Questo libro di esordio di Gabriele Gabbia si sostanzia in un atto di fede verso il«senso», nella convinzione che la poesia debba (pur in mezzo agli scossoni che la filosofia moderna ha inflitto alla significatività del senso), e possa sopravvivere alla mancanza di un senso complessivo della totalità. Gabbia invece ribadisce che un senso c’è, purtuttavia. Atto di fede che contempla un allontanamento dall’Origine per creare un universo di senso, un deragliamento, uno smottamento, una caccia verso la «traccia» di un senso che è scomparso, inghiottito dalle sabbie mobili dell’Origine sepolta.
Così, la poesia di
Gabriele Gabbia si snoda e si svolge, tra resistenze e involuzioni, spezzature
e slittamenti, in un viaggio all’interno dell’«io», in uno svuotamento (kenotico)
del terreno friabile che ancora costituisce l’«io» quale ultima armatura
depositaria del senso. Un viaggio che porta l’autore all’interno di endiadi e
di antinomie difficilmente risolvibili nella stilizzazione stretta e costipata
che caratterizza la sua scrittura. E anche l’impiego di certi vocaboli velati
da una patina di arcaico sembrano prefigurare un arretramento del baricentro
stilistico all’indietro, alla ricerca di una tradizione che non c’è, che è
franata insieme all’Origine e al «senso».
La poesia di Gabbia si
pone come una scrittura patemizzata alla ricerca di un universo di senso che
sfugge, sguscia dalle maglie strette del rammemorare l’inattingibile. Di qui il
ritorno alla «madre» in chiave lirica, quasi una gnosi dell’anima, che conosce
soltanto le tappe della degenerazione e della corruzione, attraverso il
percorso della liberazione dalla scorza, dai gusci che ostruiscono il passaggio
(ma passaggio verso dove?) verso l’inattingibile.
Così, attraverso «la
terra franata dei nomi» il viaggio della poesia di Gabbia si tinge di risvolti
gnostici e, come detto, kenotici.
Dimora negli intestini
la terra franata dei
nomi.
Là, dove nessuno sa.
Dove non c’è dove
ogni cosa
è radice d’abisso.
Là fiorì il tuo nome
XVI
Non la misura –la summa
il senso delle cose.
Questo
mi
dicevo
nel
primo pomeriggio
d’un
sabato d’autunno
quando
maree
di punti
rette
in fermento
luci
tumulti
e
scie d’ignoto
attraversavano
il nulla attraversato.
XLVII
Seduta
sulla sponda del letto
la
mano nella mano, la luce
rivolta
all’immagine
di tuo padre
mentre
accendi – ascendi
alle
tue preci per noi,
e dentro
il
sibilo delle tue sillabe
io – viso illuminato di luce
e pianto – vivo,
per te.
Giorgio Linguaglossa
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