di Ennio Abate
Questi sono gli appunti della mia lettura di "Parola plurale", uscita nel 2005 da Sossella Editore nel 2005. Una sintesi fu pubblicata nel 2007 su questo blog e si può leggere qui
1. Il titolo.
È un segno dei tempi. Si prende atto della cesura tra Moderno e oggi
[il termine ‘postmoderno’ non è nominato, ma è presupposto]: proprio in seguito
alla caduta dell’Idea di Forma del Moderno «il panorama della poesia degli
ultimi decenni si presenta accidentato e tendenzialmente impraticabile» (19);
non esistono più «norme condivise da contestare o alle quali uniformarsi» e per
questo «si può dire che quello della poesia
non sia più un linguaggio ma al
limite una personalissima parole» (21), declinata al plurale da
tante voci e non più al singolare da pochi autori.
2. La dichiarazione
d’intenti: 1975-2005. Odissea di Forme.
1) Prende atto del mare magnum della Nuova Poesia Italiana [partendo da due
constatazioni di Berardinelli del 1984: a) «Nessun catalogo, nessuna
bibliografia, e tanto meno nessuna
antologia potrebbe ormai contenere il mare della Nuova Poesia Italiana.
Nessun Ercole dell’informazione e della critica potrebbe venire a capo di
questa Idra dalle mille teste»; b) «Per quanto male si possa dire del genere
antologico… non se ne può fare a meno» (10)]
2) Motiva la periodizzazione prescelta
(1975-2005). Il 1975 - anno del Nobel a Montale, della morte di Pasolini e
dell’uscita de Il pubblico della poesia
(18).
[Punto importante, perché Berardinelli nel
saggio introduttivo, Effetti di deriva,
coglie la rottura del nesso “tra poesia e rivoluzione” «che per la modernità in
un modo o nell’altro. era stato sempre saldo» (20)]
Il 1975 è scelto come data simbolica della
rottura tra prima e poi, tra un periodo in cui la poesia è fatta ancora secondo
un’Idea della Forma condivisa o contestabile e l’attuale periodo definito di
«odissea della Forma».
[È il ’68 «l’origine di questa faglia
epocale» (19): conclusione della
neoavanguardia, «ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’idea di
Forma senza allontanarsene del tutto»(20);
uscita della Beltà di Zanzotto, che svela una deflagrazione della
forma della lirica tradizionale e l’inizio di un’altra idea di forma, 20]
[dopo la svolta degli anni Settanta più che un ritorno alla forma si è avuto «un
percorso carsico della forma stessa»… e
si è passati «dalla [sua] difesa reattiva alla rischiosa (ed eticissima)
accettazione della pluralità» (24); le due posizioni vengono esemplificate su
due autori: Pasolini, che si libera del problema della forma; e Zanzotto che –
si dice - «ne ha fatto un mandala
separato dalla storia, che però ne rispecchiasse tutte le violenze» (28)]
3) Polemizza sia con la ventennale
latitanza della critica (a partire dalla metà degli anni Settanta) nei
confronti della situazione post-’75, caratterizzata dalla confusa coesistenza
in poesia delle più varie tendenze...
[«algidi sonettatori e
magmatici informali, gnomici e aforisti, terebranti [? Oppure: ‘tenebranti’?
nota 2023] sacerdoti del sublime e ilari snocciolatori di non-sense,
mistici e sadici, performer agguerriti e teneri arcadi» (8)]
…e dal degrado della poesia,
passata da linguaggio a
personalissima parole, come testimoniò nel 1978 l’uscita de La parola innamorata (21),
…[polemizza] sia con i poeti-antologizzatori...
[Pensiero dominante di Rondoni-Loi, raccoglitori ultrasoggettivi di
«poesie che ci hanno colpito e comunicato qualcosa d’importante»; Poesia italiana oggi di Giorgio Manacorda, che fa «dell’arbitrarietà
del giudizio una bandiera»; L’Antologia
della poesia italiana contemporanea 1980- 2000 di Ciro Vitiello
(«sedicente co-poeta») e la seconda versione di Poesia e realtà. 1945-2000 di Giancarlo Majorino]
e sia con
Poeti italiani del secondo
Novecento di Cucchi e Giovanardi,
autori di un canone che viene definito «aziendale».
4) Dichiara qual è il metodo di
costruzione dell’antologia, che viene definita «multipla» (13), costruita cioè
in modo «assembleare», secondo una visione vicina all’idea di «comunità
ermeneutica» di Luperini (16) e per metodo a quella di Krumm e Rossi [affidata
ad una serie di collaboratori esterni, ma in buona parte poeti], (14). Essa si
vuole unica «almeno nel panorama editoriale italiano» (13) proprio per la
collegialità del lavoro svolto in 5 anni.
[una scommessa ‘plurale’ che è consistita nel fare un’antologia senza
coordinatori e collaboratori ma con
un lavoro di gruppo diviso tra «operatori
autonomi e autosufficienti», con
decisioni collegiali e letture incrociate dei
testi proposti (14)]
Viene precisato pure che gli otto autori
di Parola plurale: a) hanno
abbandonato ogni «idea di mappa» per raggruppamenti e sigle; b) vogliono
esplorare il territorio della poesia «empiricamente», col proposito però di
«conoscere l’intero territorio testuale della poesia d’oggi»; c) non intendono
«canonizzare e storicizzare il presente» (10) ma evidenziarne una selezione –
opinabile quanto si voglia – ma leggibile»
(9); d) per far questo, hanno fatto
ricorso a «un pensiero ordinato, diciamo pure filosofico» fondato però su una
«formazione prettamente filologica»; e) hanno scelto il modello dell’
antologia-museo di Mengaldo(12) (=organizzazione a temi ma non a tesi,
multidirezionale e frammentaria, con canone policentrico e non unitario) al
posto di quello dell’antologia-manifesto di Sanguineti.
