L’incontro del 31
gennaio 2012 del Laboratorio Moltinpoesia era intitolato La polis che non c’è. Tre modi di interrogarsi in poesia sul venir meno
della polis e della società civile. Si partiva da tre recenti raccolte (la
mia, Immigratorio; quella di Roberto Bertoldo, Pergamena dei ribelli e quella di Gianmario Lucini, Il disgusto), chiedendo a ciascuno degli
autori di pronunciarsi su quelle degli altri due. Pubblico per ora sul blog i miei appunti di lettura sulla raccolta di
Bertoldo. Successivamente pubblicherò quelli sulla raccolta di Lucini. Ed
invito entrambi a rendere noti, quando possono e se vogliono, i loro. [E.
A.]
1. Vorrei che non parlassimo in
generale sul tema della polis che manca,
ma partendo dalle nostre raccolte recenti. In quelle cercherei i segni di
questa mancanza, di questo vuoto (della polis, della società civile).
2. La ragione dell’accostamento,
improvvisato ma non capriccioso o casuale, delle nostre tre raccolte si
giustifica per un elemento che le accomuna: tutte e tre tendono a un bilancio, a
un rendiconto: di un vita di un certo Vulisse[i] e di un pezzo di storia dell’Italia (dal
dopoguerra agli anni Settanta) la mia; di un’epoca più generale e senza date
(Bertoldo); di un vicinissimo biennio 2009-10 (Lucini).
3. Che c’è al posto della
polis che manca? Lo dicono già i tre titoli delle raccolte :
- Immigratorio allude a una sorta di esodo basso e senza varchi verso uscite speranzose o terre
promesse; e si vuole “disciplina di un duraturo purgatorio”, dunque senza finale
paradiso;
- Pergamena dei ribelli è una testimonianza “all’antica” (in senso
positivo), scritta su un supporto (la pergamena o cartapecora appunto) di epoca
preindustriale; e il suo autore è consapevole con lucida amarezza che
sarà ignorata o svalutata (“Disprezzerete anche questa pergamena”….);
- Il disgusto rimarca un rifiuto,
un’insofferenza quasi fisica rispetto a fatti e personaggi di un presente che
nega e oltraggia ogni dimensione umana
del vivere.
4.
Esco da un equivoco. Non so se l’opinione sia del tutto condivisa da Bertoldo e
Lucini, ma per me queste tre raccolte
non rientrano nella categoria della ‘poesia civile’ o della ‘poesia dell’impegno’. Ritengo oggi del tutto tramontata quella stagione politica (nei dintorni
della Resistenza) che permise quel
certo tipo di poesia. Non ci sono più i movimenti e i partiti che potrebbero
far da spalla o da sponda a una tale prospettiva. Manca - appunto - la polis. Al suo posto, se volete, c’è una
politica che è esclusivamente amministrazione e che tenta di conservare a
vantaggio di nuove pseudo-aristocrazie l’esistente di una società capitalistica in disfacimento. La hegeliana “società civile” è solo fiacca farsa,
ridotta com’è dai suoi nostalgici fautori, ossequiosi delle leggi della società dello spettacolo, ad etichetta televisiva. E, secondo me, senza un
progetto politico forte e movimenti sociali forti, che oggi non si vedono, non ci può essere neppure ‘poesia civile’ o poesia
dell’impegno. Perché manca una riconoscibile tensione politica, culturale e sociale al tempo stesso verso uno scopo positivo, ben individuato e solidamente pensato. Noi come singoli - poeti o non poeti - possiamo dedicarci per ora soltanto a una infima e oscura opera di supplenza. Forse necessaria, ma senza alcuna garanzia di "incivilimento" o "rinascimento" o "risorgimento". Siamo forse come i monaci di
un nuovo medioevo invaso e dominato da barbari, stavolta più tecnologizzati dei non barbari. Di
fronte alla loro ottusità e cecità l’unica nostra "superiorità" sta in una qualche memoria (non intramontabile e in via di smarrimento
anch’essa) dell’”azzurro respirato dai nostri padri”. È la memoria che resta
agli sconfitti, ai “bastonati della storia”, costretti a muoversi nel sottosuolo del presente. Da talpe più che
cieche di quello che i potenti decidono e fanno in alto. Per quella memoria e per
scommessa restiamo con accenti diversi (che andrebbero approfonditi) “esodanti”,
dico io. O “ribelli”. dice Bertoldo. O “difensori dell’uomo” dice Lucini.
