lunedì 20 febbraio 2012

Ennio Abate
Su sacro e poesia



Marilena De Angelis, Sacro e profano
  La rilettura attenta di un post “vecchio”  e dei suoi commenti è un esercizio criticoche permette di capire meglio cosa carichiamo sulla navicella del Laboratorio Moltinpoesia. Mi sono riletto in questi giorni lo scambio di opinioni espresse su poesia e sacro nel post intitolato "Rita Simonitto, Sugli ultimi commenti  apparsi in Moltinpoesia" [qui]. Ed ecco le mie riflessioni. [E.A.]

Tanti i dubbi (spero fecondi) leggendo i vari commenti. Li sistemo per punti schematici e li ripropongo magari in tutta la loro  immediatezza e probabile rozzezza, ragionandoci a modo mio, senza  troppe stampelle teoriche, con l'intento di rilanciare la discussione e trovare anche qualcuno/a  che mi aiuti a dipanarli:

1. Il sacro sarebbe «ciò che non muta»? Ma c’è davvero qualcosa (sacro o meno) che non muta? C’è qualcuno/a che l’ha raggiunto ed ha accertato (intellettualmente) o sentito (emotivamente) questa sua immutabilità? E come si fa a dichiarare immutabile qualcosa se non si ha la possibilità di conoscerla o sentirla? Qualcosa, cioè, d’ignoto, di cui - si dice (dice Mayoor, ad es.) - si sente «l’influsso… notevole… come quando vai al mare e lo senti ben prima di arrivare». Al mare ci arrivo e posso accertarmi in qualche modo che ho sotto gli occhi  proprio mare. Il sacro, invece? Chi mi assicura che il qualcosa a cui mi avvicino o che vedo/sento sia proprio il sacro?
2. Si dice poi (sempre Mayoor) che di strade per arrivarci «ce ne possono essere diverse». Non vengono però (almeno in  questi suoi commenti) indicate. Ma, ammesso che tutte le strade (o alcune), portino al sacro, il punto di arrivo (il sacro), restando in genere  in ombra o relativamente (troppo relativamente per me…) ignoto, mi fa dubitare (un po’) anche sulle strade indicate da guide più o meno autorevoli.

3. Non capisco perché la realtà (altro concetto indefinito nei vari commenti…) sia dichiarata sacra. Posso accettare, sulla base dell’esperienza mia o di altri ai quali do credito, che sia sorprendente, inattesa, sconvolgente, impensata, terribile, terrorizzante o liberante, entusiasmante, scioccante o altro ancora. Ma perché sacra? E poi tutta, Interamente?

4. Sembrerebbe che il sacro sia stato sottratto alla gente comune dai “religiosi” e che si sia arrivati (come? è secondario saperlo?) a una divisione tra cosiddette “cose terrene” e cosiddette “cose spirituali” o tout court (senza virgolette dubitative) ‘spirituali’; e cioè non visibili, non percepibili dai sensi (che pur possono confonderci o ingannarci, ma in parte ci garantiscono un minimo di certezze stabili, senza le quali saremmo in uno stato di continuo allarme) e accessibili invece attraverso un affinamento particolare del corpo e della mente («Ora et labora»; il disciplinamento dei corpi studiato da Foucault, esercizi spirituali, ecc.) , di cui i singoli non vengono in possesso autonomamente, ma sempre e solo con la mediazione di specialisti più o meno istituzionali (sacerdoti, guru, maestri, etc.). Sono essi che fanno da guide, da Virgilio, perché sanno o si suppone che sappiano prima di te (o di noi). Non contesto l’evidente divario che esiste in tutti i campi tra chi sa e chi non sa o sa di meno. Dico però che, se  sottrazione di sapere (o di saperi) c'è stata da parte di alcuni su altri, essa dovrebbe aver riguardato un intero e non una sua sola parte soltanto (il sacro). Mi pare più probabile, infatti, che abbia riguardato sia le cose che a un certo punto abbiamo cominciato a definire terrene sia quelle che abbiamo  finito per chiamare spirituali. Non, dunque, solo queste ultime. E la sottrazione dev’essere accaduta in un certo tempo (storico), in epoca relativamente recente.