[«dopo Mengaldo, per il lettore
c’è il vuoto»(18)]
3) Ordinamento interno
dell’antologia
Non è basato su raggruppamenti «per tendenza» ma su una successione cronologica che dà
conto della composizione delle opere importanti degli autori e della ricezione
che esse hanno avuto (25).
[Citano favorevolmente Trent’anni di Novecento di Alberto
Bertoni, scandita a mo’ di annali.
Sottolineano pure che «in ogni
momento convivono generazioni diverse», per
cui Luzi è contemporaneo di De Angelis,
Zanzotto di Magrelli, ecc.; e
quindi «i vecchi non sono dei sopravvissuti». Richiamano l’attenzione
all’attività dei poeti delle generazioni precedenti, che solo per motivi di
spazio non è documentata nell’antologia]
È
suddivisa in 4 capitoli:
- Il primo, Deriva di effetti, si riallaccia a Il pubblico della poesia e a Parola
innamorata (25).
- Il secondo, Ritorno
alle forme, raccoglie autori consapevoli della soluzione di
continuità avvenuta negli anni Settanta e che si pongono in maniera
diversissima…
(recupero classicista di metri e strofe della tradizione,
ritorno ad uno stato di innocenza,
manierismo alla Valduga, straniamenti sperimentali del gruppo K.B.)
…il problema della forma, con l’obiettivo di giocare la sua artificialità contro una condizione storica in via di
deterioramento
(Frasca in particolare, giudicato autore «lucidamente
‘politico’ che parla di «stile» come «elezione etica» anche se «sgradevole»,
26; gli autori del «postmodernismo
critico»: Baldus, Altri luoghi).
- Il terzo, Rimessa in moto, è centrato
sulla «controtendenza» rispetto al tentativo del Gruppo ‘93 e sul fallimento di
una ripresa originale dell’ottica avanguardista
- Il quarto e ultimo, Apertura plurale, afferma di
scommettere sul futuro e indica «varie direzioni, al momento ancora non del
tutto decifrabili» (27)
In vari saggi-sottocapitoli abbastanza
autonomi collocati agli inizi dei 4 capitoli principali…
(nel 1°: Io è un corpo; Il domestico
che atterrisce. Tematizzazione del quotidiano; nl 2°: Il disprezzo del rimedio. (Ri)pensare il tragico; Stili semplici; nel 3°: Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie; Ancora
avanguardie?; nel 4°: Dialetto e postdialetto; Modelli mediali)
…vengono elaborati i concetti-base che
guidano il lavoro critico di quest’antologia: deriva, corpo, quotidiano, forme,
tragico, deformazione, plurale, homo
mediale.
4) I poeti selezionati
Facendo un po’ di sociologia della
letteratura, che andrebbe integrata con un’indagine geografica [alla Dionisotti]
sui centri culturali operanti in Italia e sui loro legami europei o soprattutto
statunitensi (mi pare), si nota che gli antologizzati sono rappresentati da un
certo numero di docenti universitari, una corona di dottorandi e collaboratori
dell’editoria e un po’ d’insegnanti di
scuole medie, con qualche rara eccezione “proletaria” (la Grisoni).
Tra i 64 autori selezionati ho trovato
interessanti:
- De Angelis, Franca Grisoni e Cecchinel
[malgrado le mie riserve antiorfiche];
- Dal Bianco, per l’uso che fa della prosa
come «mezzo principe per l’allontanamento da qualunque poetica d’elezione
individuale» in Ritorno a Planaval e
per la problematica della sua rivista Scarto
minimo. (Ma non per la soluzione proposta: una nuova «canonicità delle
forme metriche come tetto alla insopportabilità del male»);
- Pusterla per la sua sobrietà e la
volontà di misurarsi con la storia novecentesca .
[padre operaio (forse fascista perché
si parla di ritirata dalla Russia, deportazione in Germania, fuga).. poesia che
si è mossa in una prospettiva fortiniana (futuro anteriore, Mondo nuovo da ricostruire, «assente nella sua
irraggiungibile perentorietà»).. pratica della traduzione … tendenza a
ridimensionare l’io lirico..(485) e a spingere la poesia a diventare voce comune.]
-
Anedda, ancora per la capacità di mettere tra parentesi la propria soggettività
e il rifiuto di ogni narcisismo autocelebrativo dell’io; e per il tono tragico
della sua poesia che mi sembra profondamente vissuto;
- De Signoribus, per l’attenzione agli
aspetti antropologici, storici e politici dell’immigrazione (dalle sponde
dell’Adriatico in particolare, (520), per l’accettazione della mescolanza delle
stirpi e per lo «scavo dentro la lingua maggiore della legge, della
comunicazione e dell’ideologia di una
lingua straniera» buona per l’inedita, comunità che si va formando e non solo
sulla pagina [Vicinanza alla mia idea della necessità di costruire una «lingua
esodante»]
Provo invece ostilità o molte riserve per:
- Magrelli con la sua freddezza chirurgica,
altera e antipatica;
- Valduga con il suo manierismo scostante.
(Ci sarebbe una riflessione da fare su quanta perversione e complicazione possa
permettersi una certa poesia …);
- Ottonieri: la sua «scrittura cinetica»
(349) o il suo «realismo informale» - «una sorta di blob ossessivo e senza fine sui temi della merce e
del contatto del nostro corpo con essa» [la Merce che c’è in noi] - mi paiono falsi nella
loro pretesa, in continuità con la neoavanguardia, di affrontare l’invadenza
della forma-merce (del Capitale) attraverso il rifiuto di scegliere una forma
(proprio come fa il Capitale che tutte le consuma)
[né condivido la sua idea che l’azione
poetica sia immediatamente politica; anche l’uso di «parole campionate da
lingue sconosciute» col metodo del cut up
[= spezzare, tagliare, trinciare] molto diffuso nella ricerca musicale d’oggi e la confusione di linguaggi
diversissimi come quello visivo e musicale con quello della letteratura, più
che illustrare, come pretende, il
risvolto mortuario della società dei consumi, mi sembrano un adattamento
melanconico all’esistente (349) ]
- Frasca, col suo «formalismo colto e
concettoso» e la sua tendenza a trattare di individui «vincolati alla
dimensione mediale dello schermo televisivo»: mi sembra la poesia di un
americanizzato cresciuto a pane e mass
media
[ricordare anche il suo intervento al convegno di Pontignano sul
secondo Novecento del 2001]…Non so oggi
cosa possa poi voler dire un «modello rigorosamente materialistico» nel suo
caso. La forma [diventerebbe] lo strumento della memorabilità, cioè la garanzia
che il contenuto non venga disperso nel pulviscolo comunicativo odierno (369).