5. Se
la polis manca, ci si può chiedere: cosa c’è, al suo posto , in sua vece, nei nostri versi? E vengo a dire
la mia sulle raccolte dei miei due interlocutori di questo “trio” (improvvisato,
come ho detto, ma non casuale, perché anche nel sottosuolo poetico e culturale
e politico possiamo riconoscerci compagni di viaggio e misurare vicinanze e distanze delle nostre posizioni).
5.1. Dico di Bertoldo. In Pergamena dei
ribelli vedo dominare lo spirito eroici
stico e destruens di ribelli ctonii e titanici. Se posso fare
dei paragoni con autori che ho in mente, i ribelli di Bertoldo non sono quelli positivi del carducciano comune
rustico, ma forse più vicini a quelli
sepolcrali di Foscolo. In queste poesie abitano, infatti, poeti-eroi. Di essi si parla. Si sono scelti (o
sono stati prescelti?) in seguito a una non nominata esperienza di Sofferenza
(“Abbiamo visto i nostri bambini/ aperti come zolle/ e avevano vermi bastardi
anche loro”, 17), che li ha staccati dalla vita comunemente intesa (“Noi
prediletti, abbiamo abbandonato la vita”,13).
Attraversano il “disastro” (14). Sono immersi in una “notte macabra” (18).
Hanno avuto davanti agli occhi paesaggi
cupi (quasi preromantici), dove “ i corvi azzannavano le pianure”(14). Ma ora sono capaci di “irriverenza”. Perché hanno saputo aggredire “la divisa” (21): il
mondo del conformismo e dell’ipocrita ubbidienza. Le loro mani “pestano la
carta/ per l’ostia senza carne e per gli
sputi” (20). Ed essi invitano gli altri al canto (“cantate anche voi che
non sapete/ quanto soffre un poeta”, 31), cioè a qualcosa di più passionale,
che si distacca della comunicazione razionale e argomentante (“è per passione
che ingiuriamo i troni”, 34). Sembra che mirino ad una imitazione di un Cristo
extrachiesastico, un eroe anche lui, “che aveva il suo popolo nei nervi/ e la
passione per gli ultimi” e che “era un corpo nudo” e fu “tradito,/ da dio e dall’uomo!”(42). E,
come il Cristo fustigatore dei mercanti del tempio, disprezzano i “pusillanimi
poeti col cuore in ciabatte” (51). Sono dei “militanti”: soldati della poesia e della bellezza (“noi
vogliamo il foglio dove scavare trincee,/ anche chi scrive si prende le
pallottole/ quando trova la bellezza e la innalza/come una baionetta” (51). Dunque
tesi verso il tragico, dissacratori e distruttori (“Vogliamo una poesia che sdruccioli
sui pavimenti insanguinati/ come le note di un pianoforte bizzarro/ vogliamo gli
uomini che amino la bestemmia” (54).
Bertoldo fa una netta distinzione
tra “ribelli” e “uomini mediocri”. Questi ultimi sono “padroni delle piaghe” e
ingannatori, venditori “dell’anima” (8), “infami”. Hanno“visi grifagni” (9), intelligenza
“di monete”; e, “quando s’affaccia tra i versi” il loro “muso beffardo”, rovinano
al poeta le sue poesie. Dal Noi eroico, che parla al plurale come partecipe di
una solida comunità (“Abbiamo visto le mani” ,18; “Sposteremo i muri con le
nostre arche”, 19; “Abbiamo più mani di quanto servano per un abbraccio”, 28; “Vogliamo
una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati”, 54; “abbiamo costruito
così la nostra casa”, 58) si distingue, come dal coro degli affini della
tragedia classica, il protagonista: un Io-Poeta,
che in singoli componimenti interviene in prima persona. È un Io forte, a tutto
tondo, mai dubbioso, eroico anche lui, aggressivo. Un Io d’altri tempi,
romantici direi. Si rivolge agli altri,
li sfida, li rampogna (abbondano i vocativi in queste poesie: “Voi
uomini mediocri”, “Sappiatela la verità”, “Infami,…”).
