giovedì 30 marzo 2023

MOLTINPOESIA APPUNTO 7: Su "Parola plurale" (2005)



di Ennio Abate

 Questi sono gli appunti della mia lettura di "Parola plurale", uscita  nel 2005 da Sossella Editore nel 2005. Una sintesi  fu pubblicata nel 2007 su questo blog e si può leggere qui 

1.  Il titolo.

 È un segno dei tempi. Si  prende atto della cesura tra Moderno e oggi [il termine ‘postmoderno’ non è nominato, ma è presupposto]: proprio in seguito alla caduta dell’Idea di Forma del Moderno «il panorama della poesia degli ultimi decenni si presenta accidentato e tendenzialmente impraticabile» (19); non esistono più «norme condivise da contestare o alle quali uniformarsi» e per questo «si può dire che quello della  poesia non sia più un linguaggio ma al limite una personalissima  parole» (21), declinata al plurale da tante voci e non più al singolare da pochi autori.

 

2. La dichiarazione d’intenti: 1975-2005. Odissea di Forme.

 1) Prende atto del mare magnum della Nuova Poesia Italiana [partendo da due constatazioni di Berardinelli del 1984: a) «Nessun catalogo, nessuna bibliografia, e tanto meno nessuna antologia potrebbe ormai contenere il mare della Nuova Poesia Italiana. Nessun Ercole dell’informazione e della critica potrebbe venire a capo di questa Idra dalle mille teste»; b) «Per quanto male si possa dire del genere antologico… non se ne può fare a meno» (10)]

 2) Motiva la periodizzazione prescelta (1975-2005). Il 1975 - anno del Nobel a Montale, della morte di Pasolini e dell’uscita de Il pubblico della poesia (18).

 [Punto importante, perché Berardinelli nel saggio introduttivo, Effetti di deriva, coglie la rottura del nesso “tra poesia e rivoluzione” «che per la modernità in un modo o nell’altro. era stato sempre saldo» (20)]

 Il 1975 è scelto come data simbolica della rottura tra prima e poi, tra un periodo in cui la poesia è fatta ancora secondo un’Idea della Forma condivisa o contestabile e l’attuale periodo definito di «odissea della Forma».

 [È il ’68 «l’origine di questa faglia epocale» (19):  conclusione della neoavanguardia, «ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’idea di Forma senza allontanarsene del tutto»(20);  uscita della Beltà  di Zanzotto, che svela una deflagrazione della forma della lirica tradizionale e l’inizio di un’altra idea di forma, 20]

 [dopo la svolta degli anni Settanta  più che un ritorno alla forma si è avuto «un percorso carsico della  forma stessa»… e si è passati «dalla [sua] difesa reattiva alla rischiosa (ed eticissima) accettazione della pluralità» (24); le due posizioni vengono esemplificate su due autori: Pasolini, che si libera del problema della forma; e Zanzotto che – si dice - «ne ha fatto un mandala separato dalla storia, che però ne rispecchiasse tutte le violenze» (28)]

 3) Polemizza sia con la ventennale latitanza della critica (a partire dalla metà degli anni Settanta) nei confronti della situazione post-’75, caratterizzata dalla confusa coesistenza in poesia delle più varie tendenze...

[«algidi sonettatori e magmatici informali, gnomici e aforisti, terebranti [? Oppure: ‘tenebranti’? nota 2023] sacerdoti del sublime e ilari snocciolatori di non-sense, mistici e sadici, performer agguerriti e teneri arcadi» (8)]

…e dal degrado della poesia, passata da linguaggio a personalissima  parole, come testimoniò nel 1978 l’uscita de La parola innamorata (21), 

…[polemizza] sia con i  poeti-antologizzatori...