Ma perché mai? Non basta la forma…]
- Claudio Damiani (con la sua tendenza
all’ arcadia) (437); Dario Villa con la
sua vivisezione di suoni e simboli di una lingua cadaverica (444); Remo
Pagnanelli col suo autobiografismo e la
ricerca di compromesso tra Heidegger e Deridda e le istanze etiche dei
francofortesi; Riccardo Held, presentato
qui come esempio del “rinascimento della forma” o come incrocio di classicismo e sperimentazione;
Rosaria Lo Russo con il suo citazionismo da Campana o dalla Beata Angelica da
Foligno (784) o coi suoi debordanti «romanzi poetanti» (785); Giacomo Trinci
col suo neometricismo anni Ottanta; Vito
M. [Maria, nome della madre… Mirella..] Bonito per la sua ossessività tematica
(la perdita della voce, desiderio della
voce; voce cercata in poesia nella
«in-fantia della lingua», prima del linguaggio,); Edoardo Zuccato [che a me pare un leghista] col
suo recupero letterario del dialetto
nativo “altomilanese”, le sue epifanie e la costruzione di una mitografia
«ancorata al senso di una ribadita appartenenza etnica»; Elisa Biagini [un
esempio di legami con l’area statunitense e francese ( Deleuze, Nancy)] con la
sua poesia post-human [indistinzione
tra organico e inorganico, disorganizzazione del corpo in segmenti autonomi, corpo senza organi di Artaud, corpo non
più come organismo ordinato]; Giovanna Frene con la sua «poesia pensante
heideggerianamente intesa» (tono aforistico e assertivo) e l’ossessione
necroscopica.
5) Osservazioni e critiche a
Parola plurale
1. È per un esempio di come viene
affrontato [indirettamente, con altro nome] il problema che io chiamo della
«moltitudine poetante» da parte di un settore della critica universitaria
italiana che fa riferimento al magistero di Mengaldo.
[ Es: Dopo questa data [‘75] «proprio in
seguito alla caduta dell’Idea di Forma [del Moderno].. il panorama della poesia
degli ultimi decenni si presenta accidentato e tendenzialmente impraticabile»
(19)
«Caduta del resto in disuso l’idea di
Forma, non si vede davvero perché lo spettro .. del ‘ pubblico della poesia’
autoreferenziale, diaristico e dunque privo di qualsiasi idea del linguaggio
poetico, di qualsiasi bagaglio di cultura poetica – debba essere considerato
qualcosa di diverso dai poeti ‘veri’» (22)]
2. È un’antologia che impressiona. Non
solo per la mole di materiale critico e poetico che offre al lettore [continuando
la linea del gigantismo editoriale tipo Il
materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis] ma per la discesa in
campo di una ”giovane critica” agguerrita, che copre a modo suo: un modo cautamente
“postmoderno” [da postmodernismo critico?] che
intreccia una tradizione nobile (Mengaldo) con la koinè deleuziana oggi prevalente nell’intellettualità
internazionale radical.
3. È un’antologia di poesia appena più plurale delle altre antologie. Non è detto che avanzi
davvero sul nuovo terreno plurale e confuso che Mengaldo (o anche Berardinelli,
per non parlare di altri: Luperini, ecc.) ha rifiutato di affrontare. Le sue
scelte sono circoscritte ad un ambito universitario-editoriale [area
“mengaldiana” + una serie di sigle editoriali “minori” (Marcos Y Marcos, Zona,
Oedipus, Effigie o d’if, ecc. separate
con un certo snobismo dalle restanti,
qualificate come «triste truffa» dell’editoria a pagamento (28)]
[È un fitto dialogo interuniversitario con
la volontà di distanziarsi
soprattutto da Sanguineti]
[C’è un autocompiacimento non so quanto consapevole
per l’espressione elegante, per il lessico studiato, per la citazione degli
amici o dei contendenti]
[C’è l’attrito tra questo settore della
ricerca universitaria e alcune corporazioni editoriali: sono apertamente
polemici con Cucchi e Giovanardi e con Rondoni e Loi].
[C’è una certa complicità
generazionale: preoccupante che si
conoscano tanto tra di loro e si citino a vicenda! Valgono le mie riserve
emerse leggendo Akusma.. … …]
[Di questa origine “para-accademica”
conserva i tic e i vezzi anche linguistici (sia nei cappelli che nelle
introduzioni tematiche…Es. lessicali-spia: [Baccagliare=schiamazzare (34) La «spietata usoformità del corpo»
..«oraretinismo»… «astrazione gnomicheggiante»(42) Cortellessa]…gergalità da
specialisti: «funzione Pagliarani». Una «funzione Rosselli» (35) [Quante
funzioni!] [i cappelli critici sono spesso parafrasi iperelaborate e
sovraccariche di allusioni dotte delle poesie antologizzate; confrontare cappelli taglienti e puliti, come quelli
dedicati ad Anedda, Dal Bianco, Febbraro, Conte, con altri più legati a questi vezzi para-accademici:…]
4. L’oscillazione tra selezione e apertura
nei confronti della produzione poetica contemporanea, che è un problema
“politico” (e non solo estetico) è stata risolta restringendo a 67 i prescelti e
“segnalando” telegraficamente i nomi di una parte degli “amici esclusi” (28).
Non viene spiegata però com’è avvenuta in concreto la selezione dei poeti.