Bertoldo rivela nella scelta del lessico e dei toni sempre alti e omogenei la sua
adesione a una tradizione poetica alta (soprattutto simbolista mi pare). Parla in nome di quella. Nell’apparente assenza di
nostalgia, nella fermezza di un rifiuto
che si vuole “cruento” (25) ed è a volte un po’ statuario, non manca - credo a
tratti - un certo estetismo nelle immagini: “La
luce ci osanna, l’arte/ ribella la campagna, la fa/ di un’ottava più
bella” (23). La sua poesia tende al canto, alla declamazione, al gridato, alla profezia, all’invettiva, quasi al
delirio ispirato e rimbaudiano.
In qualche punto colgo persino un certo titanismo futurista: “noi aggrediamo la divisa,
/abbiamo irriverenza”. Eppure, malgrado la sincerità e la forza del rifiuto - questa è la fraterna
critica che mi permetto - prevale una concezione
sacrale della poesia, non a caso definita ‘ostia senza carne’:
La luna parla di questo acume,
si divincola dall’ombra:
voi sapete quale risorsa hanno i
simboli?
Le mani di un poeta pestano la carta
per l’ostia senza carne e per gli
sputi,
l’accusa è questa, invalidi d’amore:
un lago che accondiscende ai suoi
canneti,
un cielo infranto, tutte le albe
irrisolte!
(20)
Balena ripetutamente in questi
versi l'immagine del poeta sacerdote, del poeta vate, intento a interpretare i sentimenti profondi della sua epoca. E
vi colgo un’enfasi, una fiducia nella forza della Parola poetica alta: “tutto sfarinerà sotto la
nostra parola”, che lascia intimiditi e perplessi. Perché, a me che parlo di assenza della
polis, Bertoldo contrappone un antico rapporto con gli “altri”: quello del Poeta (vate) con il Popolo in nome del ‘sangue che abbiamo versato in queste poesie’ (26).
Ma cos’è il
‘popolo’ oggi? Me lo chiedo ancora più guardingo e scettico di un tempo, perché ho nella
mia memoria la lezione di Scrittori e popolo di Asor Rosa o la
critica fortiniana al populismo di Pasolini.
Anche amore e morte - altra
coppia nobile del romanticismo - alimentano
la carica passionale, violenta e
aggressiva che Bertoldo muove contro le debolezze dei “pusillanimi poeti col
cuore in ciabatte” (51) o il “poeta da diporto” (38), che non sanno osare, che non vanno
in mare aperto, che non sfidano le tempeste:
Gli occhi non comprendono la bellezza
Se non quando le lacrime sono
fatiscenti,
ma quale rovina fa belli i tuoi
versi?
Tu sei un imbroglio senza sensi,
sei ladro che mette i semi nelle
parole
dove la terra è spenta, ma senza
pelle manchi di freddo e ruvido,
senza olfatto ti sfugge la puzza
della povertà e della morte
e senza orecchie, mio poeta da
diporto,
neppure la vita ti dona il suo
canto.
Mi ha colpito a pag. 37 l’immagine dello ‘scarlo’ evocata in questi
versi:
Tu, larva entrata nella storia,
ci rendi edotti della viscidità
del sangue
mentre fai scarlo dei nostri
cuori lignei.
Non sapevo che lo scarlo è il
palo rivestito di erica e ginepro bruciato in segno di rituale ad Ivrea a conclusione del Carnevale come simbolo di
vitalità e di buon augurio. Ma ora trovo che il
termine ben simboleggia la volontà di
essenzialità, di assolutezza, di purificazione violenta che percorre la poesia di Bertoldo. In essa ho trovato anche echi di un
evangelismo irriverente e capovolto:
La tonaca dei versi mi sta stretta,
è una benedizione falsa,
Gesù era un corpo nudo
non c’erano rime sulla sua pelle
e aveva occhi offesi, tra il
cielo
e la terra. Tradito,
da Dio e dall’uomo!
[… ]
togliete il sasso, ribelli!
distruggete l’emerita croce!