 [Pensiero dominante di Rondoni-Loi, raccoglitori ultrasoggettivi di «poesie che ci hanno colpito e comunicato qualcosa d’importante»; Poesia italiana oggi  di Giorgio Manacorda, che fa «dell’arbitrarietà del giudizio una bandiera»; L’Antologia della poesia  italiana  contemporanea 1980- 2000 di Ciro Vitiello («sedicente co-poeta») e la seconda versione di Poesia e realtà. 1945-2000 di Giancarlo Majorino]

 e sia con   Poeti italiani del secondo Novecento  di Cucchi e Giovanardi, autori di un canone che viene definito «aziendale».

 4) Dichiara qual è il metodo di costruzione dell’antologia, che viene definita «multipla» (13), costruita cioè in modo «assembleare», secondo una visione vicina all’idea di «comunità ermeneutica» di Luperini (16) e per metodo a quella di Krumm e Rossi [affidata ad una serie di collaboratori esterni, ma in buona parte poeti], (14). Essa si vuole unica «almeno nel panorama editoriale italiano» (13) proprio per la collegialità del lavoro svolto in 5 anni.

 [una scommessa ‘plurale’ che  è consistita nel fare un’antologia senza coordinatori e collaboratori  ma con un  lavoro di gruppo diviso tra «operatori autonomi e  autosufficienti», con decisioni collegiali e letture incrociate dei  testi  proposti (14)]

 Viene precisato pure che gli otto autori di Parola plurale: a) hanno abbandonato ogni «idea di mappa» per raggruppamenti e sigle; b) vogliono esplorare il territorio della poesia «empiricamente», col proposito però di «conoscere l’intero territorio testuale della poesia d’oggi»; c) non intendono «canonizzare e storicizzare il presente» (10) ma evidenziarne una selezione – opinabile quanto si voglia – ma leggibile» (9); d)  per far questo, hanno fatto ricorso a «un pensiero ordinato, diciamo pure filosofico» fondato però su una «formazione prettamente filologica»; e) hanno scelto il modello dell’ antologia-museo di Mengaldo(12) (=organizzazione a temi ma non a tesi, multidirezionale e frammentaria, con canone policentrico e non unitario) al posto di quello dell’antologia-manifesto di Sanguineti.

 [«dopo Mengaldo, per il lettore c’è il vuoto»(18)] 

 

3) Ordinamento interno dell’antologia

 Non è basato su raggruppamenti  «per tendenza»  ma su una successione cronologica che dà conto della composizione delle opere importanti degli autori e della ricezione che esse hanno avuto (25).

 [Citano favorevolmente Trent’anni di Novecento di Alberto Bertoni, scandita a mo’ di annali.  Sottolineano pure che  «in ogni momento convivono generazioni diverse»,  per cui Luzi è contemporaneo di De Angelis,  Zanzotto di  Magrelli, ecc.; e quindi «i vecchi non sono dei sopravvissuti». Richiamano l’attenzione all’attività dei poeti delle generazioni precedenti, che solo per motivi di spazio non è documentata nell’antologia]

 

 È suddivisa in 4 capitoli:

 - Il primo, Deriva di effetti, si riallaccia a Il pubblico della poesia e a Parola innamorata (25).

 - Il secondo,  Ritorno alle forme,  raccoglie  autori consapevoli della soluzione di continuità avvenuta negli anni Settanta e che si pongono in maniera diversissima…

  (recupero classicista di metri e strofe della tradizione, ritorno ad uno stato di innocenza, manierismo alla Valduga, straniamenti sperimentali del gruppo K.B.) 

 …il problema della forma, con l’obiettivo di giocare la sua artificialità  contro una condizione storica in via di deterioramento

 (Frasca in particolare, giudicato autore «lucidamente ‘politico’ che parla di «stile» come «elezione etica» anche se «sgradevole», 26;  gli autori del «postmodernismo critico»: Baldus, Altri luoghi).