5. Dà però un censimento ragionato degli autori
esaminati. Quindi, permette di conoscere nomi poco noti, rende conto da vicino
delle molteplici e contraddittorie tendenze in corso [dà quindi il quadro di una sezione
rilevante della «moltitudine poetante»,
utilissima anche se parziale].
6. Confrontata con altre antologie, sempre
di parte e sempre più o meno amicali: -
ha riferimenti filosofici d’alto livello
(prevalentemente francesi e postmoderni: Deleuze, Nancy soprattutto); - esplicita
le proprie scelte (precisa ad es. di muoversi empiricamente, quindi non
si presenta come esaustiva o sostitutiva delle mappe mancanti né
dichiaratamente come modello); - polemizza
apertamente, ma solo in alcuni casi con estrema chiarezza (nei confronti
dell’antibrechtiano Conte, risparmiando in parte Cucchi, presentato come erede
spurio della linea lombarda).
7. Ha abbandonato alcuni riferimenti filosofici
delle precedenti generazioni di critici (marxismo, fenomenologia, psicanalisi) sostituendoli con
quelli “attuali” d’area francese (i già citati Deleuze e Nancy, ma c’è anche
Beckett) senza addentrarsi sulle ragioni storiche del mutamento culturale.
[Approfondimento necessario. Plurale
contro singolare, molteplice al posto dell’uno. Siamo al divenire molteplice teorizzato da Deleuze, non a caso la figura
filosofica principale di riferimento anche se non esplicita di quest’antologia
postmoderna o «multipla» (13)? ‘Plurale’ è aggettivo di moda, ma copre
significati diversi. Si può confondere con ‘pluralismo’. Si avvicina al
problematico fenomeno del ‘multiculturalismo’ (spesso insidioso perché semplice
ideologizzazione dei fenomeni plurali). È contrapposto alle visioni
unitarie o universalistiche (ad es. Marramao, che parla di universalismo delle differenze)
in nome delle ‘differenze’ e, dunque, non s’occupa più delle
contraddizioni centrali nel pensiero dialettico. (Perché non più ricomponibili?)
8. Ha raccolto i poeti sotto alcune etichette
larghe, tutte fortemente letterarie e di moda [non so però quanto adatte ai
nomi che vi vengono poi fatti
rientrare].
[mancano categorie più apertamente
riferibili a storia, politica e sociologia…]
Si afferma che «il fatto che venga meno la specificità del linguaggio poetico
non significa che debba venir meno la forza etica e ontologica della poesia»
(24) [di forza politica, però, si tace. Come se fosse irrilevante per la poesia
il suo rapporto con il politico]
[Si parla di «rischiosa (ed eticissima) accettazione della pluralità» (24) [ed
è un tema d’attualità dopo la crisi delle Grandi Narrazioni unitarie] ma
pluralità non è ancora o non è automaticamente nuova visione politica o
ricostruzione di una politica…]
9. Corpo. Ho molte riserve su quanto viene
definito linguaggio ‘corporale’ e sull’ipotesi che esso veicoli – come si
afferma - disagio sociale o possa
spezzare l’egemonia del linguaggio astratto, tecnologico, seriale.
[Riserve analoghe ho su quanto il teatro
della corporeità (Artaud), a cui si rifà Gentiluomo con la sua «insistenza sul
repertorio fagico» o la sua «prospettiva ‘ventrale’(37), abbia efficacia non
solo estetica ma politica. O sul fatto che «la palestra dei sensi [alluda]
microcosmicamente, cioè allegoricamente, ad agoni più vasti». Queste allusioni
andrebbero valutate parlando degli «agoni più vasti», mentre nei vari pezzi critici quest’analisi manca]
[La «risessualizzazione del repertorio
medievale» di Berisso per me resta gioco endoletterario. Il «mix di oscenità
scatologico-sessuale e liturgia religiosa» non scandalizza e non incide per nulla sull’”avanzata del sacro”. (Siamo
di fronte ad un eccitante e tollerato libertinaggio elitario) . L‘«ostensione della
maschera, dell’artificio, del trucco» (39)
è compiuta davanti ad un pubblico smagato e già ipernutrito di
pornografia. La loro oltranza è circoscritta.
Il narcisismo di Magrelli [il suo sguardo
rivolto all’interno del corpo] o quello di Valduga, che «da sempre persegue
l’utopia di una pura esteriorità», sono iperletterari e restano narcisismi.
Queste riserve valgono anche per il
compiacimento basso-corporeo di Trinci. O per la “ voce ventrale” di Flavio
Santi o la «scrittura-pelle» della Biagini.
L’ambiguità politica di Frasca. Studioso e
traduttore di Beckett (46). Da lui trarrebbe il «desengaño che riduce il mondo al suo “arido vero”, alla cruda
letteralità del com’è…carcasse e carne
[ecco l’autocompiacimento letterario]. Frasca - si dice - non sarebbe indotto
ad accentuare la dimensione ‘civile’ «dall’orrendo mutare ‘al peggio’ [nessuna
specificazione in merito!] delle condizioni esterne. Ma perché? Cos’è questo
orrendo mutare al peggio? Cos’è la dimensione civile, se di essa si scrive ironicamente: «(con tutte le
virgolette che al termine impone la sua sputtanatissima tradizione»[!]?
E quel suo riferimento serioso all’idea schopenhaueriana
del legame sessuale come «inganno maligno, perché induce alla riproduzione
della specie e così alla cattiva infinità dell’universale macinio, nel tritacarne dell’esistenza» (48-49)? Tutta qua la visione politica?
10. Quotidiano. Zublena nel saggio Il domestico che atterrisce scrive: «L’interrogazione fenomenologica di Dal Bianco, la pratica dell’ethos di Pusterla, la levinassiana
dialettica chiamata-risposta di Testa, lo spavento di Viviani, lo
stupore-bagliore nel finito di De Angelis, il vitale stridore degli affetti nel
mare del flusso percettivo schizoide di Frasca, l’ospitale perdita della casa
di De Signoribus sono risposta all’immersione rischiosa nell’opacità
strutturale del quotidiano. Nell’inesorabile sfuggirci della quotidianità,
nello sfuggire del corpo a sé, nel pericolo dell’assoluto spaesamento… la
condivisione della souffrance dell’altro con il sé attiva una possibilità
etica e politica» (66)
Ma basta la condivisione della souffrance dell’altro con il sé ad attivare una
possibilità etica e politica (Zublena 66)?
