I dubbi
perciò su questo primato sono tanti e richiederebbero analisi puntuali e
documentate, che qui non posso neppure
tentare. Allora - direi - possiamo pure criticare un certo settore della poesia
d’oggi - i “quotidianisti” o i “minimalisti” -, ma non perché abbiano vinto e
imposto un loro paradigma, ma perché si sono adagiati nella “quotidianietà” e
non si pongono di fronte al vuoto che si
è creato (quello che ho chiamato una volta del «Conflitto sconfitto»). Non sono
in grado di nominarlo, dirlo anche in poesia, ma ci danzano su, ignorandolo,
infittendo la rete dei loro pensierini poetici chiusi in un presente che non
scorre, che è senza porte verso il passato e senza finestre verso il futuro; e
che essi registrano nella sua “prosasticità” senza vie d’uscita.
Allo
stesso tempo, però - questa è la mia convinzione - dobbiamo anche criticare i
nostalgici della poesia premoderna, perché anch’essi sfuggono lo stesso vuoto
magari finendo in qualche Arcadia artificiale o passato mitico ridotto a culto privato; e rimangono - per l’oggi - negli interstizi di questa
società più o meno fieri e imbronciati.
Da questa
rimozione del vuoto (che è per me
soprattutto vuoto storico, sociale,
politico) complicazioni e equivoci
irrisolti e inediti.
[Continua]
[1] Giancarlo Majorino, La dittatura dell'ignoranza, Marco Tropea Editore, Milano 2010
[2] Cfr.Alfonso Berardinelli, L’esteta e il politico. Sulla nuova piccola borghesia, Einaudi, Torino 1986
[3] Caos calmo è un film del 2008 diretto da Antonello Grimaldi e interpretato da Nanni Moretti,
[4] Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, manifesto libri, Roma 2005.
11 commenti:
Il Nuovo.
E' crollato un albero da frutta
carico come il mio stare
in questa terra dove il frutto
non sa per chi resistere.
Io e la mia angoscia osserviamo
il suo malandare, ma non so perdermi
come s'è perso il tempo del raccolto.
Io raccolgo quel succo quel fiotto
non ultimo sarà sulla terra.
Io con la mia mano che porta
un anello e unghie smaltate.
Lo strappo al passato, al venire
sarà di buon volere ,di un solo nocciolo
in questa mia terra ricca di suo.
EMY
ma questo qua sopra che commento è?
Qualcuno capirà. Emy
Quando Millet parla di «autenticità dell'immediatezza dell'estetica post-letteraria» del nuovo romanzo, noi possiamo estendere questa categoria anche alla poesia contemporanea. Anch'io parlo spesso di «post-contemporaneo e di post-poesia» intendendo sostanzialmetne un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato (e dimostrato) la fallacia delle direzioni di ricerca di quello che ho indicato con le categorie di minimalismo, del post-sperimentalismo e del post-esistenzialismo milanese. Quello che mi sono sforzato di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca peccano per l'essersi arenate in una scrittura poetica, come dire, dell'immediatezza, quasi che l'autenticità della scrittura poetica (e del romanzo) la si possa agganciare appunto con l'amo dell'immediato e del presente. Nulla di più errato e fuorviante!
Per quanto riguarda il paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico, detto in soldoni, volevo alludere non al concetto di «egemonia» (fuorviante e inappropriato) ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca e del quotidiano) sarebbero perfettametne digeribili dagli stomaci della post-massa acculturata del Ceto Medio Mediatico. Vorrei anche stigmatizzare l'affermazione di «dittatura dell'ignoranza» usata da Majorino, ma non per contestare Majorino quanto per prendere le distanze da ogni approccio moralistico al problema del paradigma moderato che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta hanno abdicato dal campo di una poesia che non accettava qul Modello culturale (Montale, Pasolini, Giudici, Sereni, Sanguineti). È un po' tutto l'establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa. Si è creduto che una sorta di neutralismo potesse essere sufficiente, ed invece proprio quel neutralismo ha finto per disarmare pesantemente la poesia delle generazioni successive le quali erano del tutto impreparate a fronteggiare la nuova offensiva demotica e mediatica. Inoltre, il ritardo storico della cultura di ascendenza marxista non permise di vedere con chiarezza quel nodo che, a tutt'oggi, non è ancora stato sciolto.
Io ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto da chi sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche. Non escludo che ci potrebbero essere dei buoni poeti, quello che escludo è che fin'ora nessun poeta italiano è stato capace di fare quella riforma del discorso poetico nelle dimensioni dallo stato delle cose. Certo, ci sono stati Fortini, Ripellino, Helle Busacca, l'inedita Maria Rosaria Madonna, la bravissima Maria Marchesi... ma ancora c'è da scalare la salita più ripida, c'è ancora da sudare le sette fatidiche camicie...
Trovo spunti comuni di verità tanto in Millet, che in Ennio che in Giorgio. Quel che resta, come fattore comune, è comunque questo vuoto, questa aporia che non porta in nessuna direzione. Non è la quiete in senso buddhista, l'immobilità di chi sa che tutto è illusione e apparenza, ma vero e proprio immobilismo, paralisi, risultato di incapacità, di mancanza di coraggio e di originalità. I canoni stabiliti da Pasolini, Montale, Giudici, Sanguineti e i par loro, vengono ripetuti ad nauseam ma privi perfino di quel guizzo di autenticità originale.
Credo davvero che, se si vuole tornare a un linguaggio delle origini, alla fonte, si debba fare come Picasso, che in apparenza disegnava "come i bambini" (o così qualche ingenuo ancora dice), ma lo poteva fare perché prima di tutto era un pittore e un disegnatore non inferiore a Rembrandt o a Velasquez. PRIMA si deve sapere, POI si può distruggere e ripartire nudi.
Credere di poter fare a meno dell'enorme peso del passato, del gigantesco bagaglio culturale che ci portiamo dietro, solo per ignoranza, e avere la pretesa che i belati siano odi pindariche è non solo ridicolo, ma è un atteggiamento da cui prendere le distanze con fermezza.
A Francesca Diano:
le tue osservazioni fanno riflettere e credere nelle capacità di un passato che senza di esso nessun futuro avrebbe senso. Il linguaggio delle origini va rivisto come l'essenza del vivere che oggi viene trascurata a vanfaggio diun nuovo che vuole attingere da un pozzo privo di sorgente. Non voglio certo condannare un presente che si esprime come può, ma perchè chiedergli cose che non sa esprimere? Il cambiamento c'è stato e sempre continuerà ad esserci ma chi giudica deve anche sapere insegnare. Grazie ti seguo sempre. Emy
Grazie Emy, anche io ti seguo e so la passione che metti.
Il problema sta nella rimozione. Le vie nuove, che non possono però essere programmate a tavolino (sempre per rimanere con Picasso, che affermava: "io non cerco. Trovo", ma ovviamente nulla si trova se non si esplora, se non ci si apre alla possibilità del nuovo)vengono tracciate dagli esploratori. E di esploratori ce ne sono pochi in ogni fase storica. L'esploratore si mette in viaggio e va. Ma non senza avere una bussola e un sestante. Cioè degli strumenti di orientamento. Magari cerca una tomba e trova una città sepolta, o cerca le sorgenti del Nilo e trova due laghi immensi.
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