 - Il terzo, Rimessa in moto, è  centrato sulla «controtendenza» rispetto al tentativo del Gruppo ‘93 e sul fallimento di una ripresa originale dell’ottica avanguardista

 - Il quarto e ultimo, Apertura plurale,  afferma di scommettere sul futuro e indica «varie direzioni, al momento ancora non del tutto decifrabili» (27)

 In vari saggi-sottocapitoli abbastanza autonomi collocati agli inizi dei 4 capitoli principali…

 (nel 1°: Io è un corpo; Il domestico che atterrisce. Tematizzazione del quotidiano; nl 2°: Il disprezzo del rimedio. (Ri)pensare il tragico; Stili semplici; nel 3°: Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie;  Ancora avanguardie?;  nel 4°: Dialetto e postdialetto; Modelli mediali)

 …vengono elaborati i concetti-base che guidano il lavoro critico di quest’antologia: deriva, corpo, quotidiano, forme, tragico, deformazione, plurale, homo mediale.

   

4)  I poeti selezionati

Facendo un po’ di sociologia della letteratura, che andrebbe integrata con un’indagine geografica [alla Dionisotti] sui centri culturali operanti in Italia e sui loro legami europei o soprattutto statunitensi (mi pare), si nota che gli antologizzati sono rappresentati da un certo numero di docenti universitari, una corona di dottorandi e collaboratori dell’editoria  e un po’ d’insegnanti di scuole medie, con qualche rara eccezione “proletaria” (la Grisoni).

Tra i 64 autori selezionati ho trovato interessanti: 

- De Angelis, Franca Grisoni e Cecchinel [malgrado le mie riserve antiorfiche];

- Dal Bianco, per l’uso che fa della prosa come «mezzo principe per l’allontanamento da qualunque poetica d’elezione individuale» in Ritorno a Planaval e per la problematica della sua rivista Scarto minimo. (Ma non per la soluzione proposta: una nuova «canonicità delle forme metriche come tetto alla insopportabilità del male»);

- Pusterla per la sua sobrietà e la volontà di misurarsi con la storia novecentesca .

 [padre operaio (forse fascista perché si parla di ritirata dalla Russia, deportazione in Germania, fuga).. poesia che si è mossa in una prospettiva fortiniana (futuro anteriore, Mondo nuovo  da ricostruire, «assente nella sua irraggiungibile perentorietà»).. pratica della traduzione … tendenza a ridimensionare l’io lirico..(485) e a spingere la poesia  a diventare voce comune.]

  - Anedda, ancora per la capacità di mettere tra parentesi la propria soggettività e il rifiuto di ogni narcisismo autocelebrativo dell’io; e per il tono tragico della sua poesia che mi sembra profondamente vissuto;

- De Signoribus, per l’attenzione agli aspetti antropologici, storici e politici dell’immigrazione (dalle sponde dell’Adriatico in particolare, (520), per l’accettazione della mescolanza delle stirpi e per lo «scavo dentro la lingua maggiore della legge, della comunicazione e dell’ideologia  di una lingua straniera» buona per l’inedita, comunità che si va formando e non solo sulla pagina [Vicinanza alla mia idea della necessità di costruire una «lingua esodante»]

 Provo invece ostilità o molte riserve per:

- Magrelli con la sua freddezza chirurgica, altera e antipatica;

- Valduga con il suo manierismo scostante. (Ci sarebbe una riflessione da fare su quanta perversione e complicazione possa permettersi una certa poesia …);

- Ottonieri: la sua «scrittura cinetica» (349) o il suo «realismo informale» - «una sorta di blob  ossessivo e senza fine sui temi della merce e del contatto del nostro corpo con essa» [la Merce che c’è in noi] - mi paiono falsi nella loro pretesa, in continuità con la neoavanguardia, di affrontare l’invadenza della forma-merce (del Capitale) attraverso il rifiuto di scegliere una forma (proprio come fa il Capitale che tutte le consuma)

 [né condivido la sua idea che l’azione poetica sia immediatamente politica; anche l’uso di «parole campionate da lingue sconosciute» col metodo del cut up [= spezzare, tagliare, trinciare] molto diffuso nella ricerca  musicale d’oggi e la confusione di linguaggi diversissimi come quello visivo e musicale con quello della letteratura, più che illustrare, come pretende,  il risvolto mortuario della società dei consumi, mi sembrano un adattamento melanconico all’esistente (349) ]