Tutto il problema enorme di una nuova visione della politica resta
indeterminato. Ed è poi possibile nel solo quotidiano una costruzione politica nuova?
[Specie quando il quotidiano assume i toni
preteschi di Viviani che qui non vengono
contestati (come si è fatto - ma era più facile - con Giuseppe Conte): «La
scena dominante è la quotidianità, che però viene registrata con coscienza
della benjaminiana impossibilità dell’esperienza da una parte, e nel contempo
dell’inevitabile soggezione dell’umano al male» (68)…[!] Viene avallato il suo percorso mistico verso
un «aforistico libro sacro», la sua
concezione heideggeriana dell’essere (sconosciuto, innominabile) a cui ci si
deve affidare senza più affannarsi a costruire progetti, consegnandosi alla
perdita, alla dépense (69)]..
distaccandosi dall’agone umano, guardato ormai da lontano (69)]
11. Tragico. L’insistenza con cui a
proposito di De Angelis si parla di
alieniloquio, infanzia come vicinanza
pre-logica alla morte, buio logico, o si
parla di… «verso improvviso, venuto da un cuore su cui non si indaga» a me pare
enfatica e ambiguamente apologetica.
[Torna una semplice domanda: uno che pensa
e scrive così come vive, dove vive, in mezzo a chi vive? Quanto è distante
davvero dal mio-nostro modo di vivere e scrivere? E perché?
Cosa vuol dire o cosa mi dice una frase
come questa: «Il verso di Ceni si immerge nella terribilità della natura,
assumendo la forma di "“una specie di preghiera priva di perdono»? (299).
Oppure questa: «la parola emerge
direttamente dallo spazio della morte» (300)? Al massimo finge di…
Oppure: «La morte [al massimo il pensiero
della morte!] quale centro e matrice della parola poetica è ciò che si dispiega
nei suoi testi», 300]
A proposito di Anedda si parla di «musica silenziosa del sangue» ,(301)[!?]
o di un pensiero che sente pulsare alle proprie tempie il peso di una
sofferenza ancestrale, (301).
A proposito di Mesa si parla di segni quali simulacri della morte (303), di
mondo in negativo, di liquidazione del linguaggio, di sfinimento del dire, di
gioco d’agonia (304).
A proposito di Vito M. Bonito di assenza
come sola presenza che questa scrittura riconosce [?], di un suo mondo della
scrittura, chiuso come una monade che riecheggia un urlo-vagito interminabile
«dando fiato alla morte» [!].
Noto in tutte queste affermazioni
un’enfasi tutta heideggeriana non un
lavoro critico.
12. Stili semplici. Vi rientrerebbero:
Damiani, Fiori, Lamarque, Dal Bianco, Benedetti, Villalta, il primo Magrelli.
Essi mirerebbero non alla verosimiglianza ma alla «comunanza». Ma comunanza con chi, con quanti?
[Attenzione alle ambiguità del comunitarismo…] Non mi pare ovvio che il superamento
dell’autobiografismo del vecchio lirismo si possa avere con un uso ‘allegorico’
del pronome, che arriva così a significare ‘tutti noi’ (Dal Bianco) (310).
[«L’idea era quella vagamente
heideggeriana di un essere esposti nel linguaggio di un ‘farsi parlare’ dalla lingua»… rinuncia
alle coperture polisemiche per parlare una lingua semplice etimologicamente…
parlare con la lingua di tutti (311). [quanto è semplice, quanto è di tutti
«una lingua semplice etimologicamente», se richiede una conoscenza
specialistica così acuta dei meccanismi linguistici elencati abbondamentemente
ed esemplificati abbondantemente da Scarpa su questi poeti (307)? La semplicità dei classici (o del
classicismo) è ben diversa dalla «lingua di tutti» (319)]
13. Deformazioni.
Comico, grottesco e altre vie di Massimiliano Manganelli. Attraverso la ripresa del pensiero
critico di Bachtin, a cui si era riferita la rivista Baldus con il recupero di Folengo («il nostro Rabelais») si sono
avute esperienze di contaminazione, antiliriche, puntando sul basso corporeo,
il dialogismo, la polifonia. Alle spalle un’ideologia: usare la letteratura
quale paradossale strumento di aggressione contro la lingua massificata del
mercato mediatico (al posto del monologismo lirico) con un ricorso sfrenato
alla citazione (Voce) (606-608)
[Sarebbe da rileggere tutta la
documentazione sul convegno di Lecce…(1982?) con interventi di Fortini, Briosi,
ecc.]
[La letteratura sarebbe stata messa a nudo
(Gentiluomo, Bàino) attraverso la parodizzazione di Leopardi. O la ripresa del
Marino da parte di Frixione. Ci sarebbe stato un allontanamento dal campo
letterario per diventare «mediatamente politici». Dante, Leopardi o Montale sono parodizzati e
al contempo omaggiati [610]. Ottonieri parodizza l’alto e il basso: la poesia
d’amore e la canzonetta popolare, «forma di resistenza linguistica ma anche ovviamente [?] politica» (610)]
[Andrebbero approfondite e discusse affermazioni
come queste: «Di fronte a una realtà già in sé deformata, abnorme, mostruosa,
il grottesco sembra costituire oggi, in ultima istanza, l’unica risposta
polemica possibile, poiché con una critica della rappresentazione e della
visione risponde con una critica della rappresentazione e della visione.
Smontare i meccanismi della realtà quotidiana dall’interno – merceografia
condotta da Ottonieri e da Nove – significa smascherarla? E lo smascheramento
sarebbe di per sé «un gesto autenticamente trasgressivo» (612).
Ah, quanti smascheramenti sono
mascherate!]