5. Mi sono andato a rileggere la voce Sacro/Profano che Alfonso Di Nola scrisse per la vecchia Enciclopedia Einaudi, Vol. XII e ho trovato due affermazioni, che andrebbero approfondite, anche perché mi paiono parzialmente in contrasto:

1. Nelle società arcaiche non c’era la cesura (tutta occidentale e moderna) fra sacro e profano ed esisteva un atteggiamento “totalizzante” nei confronti del reale: «ogni atto economico, anche fondato su una conoscenza tecnologica arcaica, è contemporaneamente un atto sacro» (p. 314), per cui in  quelle società «nulla è sacro e nulla è profano nella valenza lessicale e ideologica da noi attribuita alla coppia sacro/profano» (p. 317).

2. Non  si deve pensare all’uomo arcaico come se egli fosse «in una permanente immersione nel sacro» (p.316), poiché, al contrario, anche in quelle società veniva avvertita «la diversità fra il momento della laicità-profanità e quello della sacralità» (p. 316).

Da una parte pare di capire che gli uomini di allora non separavano così nettamente sacro e profano come si è fatto dopo. Dall’altra che essi un po’ di diversità tra sacro e profano lo avvertivano già allora. (Sarebbe da rileggere anche la voce Mito/rito nel vol. IX della stessa Enciclopedia Einaudi e ritornare sulla domanda fondamentale di Marcel Detienne: «I Greci credevano ai loro miti?», ma per ora salto..)

6.  Se il “reale (da definire in qualche modo!) è stato dunque espropriato, sottratto (ai molti, alle masse, ai popoli, ecc.), propendo a credere che lo sia stato nella sua interezza. Non ne sono certo.  Posso  ricredermi, ma  mi convince di più questa ipotesi. Ormai le cose intere o nella loro interezza si fatica persino a immaginarle, perché, quando discutiamo (e specie di cose sfuggenti) - non so se per comodità o abitudine a semplificare o per sottomissione alla specializzazione spinta dei saperi più complessi - siamo portati facilmente a segmentare. E quindi ad accettare distinzioni consolidate nel linguaggio (“terreno”, “spirituale”, “economico”, “politico”, “culturale”, “filosofico”, “scientifico”, “psicologico”, eccetera), come se stessero nella “realtà” e non fossero costruzioni della nostra mente. Così s’impongono come degli assoluti, mentre ci mostrano solo “pezzi” della cosiddetta “realtà”. Non dico che di tali distinzioni possiamo fare a meno, ma qualcosa (l’insieme? e solo l’insieme?) si è perso o si perde. (Con quali danni?).

7. Ci aggiriamo dunque nelle “gabbie” di  vari saperi. In certi campi l'esplorazione è giunta così in profondità che non basta una vita per impossessarsene). Eppure abbiamo saperi scollegati tra loro.  Mancano i ponti per passare dall’uno all’altro. E facilmente, come quando non si praticano lingue straniere, si finisce  per starsene solo nella propria, perdendo ogni curiosità per il resto. Pertanto se - altra affermazione di Mayoor - «le letture economicistiche del reale»  sono parziali, direi che lo sono altrettanto le altre letture: le religiose, le teologiche e,  più in generale, tutte le letture umanistiche (oggi “scienze umane”) e (in misura minore?) quelle scientifiche (degli specialisti dell’economia, che oggi annaspano davanti alla crisi ma  anche di altre discipline). E non  pare che la storia abbia dimostrato la parzialità o l’insuccesso  solo di alcune di queste letture (le “economiciste”)  e il successo  o la riuscita delle altre. (Forse che le religioni hanno ottenuto risultati migliori, hanno prodotto meno danni - guerre, disastri, infelicità - delle scienze?).