- Frasca, col suo «formalismo colto e concettoso» e la sua tendenza a trattare di individui «vincolati alla dimensione mediale dello schermo televisivo»: mi sembra la poesia di un americanizzato cresciuto  a pane e mass media

 [ricordare anche il suo intervento al convegno di Pontignano sul secondo Novecento del  2001]…Non so oggi cosa possa poi voler dire un «modello rigorosamente materialistico» nel suo caso. La forma [diventerebbe] lo strumento della memorabilità, cioè la garanzia che il contenuto non venga disperso nel pulviscolo comunicativo odierno (369). Ma perché mai? Non basta la forma…]

 - Claudio Damiani (con la sua tendenza all’ arcadia) (437);  Dario Villa con la sua vivisezione di suoni e simboli di una lingua cadaverica (444); Remo Pagnanelli  col suo autobiografismo e la ricerca di compromesso tra Heidegger e Deridda e le istanze etiche dei francofortesi; Riccardo Held,  presentato qui come esempio del “rinascimento della forma” o come  incrocio di classicismo e sperimentazione; Rosaria Lo Russo con il suo citazionismo da Campana o dalla Beata Angelica da Foligno (784) o coi suoi debordanti «romanzi poetanti» (785); Giacomo Trinci col suo neometricismo anni Ottanta;  Vito M. [Maria, nome della madre… Mirella..] Bonito per la sua ossessività tematica (la  perdita della voce, desiderio della voce; voce cercata  in poesia nella «in-fantia della lingua», prima del linguaggio,); Edoardo  Zuccato [che a me pare un leghista] col suo  recupero letterario del dialetto nativo “altomilanese”, le sue epifanie e la costruzione di una mitografia «ancorata al senso di una ribadita appartenenza etnica»; Elisa Biagini [un esempio di legami con l’area statunitense e francese ( Deleuze, Nancy)] con la sua poesia  post-human  [indistinzione tra organico e inorganico, disorganizzazione del corpo in segmenti autonomi, corpo senza organi di Artaud, corpo non più come organismo ordinato]; Giovanna Frene con la sua «poesia pensante heideggerianamente intesa» (tono aforistico e assertivo) e l’ossessione necroscopica.

 

5) Osservazioni e critiche a Parola plurale

 1. È per un esempio di come viene affrontato [indirettamente, con altro nome] il problema che io chiamo della «moltitudine poetante» da parte di un settore della critica universitaria italiana che fa riferimento al magistero di Mengaldo.

 [ Es: Dopo questa data [‘75] «proprio in seguito alla caduta dell’Idea di Forma [del Moderno].. il panorama della poesia degli ultimi decenni si presenta accidentato e tendenzialmente impraticabile» (19)

«Caduta del resto in disuso l’idea di Forma, non si vede davvero perché lo spettro .. del ‘ pubblico della poesia’ autoreferenziale, diaristico e dunque privo di qualsiasi idea del linguaggio poetico, di qualsiasi bagaglio di cultura poetica – debba essere considerato qualcosa di diverso  dai poeti ‘veri’» (22)]

 2. È un’antologia che impressiona. Non solo per la mole di materiale critico e poetico che offre al lettore [continuando la linea del gigantismo editoriale tipo Il materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis] ma per la discesa in campo di una ”giovane critica” agguerrita, che copre a modo suo: un modo cautamente “postmoderno” [da postmodernismo critico?] che  intreccia una tradizione nobile (Mengaldo) con la koinè deleuziana oggi prevalente nell’intellettualità internazionale radical.