Con il suo legno [della croce] si
son fatte librerie,
con la cenere dei morti si son
fatti gli scrittori,
perlomeno salvate la poesia
oh voi che avete affrontato i
secoli
per venire al nostro funerale.
(42)
Questo accostamento irriverente
di religione e poesia, di ribellione e poesia a me pare correre il rischio di
esaltare una funzione salvifica della Poesia (nel caso di Bertoldo distruttiva
o vendicatrice, in altri più accondiscendente e irenica). E mi s’affaccia il fantasma di Fortini con la
sua polemica contro “la sporca religione dei poeti”. Perciò, quando Bertoldo, in una delle poesie
dove il suo pensiero “soprastorico”
(come lo definisce nella postfazione Sandro Montalto) sembra essere "bucato" dal
richiamo a precisi eventi storici e affiora una critica evidente alla
politica israeliana nei confronti dei palestinesi:
A cosa
hanno portato quei tagli
nelle pareti
della Palestina
e gli
oliveti disfatti
come se
la religione fosse un frantoio?
arriva ad
affermare:
Tutte le poesie che accantonano
il male
sono il suo crudele risvolto.
Noi vogliamo l’impoetico
se la vostra avidità di gazza
è sottaciuta dagli inni,
si faccia incetta di questo sale
immenso
affinché i poeti urlino con le
loro ferite
finalmente ecumeniche!
(43)
a me pare, malgrado tutto, che egli recluda i suoi ribelli-poeti nella
dimensione del poetico. Sembra che quel suo “impoetico” debba spezzare la
gabbia della poesia o sfuggire alla “poesia di cloaca” (53). E forse ci riesce. Ma in che direzione si volge?
L’impoetico cos’è, in fondo? S’avvicina forse all’impolitico. E per me
non basta che “i poeti urlino con le
loro ferite”. Il paradosso di questi poeti-ribelli provo a spiegarlo così: denunciare la distruzione del Capitale (che
io nomino e resta, invece, innominato nel linguaggio di Bertoldo) dall’altezza
di un nobile eroicismo e assegnare al poeta un compito di rottura impoetica/impolitica
non intacca il rapporto decisivo che subordina oggi
la cattiva poesia alla cattiva politica. Che sarebbero da combattere assieme. Ma qui si aprirebbe un lungo
discorso. E devo rimandarlo.
[i] Nome che richiama sia l’Ulisse omerico sia il
desiderio (vulisse in dialetto
salernitano io lo rendo con ‘vorrei/vorresti’)
* I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine di Pergamena dei ribelli, Edizioni Joker, Novi Ligure 2011
10 commenti:
1. La pòlis non esiste più perché non c’è più la politica, o la politica non esiste più perché manca la pòlis? Se non esistono più, che cosa è subentrato al loro posto? Viene da rispondere: il “villaggio globale” e l’economia (la finanza, più che l’economia). Di fatto, il potere vero è quello finanziario. Chi amministra la finanza amministra la pòlis. La finanza ha regole inaccessibili al cittadino, incontrollabili dal basso. La finanza esprime una classe politica e la condiziona in una sorta di doppio legame. La finanza deve comprarsi la cultura, per avere consenso o, almeno, il silenzio e l’omertà. E se la compra, e così l’arte, e così la poesia.
2 Che poesia è mai possibile nel tempo della finanza? Io credo due possibilità: a) una poesia “della” finanza, che asseconda questo stato di cose e tende, essa stessa, a farsi gioco di supporto, a costituirsi ad autorità di settore con delega di controllo, finanziata e benedetta dai poteri finanziari; b) una poesia neo-umanista, che parte dall’uomo (sa sotto in su, diceva Abate, ma non necessariamente). Non è necessariamente una poesia di pezzenti, dei ribelli con le pezze al culo (i “poveri”, dico io) che esprimono un sentimento che Nietzche avrebbe chiamato “ressentiment” (Genealogia della morale) ma una poesia di “ribelli”, come dice Bertoldo, di gente che stabilisce con la finanza un rapporto di potere, lottando.