8. Su questa parcellizzazione della conoscenza si sono costruiti dei poteri storici (istituzioni di vario tipo: dallo Stato alle Chiese, alle Università, alle Fondazioni che arruolano teste d’uovo), i quali hanno imposto i loro metodi di ricerca e valutazione, soppiantando precedenti autorità.  E' importante cercare di capire che accumulo di potenza (in parte reale, in parte fasulla) hanno capitalizzato tali istituzioni, sia per evitare di  diventare inconsapevoli tifosi di quelle più forti sia per non contrapporvisi astrattamente.

9. Non dico perciò che quei saperi siano tutti equivalenti e di tutti si debba diffidare. Anche perché ciascuno di noi ha una storia (non solo personale) che lo condiziona e lo attira più verso l'uno che l'altro. Ciascuno, infatti, si è formato più in un sapere che in un altro, ha avuto o non ha avuto un’educazione religiosa, più umanistica o più scientifica; e del suo pregresso bagaglio culturale può disfarsi fino a un certo punto. (Anzi sarebbe già un bene se lo usasse con maggiore precauzione, sforzandosi di dare più ascolto a chi proviene da un’altra formazione).

10. Nella discussione Erminia Passannanti ha sostenuto, in contrapposizione a Mayoor, che «il sacro muta eccome, ma molto lentamente, impercettibilmente… ma al passo dei millenni». Se, allora, il sacro «è iscritto nel tempo e nella natura delle cose», fino a che punto può essere  distinto dal resto (cioè dalle “cose umane” o dalle “cose naturali”)? Solo per una sua maggiore lentezza? Che ha di per sé o gli attribuiamo noi?

11. Ma muta o non muta il sacro? Rita Simonitto sostiene l’immutabilità di per sé del sacro. Mutevoli sarebbero soltanto le rappresentazioni che ne diamo. Saremmo «noi che mutiamo» (e aggiungerei: angosciati dal mutamento…) e pensiamo il sacro  come mutevole. Perché altrimenti neppure potremmo concepirlo, essendo «‘altro’ dalla nostra esistenza». La quale, si sa, evidentemente, irrimediabilmente, mutevole lo è, per tutti/e. Il sacro, allora, sarebbe (come il divino?) una nostra costruzione. Rita indica il sacro anche con dei sinonimi:«vuoto, informe infinito» (da Milton) o «’altro’ dalla nostra esistenza».

12. Esiste - mi pare - un continuo slittamento  degli attributi dell’oggetto di cui vorremmo parlare, ma è l’oggetto stesso - il sostantivo sacro - che resta oscuro. Da qui varie contorsioni e difficoltà. Le colgo soprattutto in alcune affermazioni di Mayoor: «Togliamo il sacro, che vedo non piace (e lo capisco), e parliamo allora del permanente»; «la ricerca del permanente ci renderà meno infelici»; se «[portassimo] via il sacro alle chiese», «[faremmo] una buona azione verso noi stessi». A me paiono promesse sulla pelle dell’orso (in questo caso il sacro) prima di averlo catturato.

13. A questo punto nel discorso sul sacro fa il suo ingresso la poesia. Essa, si dice, sarebbe un ottimo strumento per cercare il sacro. Ne siamo sicuri? A me restano tanti dubbi, proprio perché il sacro non è in qualche modo definito. Come faccio ad esser certo che con la poesia posso afferrarlo? Non è che lo inseguiamo, ma poi ci restano in mano solo le metafore a cui ricorriamo per parlarne (muovere verso il sacro, attingere al sacro, rompere il sacro o spezzarlo)? Hanno davvero un legame con la “cosa” (il sacro)? Altrettanto vaghe e confuse mi sembrano istanze del tipo: bisognerebbe «introdurre il pro-fano» (nel sacro? nel «processo» di avvicinamento al sacro?); evitare di «rendere sacri anche gli strumenti di accesso» (al sacro); o quella di sacralizzare il Poeta, il quale sarebbe più di altri «in contatto con il sacro» (e chi l’ha dimostrato?).