 3. È un’antologia di poesia appena più plurale delle altre antologie. Non è detto che avanzi davvero sul nuovo terreno plurale e confuso che Mengaldo (o anche Berardinelli, per non parlare di altri: Luperini, ecc.) ha rifiutato di affrontare. Le sue scelte sono circoscritte ad un ambito universitario-editoriale [area “mengaldiana” + una serie di sigle editoriali “minori” (Marcos Y Marcos, Zona, Oedipus, Effigie o d’if, ecc.  separate con un certo snobismo dalle  restanti, qualificate come «triste truffa» dell’editoria a pagamento (28)]

 [È un fitto dialogo interuniversitario con la volontà di  distanziarsi soprattutto  da Sanguineti]

[C’è un autocompiacimento non so quanto consapevole per l’espressione elegante, per il lessico studiato, per la citazione degli amici o dei contendenti]

[C’è l’attrito tra questo settore della ricerca universitaria e alcune corporazioni editoriali: sono apertamente polemici con Cucchi e Giovanardi e con Rondoni e Loi].

[C’è una certa complicità generazionale:  preoccupante che si conoscano tanto tra di loro e si citino a vicenda! Valgono le mie riserve emerse leggendo Akusma.. … …]

[Di questa origine “para-accademica” conserva i tic e i vezzi anche linguistici (sia nei cappelli che nelle introduzioni tematiche…Es. lessicali-spia: [Baccagliare=schiamazzare  (34) La «spietata usoformità  del corpo» ..«oraretinismo»… «astrazione gnomicheggiante»(42) Cortellessa]…gergalità da specialisti: «funzione Pagliarani». Una «funzione Rosselli» (35) [Quante funzioni!] [i cappelli critici sono spesso parafrasi iperelaborate e sovraccariche di allusioni dotte delle poesie antologizzate; confrontare  cappelli taglienti e puliti, come quelli dedicati ad Anedda, Dal Bianco, Febbraro, Conte, con altri più  legati a questi vezzi para-accademici:…]

 4. L’oscillazione tra selezione e apertura nei confronti della produzione poetica contemporanea, che è un problema “politico” (e non solo estetico) è stata risolta restringendo a 67 i prescelti e “segnalando” telegraficamente i nomi di una parte degli “amici esclusi” (28). Non viene spiegata però com’è avvenuta in concreto la selezione dei poeti. 

 5. Dà però un censimento ragionato degli autori esaminati. Quindi, permette di conoscere nomi poco noti, rende conto da vicino delle molteplici e contraddittorie tendenze in corso [dà  quindi il quadro di una   sezione rilevante della «moltitudine poetante»,  utilissima anche se parziale].

 6. Confrontata con altre antologie, sempre di parte e sempre più o meno amicali:  - ha riferimenti filosofici  d’alto livello (prevalentemente francesi e postmoderni: Deleuze, Nancy soprattutto); -  esplicita  le proprie scelte (precisa ad es. di muoversi empiricamente, quindi non si presenta come esaustiva o sostitutiva delle mappe mancanti né dichiaratamente come modello); -  polemizza apertamente, ma solo in alcuni casi con estrema chiarezza (nei confronti dell’antibrechtiano Conte, risparmiando in parte Cucchi, presentato come erede spurio della linea lombarda).

 7. Ha abbandonato alcuni riferimenti filosofici delle precedenti generazioni di critici (marxismo, fenomenologia, psicanalisi) sostituendoli  con  quelli “attuali” d’area francese (i già citati Deleuze e Nancy, ma c’è anche Beckett) senza addentrarsi sulle ragioni storiche del mutamento culturale.

 [Approfondimento necessario. Plurale contro singolare, molteplice al posto dell’uno. Siamo al divenire molteplice teorizzato da Deleuze, non a caso la figura filosofica principale di riferimento anche se non esplicita di quest’antologia postmoderna o «multipla» (13)? ‘Plurale’ è aggettivo di moda, ma copre significati diversi. Si può confondere con ‘pluralismo’. Si avvicina al problematico fenomeno del ‘multiculturalismo’ (spesso insidioso perché semplice ideologizzazione dei fenomeni  plurali). È contrapposto alle visioni unitarie o universalistiche (ad es. Marramao, che parla di universalismo delle differenze)  in nome delle ‘differenze’ e, dunque, non s’occupa più delle contraddizioni centrali nel pensiero dialettico. (Perché non più ricomponibili?)