3 E quale arma avrebbero i ribelli per lottare contro la finanza? A mio avviso una sola: la rinuncia. Neppure la lingua, perché ormai la lingua è il codice meno usato nella comunicazione e, per forza di cose, diventa una lingua sempre più im-politica, globalizzata, spersonalizzata. Io trovo che la migliore arma sia la rinuncia. La “povertà”, appunto. Solo la povertà ci può salvare. ma non parlo della povertà con le pezze al culo, parlo di povertà come senso di equo scambio col mondo: tanto devi dare e tanto devi ricevere: non puoi avere più di quello che ti serve, perché impoverisci il mondo e dissipi il mondo. Una povertà, dunque, che è sinonimo di giustizia ma anche di libertà, perché chi non è ricattabile dal bisogno indotto, non concede potere a chi induce il bisogno.
4 Parlo dunque di una poesia dei poveri, che parla di loro, che ne canta l’epopea, che ne costruisce l’epica, ne esprime l’elegia, il lirismo di chi è libero, la forza di chi sfida, il disprezzo per chi opprime, la coerenza di chi disobbedisce. Senza questa base, che è di critica (prima di tutto) alla cultura, non è possibile trovare un canto: si è troppo condizionati dalla storia, troppo impastoiati in regole inique e il canto non viene. E se ci si sforza viene stonato, falso, senza anima né personalità. Una poesia, dunque, alleata con il sentimento di giustizia, con l’orgoglio dell’eguaglianza, col sentimento di sfida di chi non ha nulla da perdere (la poesia, oggi, quella che si candida ufficialmente a diventare la letteratura del domani, è una puttana che ha troppo da perdere per dire cose vere. Questa generazione, se non ci svegliamo, passerà alla storia per la generazione più falsa e più lacchè della letteratura). Non importa se sarà una poesia di 100 copie a tiratura, ma almeno sarà una poesia vera e nessuno potrà dire, domani, che non c’erano ribelli, al nostro tempo, che tutti se ne sono stati zitti e hanno fatto da lacchè a chi finirà per distruggere il mondo e al confronto dei quali Hitler appare un’educanda, un po’ rozza forse ma meno letale.
Ecco un mio piccolo esempio, Gianmario, di poesia dei poveri, parla di loro e i fatti, purtroppo, sono veri
Shamir racconta
Ascoltate amici:
l’hanno trovato dopo che
disperso novant’anni suonati
lo avevano dato al cimitero
inginocchiato sulla lapide che bussava:
torna ti prego sono qui per questo.
Mia madre, mi dice, l’hanno “sparata”
perchè era cristiana, miravano a lui
e lei gli si è parata davanti...
ora mangia solo il formaggio che lei
aveva fatto per lui
finito il formaggio...
blu il cielo disperato la lapide bianca
le lacrime agli occhi.
Alberto
ungarettiana ("Shamir racconta")....ma mica era tanto socialista, ungaretti, pero'...solo umanista. l'umanismo nasce nella polis. basta esserne parte. tuttavia anche rs thomas scrive della comunità politicamente e sociologicamente, e la sua cappella era in un villaggio in montagna: dunque per essere di sensibilità umanistica, devi stare tra la gente. (erminia)
umanesimo, pardon...(erminia), quando sto a Oxford divento soggetta all'uso di anglismi e qui si dice ……humanism....per umanesimo
Chiedo un pane morbido
quello che piace ai vecchi
ai bambini e a me
da spezzare con loro come
se fosse un grande dono
di quelli che si fanno a Natale
ma il poeta non ascolta il poeta
bacio i suoi piedi e le sue mani
niente altro gli chiedo
se non arrivare a domani
per scrivere un giorno
una sola ora
con un po' di quel pane
ancora fra le mani.
Emy
Hanno buon sapore le parole di questa Pergamena dei ribelli.
L'indignazione scorre limpida e impetuosa, pura e immotivata tanto che, all'inizio, non capivo con precisione con chi ce l'avesse l'autore. Quindi mi ero rassegnato al fatto che proseguendo avrei letto di sentimenti privi di causa ed effetto, ma buoni per qualunque vertenza anche se estrapolati a casaccio.
Ora che ho letto fino in fondo ritengo di aver fatto bene, infatti mi sono accorto che, procedendo, queste poesie di Bertoldo svolgono azione terapeutica modificando in modo, per me benefico, la gestalt del lettore. Da quel quel punto in poi ho cominciato a famigliarizzare con i personaggi, tutte le istanze si sono chiarite, e mi sono sentito pronto per sottoscrivere un patto con l'autore facendo anche mia questa Pergamena.