14. Non do al poeta la patente di “sacerdote supplente” o di “sacerdote di serie B”, che pur si è assunto a volte   presentandosi appunto come poeta-vate. Sono ancora con Fortini contro «la sporca religione dei poeti».  Meglio fare i conti con la religione tout court e criticarla, se siamo  ancora in grado di farlo e ci sentiamo di criticarla per quel che ha di negativo. Non mi va concedere, come fa Rita Simonitto che «il poeta, solo in quanto ha affinato una capacità di entrare in contatto con il sacro (anche lui quindi un sacerdos, un Vate) potrebbe dirsi sacro. E la poesia, solo in quanto strumento che permette questi contatti, può, se proprio proprio vogliamo spingere, dirsi sacra». La poesia, che con la religione ha avuto certamente nel passato fortissimi legami (andrebbero riletti  e commentati certi capitoli dell’Estetica di Lukács!), può e deve essere criticate sempre. Come dev'essere criticata la religione. Come devono essere criticate le scienze stesse.

15. Che poi l’ars poetica pretenda o abbia preteso (in passato fin troppo spesso) un contatto speciale con «il non-ancora-noto, attraverso un lavoro di pro-fanazione, di distruzione dei vecchi idoli» è vero. Ma è un’autorappresentazione ottimistica e ambigua di processi, che forse  non corrispondono effettivamente a quello che effetivamente avviene o è avvenuto nella produzione di opere d’arte o di poesia. Temo, infatti, che poeti e artisti siano stati o siano tuttora così succubi del prestigio secolare dei “religiosi” da aver sacralizzato le loro pratiche (e ben più del dovuto, e non solo per imposizione esterne di chiese e preti, e a  danno della libertà stessa della loro ricerca) .   

16. Chi mi dice che certi risultati notevoli o sorprendenti nell’invenzione di segni e nella combinazione poetica delle parole non siano stati raggiunti per caso (per tentativi ed errori)?  E non perché, come hanno creduto o sostenuto gli stessi inventori o scopritori, per ispirazione divina («cantami o diva…») o per una particolare  e insondabile facoltà ( il genio?) da alcuni posseduta e da altri no? Se è probabile che «ognuno [abbia] bisogno di idoli, che lo voglia oppure no», resta il fatto che a me (e non solo a me) pare ideologica (cioè non corrispondente a processi reali)  ogni spiegazione della poesia come operazione che avrebbe un contatto privilegiato con il «non-ancora-noto». Proprio per difendere la forza della  poesia, sono convinto che non bisogna concedere un di più ai poeti in partenza o a scatola chiusa rispetto agli scienziati o anche alla gente comune. Neppure che la poesia sgorghi «dall’interiorità», che è un termine  indefinito quanto il sacro.

17. Che l’«interiorità», invece di essere un luogo di maggiore libertà rispetto all’ «esteriorità» o «una specie di ritiro spirituale, come facevano i monaci di un tempo» sia, piuttosto, un altro complesso luogo di conflitto tra spinte liberatrici e spinte distruttive, come ha ricordato  Rita Simonitto appellandosi a Freud, mi pare ipotesi tutta da condividere.

18. D’altronde ho perplessità anche su due altre prospettive affacciatesi nella discussione:  il rapporto tra poesia e realtà e il rapporto tra poesia e tragico. Siamo abbastanza stufi della poesia «da diporto» (Bertoldo) o “leggera” o “quotidianista” o “minimalista” (Linguaglossa). E anche  di quella che insegue mimeticamente il caos moderno o postmoderno o «la vita», registra e si ferma lì. La «realtà» sarà pure complessa o difficilissima da intendere, ma non comanda automaticamente le scelte linguistiche di un poeta. Mi chiedo però se, per distanziarci da queste tendenze, che  oggi sentiamo insoddisfacenti o invecchiate, davvero «non rimane dunque che riappropriarci del tragico». E se dovessimo onestamente concludere di sì, è lecito sapere di quale tragico dovremmo occuparci?