 8. Ha raccolto i poeti sotto alcune etichette larghe, tutte fortemente letterarie e di moda [non so però quanto adatte ai nomi  che vi vengono poi fatti rientrare].

 [mancano categorie più apertamente riferibili a storia, politica e sociologia…]

Si afferma che «il fatto che venga meno la specificità del linguaggio poetico non significa che debba venir meno la forza etica e ontologica della poesia» (24) [di forza politica, però, si tace. Come se fosse irrilevante per la poesia il suo rapporto con il politico]

[Si parla di «rischiosa (ed eticissima) accettazione della pluralità» (24) [ed è un tema d’attualità dopo la crisi delle Grandi Narrazioni unitarie] ma pluralità non è ancora o non è automaticamente nuova visione politica o ricostruzione di una politica…]

 9. Corpo. Ho molte riserve su quanto viene definito linguaggio ‘corporale’ e sull’ipotesi che esso veicoli – come si afferma -  disagio sociale o possa spezzare l’egemonia del linguaggio astratto, tecnologico, seriale. 

 [Riserve analoghe ho su quanto il teatro della corporeità (Artaud), a cui si rifà Gentiluomo con la sua «insistenza sul repertorio fagico» o la sua «prospettiva ‘ventrale’(37), abbia efficacia non solo estetica ma politica. O sul fatto che «la palestra dei sensi [alluda] microcosmicamente, cioè allegoricamente, ad agoni più vasti». Queste allusioni andrebbero valutate parlando degli «agoni più vasti»,  mentre nei vari pezzi critici quest’analisi manca]

[La «risessualizzazione del repertorio medievale» di Berisso per me resta gioco endoletterario. Il «mix di oscenità scatologico-sessuale e liturgia religiosa» non scandalizza e non  incide per nulla sull’”avanzata del sacro”. (Siamo di fronte ad un eccitante e tollerato  libertinaggio elitario) . L‘«ostensione della maschera, dell’artificio, del trucco» (39)  è compiuta davanti ad un pubblico smagato e già ipernutrito di pornografia. La loro oltranza è circoscritta.

Il narcisismo di Magrelli [il suo sguardo rivolto all’interno del corpo] o quello di Valduga, che «da sempre persegue l’utopia di una pura esteriorità», sono iperletterari e restano narcisismi.

Queste riserve valgono anche per il compiacimento basso-corporeo di Trinci. O per la “ voce ventrale” di Flavio Santi o la «scrittura-pelle» della Biagini.

L’ambiguità politica di Frasca. Studioso e traduttore di Beckett (46). Da lui trarrebbe il «desengaño che riduce il mondo al suo “arido vero”, alla cruda letteralità del com’è…carcasse e carne [ecco l’autocompiacimento letterario]. Frasca - si dice - non sarebbe indotto ad accentuare la dimensione ‘civile’ «dall’orrendo mutare ‘al peggio’ [nessuna specificazione in merito!] delle condizioni esterne. Ma perché? Cos’è questo orrendo mutare al peggio? Cos’è la dimensione civile, se di essa  si scrive ironicamente: «(con tutte le virgolette che al termine impone la sua sputtanatissima tradizione»[!]?

E quel suo riferimento serioso all’idea schopenhaueriana del legame sessuale come «inganno maligno, perché induce alla riproduzione della specie e così alla cattiva infinità dell’universale macinio, nel tritacarne dell’esistenza» (48-49)?  Tutta qua la visione politica?

