mercoledì 7 marzo 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "La terra franata dei nomi"
di Gabriele Gabbia


Questo libro di esordio di Gabriele Gabbia si sostanzia in un atto di fede verso il«senso», nella convinzione che la poesia debba (pur in mezzo agli scossoni che la filosofia moderna ha inflitto alla significatività del senso), e possa sopravvivere alla mancanza di un senso complessivo della totalità. Gabbia invece ribadisce che un senso c’è, purtuttavia. Atto di fede che contempla un allontanamento dall’Origine per creare un universo di senso, un deragliamento, uno smottamento, una caccia verso la «traccia» di un senso che è scomparso, inghiottito dalle sabbie mobili dell’Origine sepolta.

Così, la poesia di Gabriele Gabbia si snoda e si svolge, tra resistenze e involuzioni, spezzature e slittamenti, in un viaggio all’interno dell’«io», in uno svuotamento (kenotico) del terreno friabile che ancora costituisce l’«io» quale ultima armatura depositaria del senso. Un viaggio che porta l’autore all’interno di endiadi e di antinomie difficilmente risolvibili nella stilizzazione stretta e costipata che caratterizza la sua scrittura. E anche l’impiego di certi vocaboli velati da una patina di arcaico sembrano prefigurare un arretramento del baricentro stilistico all’indietro, alla ricerca di una tradizione che non c’è, che è franata insieme all’Origine e al «senso».
La poesia di Gabbia si pone come una scrittura patemizzata alla ricerca di un universo di senso che sfugge, sguscia dalle maglie strette del rammemorare l’inattingibile. Di qui il ritorno alla «madre» in chiave lirica, quasi una gnosi dell’anima, che conosce soltanto le tappe della degenerazione e della corruzione, attraverso il percorso della liberazione dalla scorza, dai gusci che ostruiscono il passaggio (ma passaggio verso dove?) verso l’inattingibile.
Così, attraverso «la terra franata dei nomi» il viaggio della poesia di Gabbia si tinge di risvolti gnostici e, come detto, kenotici.


Dimora negli intestini
la terra franata dei nomi.

Là, dove nessuno sa.

Dove non c’è dove
ogni cosa
è radice d’abisso.

Là fiorì il tuo nome


XVI

Non la misura –la summa
il senso delle cose.
Questo
mi dicevo
nel primo pomeriggio
d’un sabato d’autunno
quando
maree di punti
rette in fermento
luci tumulti
e scie d’ignoto
attraversavano
il nulla attraversato.


XLVII

Seduta sulla sponda del letto
la mano nella mano, la luce
rivolta
all’immagine di tuo padre
mentre accendi – ascendi
alle tue preci per noi,
e dentro
il sibilo delle tue sillabe
io – viso illuminato di luce
e pianto – vivo,
per te.

                        Giorgio Linguaglossa



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