19. Nella discussione Rita Simonitto ha indicato una prospettiva (suggestiva? conciliante? dialettica?): «portare il sacro al pro-fano (viaggio di andata) e […] portare il pro-fano al sacro (viaggio di ritorno)». È una prospettiva che mi pare confermata da Di Nola, quando scrive:

«Eppure il piano della laicità indifferente al sacro non può operare... in una sfera di autonomo e assoluto isolamento dal sacro. Sacro e laicità sono soggetti, in sede di esperienza storica, ad interferenze e scambi che danno origine a fenomeni di commistione... noti... come ‘laicizzazione (o profanizzazione, o secolarizzazione) del sacro’, e, all’inverso, come ‘sacralizzazione dell’orientamento laicistico» (p. 338)

20. Rileggendo alla fine le seguenti definizioni di sacro che ho trovato elencate in Di Nola:

a.  nelle culture popolari il sacro «coacerva, in una fusione amorfa, le ignote e pericolose cose che appartengono primamente ai santi, poi ai morti, poi a dio, al dominio mediatore del prete e dell’uomo di chiesa. Nei confronti di un tale coacervo[…] l’atteggiamento è quello di un timore reverenziale, di un avvertimento di distanza ed inaccessibilità» (p. 335);
b. per Hubert e Mauss il sacro era un “sacro sociale” e vi comprendeva precisi concetti «di separazione, di purezza, d’impurità, e, contemporaneamente, i concetti di rispetto, di amore, di repulsione , di timore»(p. 341);
c.  per Levy- Bruhl esso si presenta come «potenza occulta e invisibile» (p. 345);
d. per Söderblom il sacro è «emozione irrazionale di terrore-reverenza in confronto di alcune realtà» (p. 347);
d. per Otto il termine ‘numinoso’ (che sostituisce il termine ‘sacro’) diventa una essenza, «che si rende accessibile, ma non comprensibile, sul piano delle emozioni e delle reazioni psicologiche” e porta ad una “totale svalutazione della condizione umana»(p. 349)
e. per Eliade il sacro è «il tutt’altro... la potenza a sé..la forza, la vita, forme epifaniche della realtà ultima» (p. 351).

rimango con un dubbio forte e lo esprimo così: la sacralizzazione di ciò che è sconosciuto (il mistero), a me pare sottragga quel qualcosa che definiamo sacro all’interrogazione (poetica o scientifica) che non dovrebbe essere inceppata. Azzardo una prospettiva che detta con un rozzo slogan suonerebbe così: desacralizzare il sacralizzato il più possibile. Non so se coincide con la prospettiva di  andata-ritorno dal sacro al profano e viceversa, di cui parla Rita Simonitto (e forse Di Nola). Ma temo l’indeterminatezza del sacro. Esso  mi appare - forse esagero - una sorta di araba fenice, data per esistente ma mai confermabile. Sia chiaro che io non escluda che possa esserci, ma non mi adatto a rinunciare alle prove e diffido di chi ha fretta e non me le dà.