[I neoavanguardisti e i loro nipotini più
o meno autenticati hanno davvero posto
le vere «questioni politiche» collegabili a quelle «estetiche»? Si sono, sì,
contrapposti ad «affondi narcisistici e proiezioni auratiche… riflusso
intimista e neoromantico … orfismo e neoermetismo di La parola innamorata..(Pontiggia-Di Mauro)» (614), ma ci si è ben accorti che fare l’avanguardia
nell’universo della comunicazione estetica (Di Marco) non aveva senso o ci si
“identificava col nemico” (622). Ha
prevalso la seduttiva cultura postmoderna, appiattita in sé e vocata
all’estetico più che al politico (623). Mentre Cortellessa invita a rompere il “bel giocattolo” e a costruirne
uno nuovo (625) [ ma sempre giocattolo è]. Sanguineti parlava nel 2001
[convegno di Pontignano] ancora di «sovversione interminabile» ]
14. Dialetto e postdialetto di Fabio Zinelli. L’aspetto più
interessante del saggio sta nello sforzo di vedere la ripresa del dialetto nel
quadro della mondializzazione, Ho molti dubbi sulla tesi sostenuta: che
dialetto e post-dialetto siano oggi di per sé esempi di «apertura plurale».
[Dialetto “lingua delle maschere”… Dopo la
stagione di Pasolini (mimesis che
regrediva alla indifferenziata ricchezza linguistica dei dialetti con l’intento
di «di dare corpo a strati di realtà che altrimenti resterebbero
inconoscibili») (799), negli anni Settanta- Ottanta. il dialetto si è
presentato come lingua poetica di un ritorno a casa]
[Villalta, deriddiano, pupillo di
Zanzotto: il poeta dialettale è un naufrago abbarbicato a un iceberg in viaggio
verso l’equatore…montacarichi per far risalire materiali dal basso (801)…
Titanic della letteratura italiana… sotto la minaccia dell’inglese e dei
linguaggi settoriali]
[Brevini. I dialettali sono in
effetti post-dialettali, cioè poeti
posteriori al declino del dialetto come mezzo abituale di comunicazione
quotidiana … poesia sbrigativamente [? …polemica di Fortini da rivedere…] definita ‘per professori’…]
[«crisi dello scrittore dialettale non
diversa da quella dello scrittore in italiano, vista la crisi di tutte le aree
della comunicazione. La vecchia idea, cara ai parlanti, di un dialetto diverso
per ogni collina e per ogni campanile è minacciata dal divenire di colline e
campanili accessori del paesaggio unico della globalizzazione … più che
dialetto inteso come forma di resistenza
culturale alla massificazione e alla globalizzazione. I nuovi autori avrebbero
saputo «dare [o fare? Nota 2023] delle microidentità un luogo di
passaggio per incontrare, nei suoi vari aspetti, il nuovo mondo
globalizzato» A me questo pare un passaggio
semplificato.…]
Troppo semplicistica mi pare anche l’etichetta ambientalista o ecologica
attribuita ad una scrittura che
registrerebbe i danni inferti all’ambiente umano ed ecologico
dall’industrializzazione selvaggia e dalla mercificazione dei rapporti di
scambio (802).
Elementi considerati segno di ritardo
provinciale risorgerebbero a livello comunicativo e formale e sarebbero
portatori di progresso (806). Il dialetto verrebbe usato per la costruzione di
una creolità, corrispondente ad una identità fluida, multicentrica, migrante,
meticciata (876). Ma questo dialetto glocal
- giustapposizione di romagnolo, italiano e
lingue varie [nel caso di Nadiani] – fa passare davvero i significati? E
quali? Non c’è il rischio di una creolizzazione di superficie, come se si
saltasse – per povertà – la possibilità di una vera traduzione e la si
surrogasse con un minestrone di suoni dal significato indecidibile ( 807)?]
15. Modelli
mediali di Gianfranco Alfano. Analizza «i discorsi poetici contemporanei
che più intensamente si sono confrontati con il sistema mediale» (813) e in
particolare con le modificazioni seguite all’affermazione in Italia della
televisione (anni ’50-’60) e ora coi nuovi
media (815). Si accenna alle prove di Magrelli (computer e dintorni), D’Elia (Congendo
della vecchia Olivetti), Voce (Farfalle da combattimento), Lo Russo (Comedia), Ottonieri (Elegia sanremese), ecc. (816); al
problema dell’analogia formale tra linguaggio poetico e linguaggio dei media
(817). La caratteristica parodica di tanta parte della poesia contemporanea è
collegata appunto al suo rapporto con il sistema dei media, ricorrendo ad una sorta di mimesi
ludica (818).
[Su questo punto valgono le riserve
espresse nei confronti di Frasca e Ottonieri…]
16. Secondo me la portata (ambigua) del
fenomeno della scrittura poetica di massa (come sintomo della crisi della
poesia contemporanea) viene sottovalutata. L’analisi dei 67 autori non mi pare
giustificare il giudizio tutto sommato ottimistico a cui arriva l’antologia. C’è
troppa fretta nel far tornare i conti e giustificare la poesia:
«Quello a cui assistiamo, così
almeno ci pare, è davvero un nòstos struggente
come quello del mito. A dimostrare una volta di più, come sempre [!] che la poesia serve , eccome, serve a tutti, appunto senza servire
nessuno» (29) . Questo assunto zanzottiano risalente al 1974 (28) è tutto da
dimostrare, mentre viene accolto dandolo per scontato.
Il senso comune dei poeti (o di un autorevole poeta) è presentato come verità e
tutte le più inquiete interrogazioni
sulla poesia (penso a quelle di Fortini) sono dimenticate. I giovani critici vedono la poesia come
«riserva di immaginario del nostro paese» e «attenta a confrontarsi con la sua
storia passata e in corso» (29). [Ma quanta poesia oggi lo è davvero? E si
confronta con la storia?]
Conclusioni provvisorie
1. No alla poesia valore
assoluto.