Non mi considero un buon lettore, tantomeno di poesia, per via dell'insofferenza che da sempre mi accompagna e che mi fa abbandonare libri fin dall'inizio e senza alcun rispetto, se non mi vanno. In alternativa, e certo pagandone il prezzo, ho ingerito veleni fino a saturazione. Però in questo libro ho trovato parole anche adatte a me:
Ci sono giorni in cui le labbra luride cantano,
allora lavorano i fianchi le parole, escono di merda -
e per noi la prova è l'infimo,
chiazze di lungimiranza infettano i sensi,
non c'è cazzo di vita nel vivere!
e ci fa paura prendersela con i venti
che scuotono sulla palpebra la notte dormiente,
come quando gli aerei ci passano sulla testa per andare a colpire
e sentiamo noi la scheggia che spezza i bambini degli altri,
il peccato è anche questo essere risparmiati
perché le nostre mani non sanno fermare la disgregazione
di un paese, delle primavere, della paternità.
Non voglio fare il poeta ma amare sì, cristo!
bruciatemi le pergamene all'atto finale,
ma questo cuore lo rispetterete fino all'inferno.
Ah, dico io che sono avvelenato dall'infanzia, quel "escono di merda" come mi piace!
E come non apprezzare quel "non c'è cazzo di vita nel vivere"…
Lo so, in poesia non si fa, le bestemmie di solito se ne stanno tutte relegate nella parola bestemmia quando viene nominata. Il turpiloquio è pericoloso per il poeta, porta all'infimo (appunto), e per prosieguo può portare spesso verso altro torpiloquio. Bertoldo invece sa che può far bene, non teme, è attrezzato stilisticamente. Chi come me avesse scelto, o si ritrovasse nella condizione di usare un linguaggio bassissimo, è servito.
Altre note:
- personalmente sarei portato a chiedere maggiore stringatezza.
Non avendo famigliarità col linguaggio della critica mi limito a qualche esempio:
"Sposteremo i muri con le nostre arche,
le terre saranno senz'altro l'ultima palude
e i cieli provocheranno morbi" …
Perché quel "senz'altro"?
"mentre, come "invece" o "eppure" in altre poesie.
E' per via di questi legamenti, che per altri si risolverebbero in punteggiatura, che parlo di stringatezza ( incalzante). Ma son quisquilie, e a pensarci meglio questo è tutto ciò che di prosastico ho trovato in tutto il libro. Chissà se son echi d'altre letture o scelte ben precise per semplificare lo svolgimento…
- per contro ho potuto leggere versi di cristallina bellezza.
Altri esempi ( ma ce ne sarebbero…):
" La luce ci osanna, l'arte
ribella la campagna, la fa
di un'ottava più bella."
" io voglio abbracciarti come un infame."
"Ma ride il vento e noi non sappiamo
perché ci scompigli i capelli,
dove non abbiamo che tracce di pianto."
"Sulle dita avete l'inchiostro, lo sappiamo.
Lo sappiamo perché noi ce l'abbiamo nel cuore".
In fondo, ma ad essere onesto per prima cosa, questa è la bellezza che vado cercando in tutte le poesie. Ed è anche per questo, perché non ne trovo spesso, che sono diventato un lettore insofferente.
Grazie Bertoldo.
Puoi contare sulle spade delle mie orde di Pinocchi.
mayoor
Mayoor sei sempre da leggere, d'ascoltare.Quell'inchiostro nel cuore" è un vero miracolo e tutto il resto. Meditare fa vivere. Grazie Emy
Ennio:
...
"Ma voi non sapete cos'è il sole
che agguanta gli alberi, vi sfugge l'odore
delle ferite, come trasudi di porpora
la pelle che blandite con l'unghia del capitalismo"
...
pag.58
Ma ce n'è anche per i mistici:
...
" ditelo come si spinge il vento
verso l'astio della rena / aggiornate
le metempsicosi, gretti mistici!"