3 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, un simile argomento mi tira proprio a tenzone. Solo brevi considerazioni su un argomento enorme e spaventevole per la sua vastità.
Mi pare che la prima cosa sia definire il significato di "sacro". E già qui inizia il problema, perché pretendere di definire ciò che per sua natura è elusivo, sfugge all'esperienza razionale, si sottrae al flusso unidirezionale del tempo come noi lo conosciamo, è inconoscibile con gli strumenti della logica razionale, è molto difficile. Una simile impresa richiede la conoscenza di tutte le fonti e i testi, il che attiene più a uno storico delle religioni. Forse meglio sarebbe, almeno per me, che non ho tutti gli strumenti, provare a definirne le qualità, gli attributi, secondo quella che è la mia esperienza. Come specifica Eliade, e in questo concordo, il sacro è un elemento della coscienza e non un momento della sua storia. Sacro (il Numinoso di W.Otto) è ciò che sta al di fuori dello spazio-tempo. Il tempo del sacro, come dice Eliade, è circolare, non lineare. Si manifesta nella ripetizione del rito. L'esperienza del sacro è sempre puntuale e inattesa - non cercata, come l'illuminazione, il nirvana, del Buddismo. E' il Dharma indiano, la legge, la regola, l'ordine dell'universo. Il Mana, la potenza che si manifesta in tutta la sua terribilità. Il sacro non è certamente mutevole, poiché, sottraendosi allo spazio-tempo, non è impermanente (l'impermanenza del samsara). Non "scorre" come la realtà di cui abbiamo esperienza e in cui siamo immersi. E' l'apeiron perièchon dei greci, quella dimensione indisinta, non limitata, "esterna" e minacciosa nella sua inconoscibilità che circonda l'esperienza del conosciuto. E' la forma nella sua essenza eterna, come categoria antitetica dell'evento (Carlo Diano).
Dunque, mi pare che uno degli attributi fondamentali di quello che si definisce sacro, numinoso, apeiron periéchon, forma, Mana, Dharma ecc. sia la sua permanenza, il suo essere al di fuori dell'esperienza materiale e dello spazio-tempo.
Il sacro NON è la religione. La religione - qualunque religione - è una struttura umana che tenta di mediare e organizzare la percezione del sacro. Proprio come il significato etimologico del termine indica (religo - legare, collegare). Dalle culture sciamaniche alle religioni politeiste e monoteiste, il fine è quello di trovare dei mediatori tra il visibile e l'invisibile, all'inizio non come forma di potere, ma per l'immane e pericolosa potenza che il sacro possiede e che solo può essere "controllata", da agenti che ne assumano su di sé tutti i pericoli e i rischi. Da qui a un esercizio arbitrario di questo potere, soprattutto nelle religioni monoteiste, il passo è breve.

Ma, dopo questa brevissima e necessariamente superficiale premessa, vorrei dire qualcosa sul sacro e la poesia.
La poesia nasce come musica. Agli inizi l'una ERA l'altra e il loro carattere inscindibile permane per tempi lunghissimi. Anzi, la musica nasce dalla parola e parola del mito. Dunque l'ambito in cui si muove alle sue origini è quello del mito, cioè del sacro. Più il mito perde il suo valore poietico e sociale, più la poesia si allontana dalle sue origini. Ma v'è un ambito in cui questo non avviene ed è la poesia dei mistici. Mi vengono in mente, così sparsi, Teresa D'Avila, Gerard Manley Hopkins, i poeti sufi e persiani, Rumi, ecc.
In tutti questi poeti il punto centrale è la "sete", la spinta, la ricerca della fusione e dell'annullamento del Sé. Poiché la dimensione del sacro non ammette distinzioni e separazioni e dunque emerge questo tendere alla dispersione dell'Io. Proprio l'opposto di ciò che fa molta della poesia (o di quella che erroneamente passa come tale) oggi.
Ci sarebbe da dire una valanga di cose, ma sono costretta per motivi contingenti a limitarmi. Però ringrazio Ennio di questa splendida discussione.

ha detto...

Ennio, vatti a rivedere, ti consiglio, La Nuova Scienza di Gian Battista Vico, sul sacro e la poesia: è un libro fondamentale.
Erminia P.

Anonimo ha detto...

Di sacro trovo nel passaggio
nell'arrestare le fatiche
per leggerti poeta.

Emy