Concludendo il discorso su La polis che non c’è. Tre modi di
interrogarsi in poesia sul venir meno della polis e della società civile pubblico
gli appunti di lettura di R. Bertoldo sulla mia raccolta Immigratorio [E. A.]
Su Ennio Abate, Immigratorio,
Edizioni CFR, Piateda (SO) 2011
La
scelta dell’intersezione di due generi come la prosa e la poesia per realizzare
la pulsione narrativa originaria ha prodotto, in Immigratorio, un depotenziamento lirico interessante per le scelte
stilistiche che lo veicolano. La sottile trama veristica presente a livello
lessicale e epistemologico – pensiamo a Zichilibò, Babbasciò, ma anche al
vecchio pittore Ans che consiglia a Vulisse di «lavorare dal vero» (p. 47),
anche se poi Vulisse abbandona in parte il disegno «dal vero» (p. 48) – trova
espressione sia nelle elencazioni ellittiche e nelle ripetizioni che l’autore
usa a fini descrittivi non simbolici, sia nella struttura popolare, quasi da
canzone, da cui l’uomo emerge in modo ecumenico.
Ma
Abate a differenza di Verga ci presenta un viaggio alla Ulisse e di sola andata
nel Nord capitalista, pur senza disdegnare un orientamento rivolto al passato.
Se Ulisse non veniva trattenuto dagli affetti per Telemaco, Penelope e Anchise,
come ce l’hanno ricordato fra i tanti Dante e Mallarmé, l’esule Abate ha, insieme
allo sguardo al futuro, uno sguardo ampio e emozionale verso il passato.
Riguardo
la scrittura, oltre a segnalare la poliedricità linguistica, stilistica e strutturale,
vorrei riprendere il concetto di narratività che permea tanto la prosa quanto
la poesia di Abate, nonostante la vena lirica della sua retorica. I versi presentano
una espressività montaliana, penso soprattutto al primo testo che dà non solo
il titolo alla raccolta ma, nonostante sia differente da ogni altro testo, perché
più racchiuso nella propria tonalità, dà l’imprimatur.
«Vivere
di memorie non posso più» (“Botta e risposta I, 1” in Satura), dice Montale appropriandosi di Rimbaud. «Mai in alberghi o
nei letti sontuosi della memoria» (p. 13), dice Abate. La scelta di campo è
fatta e Abate non la tradirà. Montale, uscito dall’adolescenza, viene «gettato
nelle stalle d’Augìa», tra i «muggiti umani». Le stalle di Abate sono meno
simboliche e meno storiche ma più sociali. I ricordi che si insinuano in
Montale sono «un ricciolo di Gerti, un grillo in gabbia, ultima traccia per il
transito di Liuba, il microfilm di un sonetto eufista scivolato dalle dita di
Clizia», ecc. (“Botta e risposta I, 2”, Ibidem),
mentre ben più concreto e utile è il corredo familiare di Abate.
Voglio
dire che Abate si imbarca poeticamente nel sentiero narrativo, anche dialogico,
delineato da Montale ma i versi di Abate sono davvero popolari, i suoi «nomi»
sono davvero «usati».
Inoltre
la scrittura di Abate, come quella di Montale, non si riduce alla narrazione e
alla descrizione, ha ragione Pietro Cataldi a parlare, nella sua bella
introduzione, di «ricostruzione intellettuale… della propria storia», una
ricostruzione che richiede «un dialogo fra le istanze archeologiche dell’io
perduto e quelle prospettiche dell’io investigante».
Ma
qual è l’esito di questo dialogo? In cosa consiste l’ideologia di Immigratorio e la ‘pratica’ conseguente?
Faccio
parlare il testo: «quest’altro mondo che spuntava / e schiacciava il nostro
mondo / di contadini e monaci, / di pastori e povera gente» (p. 30), «città
comandata da preti» (p. 34), «al servizio dei padroni, non più dell’anima
soltanto, ma del pane e del destino quotidiano» (p. 35), «erano sempre a
studiare, studiare, studiare / o rinchiusi in quel giro di preti, / sempre
legati a quelli dell’Azione Cattolica» (p. 38), «i palazzi dei ricchi / avevano
invaso / le spiagge» (p. 55), «a nessuno interessava quella gente – classe
operaia in formazione quasi engelsiana o detriti di un mondo contadino rotolati
lì da campagne e province povere o docili? – massa sconosciuta di condannati a
ricostruirsi tutto…» (p, 60), ecc., e altre immagini di povertà e solitudine, con
la bella e tragica espressione del «bianco rovesciato del Sud»: «proletari
truci e sfatti», «pantaloni macchiati di calce, mani screpolate, unghie
sporche», «puttanelle infreddolite» (p. 50), e gli «studenti … gocciolanti
d’immigrazione» (p. 56).
Tutto
questo con la presenza – oltre che di Engels – di Marx, Benjamin e Fortini, a
darci un’idea di scrittore, di poeta, «quello che parla e dà fuoco e non trova
mai pace, / che pensa a un mondo diverso e si cala / nella sofferenza di
tutti!» (p. 42) che Abate con il suo libro incarna tenacemente.
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