(pag. 73)
mayoor
Grazie Mayor per aver letto le poesie con il corpo, così come le scrivo. Poi possono non piacere, piacere, ecc., questo deve importare poco a chi scrive, non si scrive per piacere agli altri, ci sono modi molto più gentili per piacere a qualcuno. Le osservazioni che fai sono interessanti, così come lo sono quelle di Ennio, anche lui ha fatto una lettura come il suo solito molto intelligente.
E’ da tanto che non parlo più di poesia in modo critico, la respiro, come quella di Ennio, di Gianmario, e di tanti altri. Come dissi quel nevoso 31, Immigratorio e Il disgusto (avevo letto solo Ballata avvelenata, ma l’ho letto ora, insieme all’ancor più attraente A futura memoria) sono libri che esprimono due forti personalità e oggi c’è bisogno di questo, non di una presunta bellezza.
Con la Pergamena volevo lasciarmi andare all’insolenza stilistica e forse da qui le due parolacce, io che non le avevo mai usate in poesia neppure negli sguaiati anni settanta perché mi parevano retoriche. Forse lo sono, ma chi se ne frega oggi che è in atto la schiavizzazione di tutti i popoli. Certe considerazioni astratte sulla poesia non hanno senso, lasciamole ai figli di papà che stanno ereditando il potere dei loro nonni, anche quello editoriale.
E lo dico anche a Linguaglossa, per quell’eccesso di valore che dà alla scrittura poetica vista dalla parte di un progetto, come se la poesia andasse davvero dietro alle poetiche e non queste dietro ad essa. La poesia non nasce dunque dalle poetiche e neppure dalla poesia, ma dai fatti. Ne sono prova gli epigoni, la loro voce resta impersonale, non si può plagiare il carattere, prima o poi un venduto si vende.
Dopo che ho scritto la Pergamena, tre anni fa, ho capito grazie ad Alfieri cosa avevo fatto del mio stile lirico, nel senso dello strumento musicale e non dell’autobiografia. Ho capito che se la lirica canta, come dice Alfieri, e l’epica canta un po’ meno ma canta, come sostiene ancora Alfieri, è la tragedia che smette di cantare, come dice sempre Alfieri. Iperbati e anacoluti, che mi venivano di getto, ora so che avevano questa funzione naturale: la tragedia mi colpiva ogni parte del corpo e della mente, anche la lingua.
Senza canto, non ci può essere dissonanza, quindi rappresentazione tonale del tragico.
“Come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore”, diceva Quasimodo. E invece possiamo, dobbiamo tentare di cantare, con il petto schiacciato e la voce spezzata, si, ma dobbiamo far sentire il nostro canto o il nostro aborto di canto.
Io ho fatto cantare il popolo ribelle, non i poeti tout court come ritiene Ennio. Il popolo è poeta in sé, dobbiamo a Vico l’idea del popolo fanciullo poeta, perché genuino. Purtroppo non siamo genuini, ma la poesia, quella scritta con il corpo, lo è, sempre.
Concludo il libro dicendo: “Disprezzerete anche questa pergamena / che snocciolo con la protervia / delle mie mani piantate sui muri / con contorni di sangue sanscrita”. Intendo che le mie mani (le mani dei ribelli), mentre sono al muro come poeta disprezzato, sono sporche di sangue perché hanno assassinato la perfezione poetica e, metaforicamente, le caste (“Sanscrita” viene da “Samskrita” che significa “perfetto, compiuto”, indica anche “perfezione grammaticale”; inoltre è la lingua parlata solo dalla casta superiore indiana).
Ma non è spirito destruens, se pure lo sono le poesie ribelli (lo dice la parola, ‘ribelli’ non ‘rivoluzionarie’). Mentre scrivevo Pergamena dei ribelli, scrivevo il saggio Anarchismo senza anarchia. Lì c’è la parte costruens, riformistica (e nel pamphlet Chimica dell’insurrezione c’è quella rivoluzionaria). In me la poesia non sorge per ideologia, è alleggerita dell’intelligenza. La polis poi è, privata come oggi dei valori vitali, solo mafia legalizzata, contro cui il poeta può solo opporre la corrispondenza tra il suo dire e il suo fare, in una parola la propria ingenuità.
Trattare la poesia con i criteri della critica significa quindi tracciare segni impuri sul suo candore.
Roberto Bertoldo
Qui c'è sacralità. Sorprendente. Emy
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