Io parto dal rifiuto di una visione apologetica della poesia
contemporanea. Ritengo legittimo chiedersi quanto essa ci metta davvero in
contatto con i problemi fondamentali della nostra esistenza come singoli e come
popoli. E, quando ne leggo, ho spesso uno sgradevole sentimento: di perdere del
tempo, di divagare, di compensare un
vuoto d’”altro”. (Anche se so in partenza che è incolmabile per il momento).
Il sentimento sgradevole
s’accresce appena mi documento sulla “amministrazione” della poesia che viene
fatta da gran parte degli “addetti ai lavori” (critici, poeti, redattori di
riviste, professori di lettere, dottorandi).
Non sostengo che la poesia sia
meno importante delle scienze o della storia o di altri saperi. Ma è certo che quella
che si fa oggi solo in minima parte valorizza ciò che può dare un senso
alla vita dei singoli e delle società. E spesso nasconde con un tragico di
maniera, narcisistico e individualistico, quanto di tragico e irrisolto (e
magari di irrisolvibile) nel mondo avviene.
Non è detto, insomma, che il semplice fatto di continuare a fare
poesia (un poiein ultrasecolare) o ad
occuparsene (leggerla, riflettere sul suo senso) sia sempre automaticamente e
in qualsiasi situazione storica cosa
buona, giusta, bella, virtuosa. O che procuri e trasmetta un vero piacere o sveli importanti verità.
La mia ipotesi è che una buona
parte della poesia contemporanea (ma
anche del passato…quale? precisare…) dice invece ben poco di fondamentale. E ritengo che la moltitudine che oggi la
pratica abbia una coscienza più o meno
falsa del senso del suo operare in
poesia, del contesto letterario, ma
soprattutto del contesto sociale-storico in cui viviamo.[ Cfr. la nostra piccola inchiesta sulla moltitudine
poetante]
Mi si potrebbe obiettare: ma
allora perché ti occupi di poesia?
Semplicemente perché non si può
rinunciare a respirare anche se si sa che l’aria è inquinata. E forse perché è ancora viva – magari
residuale – la memoria di altri respiri più ampi e liberi e di un’aria più
pulita. Consapevolezza di una crisi, dunque. E sarebbe già tanto.
2. La forma antologia
L’antologia ha avuto spesso una
funzione storica di manifesto di un gruppo o di un progetto. E forse oggi potrebbe averne una di ecologia della letteratura,
come ipotizzò a suo tempo Fortini. Ma
alle sue spalle c’è una
tradizione fortemente elitaria (specie in Italia) contrastata da episodiche
spinte avanguardistiche (altrettanto elitarie).
Gli antologizzatori d’oggi mi sembrano incapaci
o impossibilitati (in realtà) ad affrontare questo mare magnum tumultuoso
della poesia contemporanea , enormemente cresciuto per la spinte complesse delle
società di massa .
[Forse ci vorrebbe una più seria
interrogazione sull’attualità e l’utilità della forma-antologia, come in campo
politico ci si è in vari momenti interrogati sui limiti ormai storici della
forma-partito.
Una parte della critica, che
pur ha dato fino alla fine degli anni Settanta il suo contributo autorevole
alla forma-antologia (Sanguineti, Mengaldo, Fortini), di fronte al «tempo del
gremito» (Giancarlo Majorino) ha preso
atto dell’impossibilità di proseguire il suo tradizionale lavoro.
La “moltitudine” (più o meno poetante) non è sondabile. O non è sondabile con gli stessi
strumenti che si usavano per la poesia
“artigianale” o per giudicare i “maestri”.
Quelli che insistono si
dibattono tra l’ipotesi di rifugiarsi
nei modelli del passato elitario e quella di abbandonarsi al plurale
[Parola plurale ha trovato una mediazione che a me pare nel solco
della tradizione (Mengaldo): un’accentuazione del policentrismo. Potremmo
parlare di una delineazione (generosa?) di una élite di massa, ma resta
insondato (se non demonizzato) quello che di solito viene indicato con il termine spregiativo di
“sottobosco”; e che sottobosco non andrebbe considerato fino a quando non sia
stato mappato con la stessa attenzione concessa tradizionalmente all’élite
o - ora – all’élite di massa].
Questo è il problema irrisolto degli
antologizzatori odierni. Tutti si barcamenano. Ora si muovono nostalgicamente
in direzione della tradizione, parodiando la selezione di alcuni “Grandi”
contemporanei, quelli che “resteranno nella Storia” come i “classici” (Piccini),
che a me pare una ridicola caricatura del mitico Parnaso. Ora arrivano a punte di soggettivismo arbitrario
( Loi-Rondoni) o s’immergono nella cronaca che rimanda a chissà quando ogni possibile sintesi (Annuario Manacorda).
3. Poesia e presente di guerra
Siamo in uno stato di guerra globale e la
situazione spinge ancor più a rientrare o ad accucciarsi nel «margine». Più
guerra, meno democrazia. E crisi della poesia, bisognerebbe aggiungere. A meno
di non pensare la poesia come impermeabile al mondo. Io non riesco a separare
le possibilità della poesia dalle possibilità della democrazia
Uscire dal margine per la poesia significa
prendere consapevolezza che anche il «margine» ha a che fare col potere. Che si
sta, insomma, al margine del potere, non al di fuori, non al di là. Anzi che il
potere è presente nel margine, è presente nel linguaggio della poesia, anche
quando si vuole fuori dal comune, fuori dalla Comunicazione, anche quando si vuole stile semplice.
Rispetto al passato la poesia deve
acquisire consapevolezza di «una sorta di “potere reticolare”, una nuova forma
di sovranità [imperiale] capace di includere i principali stati nazionali, le
istituzioni sovranazionali, le maggiori imprese capitalistiche ed altri poteri»
(10). Ivi compresi, quindi, i poteri (o i micropoteri) che possono essere
esercitati nel linguaggio; e nelle lingue nazionali e nel linguaggio poetico che di esse è
un’articolazione speciale.
La poesia da tempo non è più fatta
nazionale. E oggi più che mai. La globalizzazione ha lavorato il paesaggio in
cui si muoveva, ha abbattuto quinte e scenari, ha creato «nuovi circuiti di
cooperazione e di collaborazione che attraversano le nazioni e i continenti,
facilitando un illimitato numero di incontri» (11). Troviamo riviste o case
della poesia, che intrattengono più rapporti con poeti statunitensi che con
poeti italiani (ad es. la Casa della poesia di Baronissi, il paese in cui sono
nato!). Troviamo neodialetti o
postdialetti «creolizzati»…
Ennio dic. 2005
Appendice 1: condizione sociale dei poeti
selezionati (da completare)
Viviani: laureato in giurisprudenza, lavoro nell’editoria poi come psicologo
Conte: Laureato in estetica, insegnante
nelle superiori e collaborazioni giornalistiche ed editoriali
Cucchi: consulente editoriale
Coviello: lavora nell’editoria?
Reta: suicida…
Patrizia Cavalli: lavoro editoria e Rai
De Angelis: ?
Frabotta: docente di letteratura alla
Sapienza
Sovente: docente Accademia Napoli
Prestigiacomo: ?
Lamarque:
parte come insegnante di stenografia e d’italiano per gli stranieri
D’Elia: ?
Magrelli: docente di lett. Francese all’univ. Di Cassino
Valduga:
collaborazioni a giornali e settimanali
Ottonieri: ricercatore presso l’università
La sapienza di Roma
Frasca: ricercatore università ?
Scarabicchi: ?
Benzoni: ?
Benedetti: ?
Salvia:
?
Dario Villa: editor
Pagnanelli: ?
Held: consulente editoriale e traduttore
da tedesco e francese
Pusterla: insegna italiano a Lugano
Fiori: musicista ? insegnante?
De Signoribus: insegnante scuole medie
inferiori
Buffoni: Insegna letterature comparate…
dove?
Testa: docente universitario a Genova?
Tripodo: ?
Fo: docente lett. Latina a siena
Mesa: ?
Frixione: ricercatore in scienze cognitive
Durante: ?
Voce: collaborazioni giornalistiche?
Baino: ?
Gentiluomo: si occupa di teatro
Berisso: dottorato di ricerca, lavora
all’università di Genova
Pierno: lavora come informatica?
Pinto: bibliotecaria alla Sapienza di Roma
Nove: ?
Lo Russo: traduttrice, attice, insegnante
Grisoni:
autodidatta, manicure, operatrice culturale
Rentocchini: insegnante di scuole medie
Cecchinel: insegnante scuole medie
De Vita: insegnante scuole medie
Nadiani: traduttore
Villalta: ? nel giro di Zanzotto
Dal Bianco: ricercatore all’università di
siena
Anedda: ?
Febbraro: ricercatore alla Sapienza
Trnci:?
Bonito: insegnante di liceo
Zuccato: docente inglese allo Iulm
Gardini: ?
Inglese: dottorato di ricerca
Lombardo: impiegato?
Biagini: insegnante?
Frene: dottoranda di ricerca
all’università di Padova
Fusco: dottoranda in italianistica
Santi: studente?
Giovenale:
lavora come libraio?
Sannelli: dottorando di ricerca a Genova
1 commento:
SEGNALAZIONE
https://www.leparoleelecose.it/?p=46837#_ftn10
Non è un caso che uno degli ultimi lavori antologici autorevolmente riconosciuti da quasi tutti coloro che frequentano il mondo della poesia (ma certo non l’unico), pubblicato nel 2005, quasi vent’anni fa, si chiami appunto Parola plurale: fin dal nome, il lavoro di quell’équipe di critici rivendicava una condizione che da allora non è cambiata, ma semmai moltiplicata esponenzialmente. Nella prefazione, dal titolo 1975-2005: Odissea di forme, già si parlava apertamente come da tempo ormai (proprio dalla metà degli anni Settanta) ci si trovasse in una dimensione di convivenza caotica fra scritture assai diverse, che si trovavano a condividere la dicitura “poesia”, «pur ignorandosi bellamente» una con l’altra[12]. A partire da quegli anni, la poesia italiana è come se andasse incontro ad inevitabili «effetti di deriva» e la metafora che è stata spesso ripresa è stata quella dell’«astro esploso»[13]; e si è riconosciuto che il pubblico di lettori e il pubblico degli scrittori da quegli anni tendevano sempre più a coincidere, a fronte di una individualizzazione stilistica sempre più accentuata. Il critico Alfonso Berardinelli, nel 2004, guardando gli anni che erano seguiti alla sua fortunata antologia del 1975, dal titolo emblematico Il pubblico della poesia, ha scritto che «per tutti i venticinque anni successivi in realtà non si è riuscito a capire che cosa fosse diventata la poesia italiana»[14]. E pensare che nel 2005, quando Parola plurale fu data alle stampe, si era ancora qualche anno prima dell’avvento in Italia dei social network (Facebook nasce nel 2004, ma è del 2009 il suo exploit in Italia e YouTube è nata proprio nel 2005) e della conseguente trasformazione che ha operato sulla vita sociale delle persone e anche quindi sul panorama letterario.[15]
Ad oggi, le scritture contemporanee si trovano connesse le une alle altre in uno svariato, anarchico e pulsante continuo sottofondo, composto da riviste cartacee e on line, pagine Facebook, festival, libri, case editrici e profili Instagram ecc. La diffusione di internet, nel netto predominio della forma dei social network, ha creato una sorta di struttura-micelio, in continuo movimento senza che sia possibile trovare un centro. Insomma, chi si volesse affacciare alla scena della poesia contemporanea si troverebbe davanti ad immane groviglio di ife. Questa dimensione mediale, nella sua radicale novità, anche rispetto ai primi anni Duemila, è stata di recente descritta nelle sue conseguenze cognitive ed estetiche dal critico Alberto Casadei come un’epoca del Cloud, caratterizzata dalla compresenza potenziale e simultanea «di tutte le informazioni in cui siamo immersi».
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