10. Quotidiano. Zublena nel saggio Il domestico che  atterrisce scrive: «L’interrogazione fenomenologica di Dal Bianco, la pratica dell’ethos di Pusterla, la levinassiana dialettica chiamata-risposta di Testa, lo spavento di Viviani, lo stupore-bagliore nel finito di De Angelis, il vitale stridore degli affetti nel mare del flusso percettivo schizoide di Frasca, l’ospitale perdita della casa di De Signoribus sono risposta all’immersione rischiosa nell’opacità strutturale del quotidiano. Nell’inesorabile sfuggirci della quotidianità, nello sfuggire del corpo a sé, nel pericolo dell’assoluto spaesamento… la condivisione della souffrance  dell’altro con il sé attiva una possibilità etica e politica» (66)

Ma basta la condivisione della souffrance  dell’altro con il sé ad attivare una possibilità etica e politica (Zublena 66)?  Tutto il problema enorme di una nuova visione della politica resta indeterminato. Ed è poi possibile nel solo quotidiano una costruzione politica  nuova?

 [Specie quando il quotidiano assume i toni preteschi di Viviani  che qui non vengono contestati (come si è fatto - ma era più facile - con Giuseppe Conte): «La scena dominante è la quotidianità, che però viene registrata con coscienza della benjaminiana impossibilità dell’esperienza da una parte, e nel contempo dell’inevitabile soggezione dell’umano al male» (68)…[!]  Viene avallato il suo percorso mistico verso un «aforistico libro sacro»,  la sua concezione heideggeriana dell’essere (sconosciuto, innominabile) a cui ci si deve affidare senza più affannarsi a costruire progetti, consegnandosi alla perdita, alla dépense (69)].. distaccandosi dall’agone umano, guardato ormai da lontano (69)]

 11. Tragico. L’insistenza con cui a proposito di De Angelis  si parla di alieniloquio,  infanzia come vicinanza pre-logica alla morte,  buio logico, o si parla di… «verso improvviso, venuto da un cuore su cui non si indaga» a me pare  enfatica e  ambiguamente apologetica.

 [Torna una semplice domanda: uno che pensa e scrive così come vive, dove vive, in mezzo a chi vive? Quanto è distante davvero dal mio-nostro modo di vivere e scrivere? E perché?

Cosa vuol dire o cosa mi dice una frase come questa: «Il verso di Ceni si immerge nella terribilità della natura, assumendo la forma di "“una specie di preghiera priva di perdono»? (299).

Oppure questa: «la parola emerge direttamente dallo spazio della morte» (300)?  Al massimo finge di…

Oppure: «La morte [al massimo il pensiero della morte!] quale centro e matrice della parola poetica è ciò che si dispiega nei suoi testi», 300]

A proposito di Anedda si parla di «musica silenziosa del sangue» ,(301)[!?] o di un pensiero che sente pulsare alle proprie tempie il peso di una sofferenza ancestrale, (301).
A proposito di Mesa si parla di segni quali simulacri della morte (303), di mondo in negativo, di liquidazione del linguaggio, di sfinimento del dire, di gioco d’agonia (304).

A proposito di Vito M. Bonito di assenza come sola presenza che questa scrittura riconosce [?], di un suo mondo della scrittura, chiuso come una monade che riecheggia un urlo-vagito interminabile «dando fiato alla morte» [!].

Noto in tutte queste affermazioni un’enfasi tutta  heideggeriana non un lavoro critico.

 12. Stili semplici. Vi rientrerebbero: Damiani, Fiori, Lamarque, Dal Bianco, Benedetti, Villalta, il primo Magrelli. Essi mirerebbero non alla verosimiglianza ma alla «comunanza». Ma comunanza con chi, con quanti? [Attenzione alle ambiguità del comunitarismo…] Non mi pare ovvio che il superamento dell’autobiografismo del vecchio lirismo si possa avere con un uso ‘allegorico’ del pronome, che arriva così a significare ‘tutti noi’ (Dal Bianco) (310).

 [«L’idea era quella vagamente heideggeriana di un essere esposti nel linguaggio  di un ‘farsi parlare’ dalla lingua»… rinuncia alle coperture polisemiche per parlare una lingua semplice etimologicamente… parlare con la lingua di tutti (311). [quanto è semplice, quanto è di tutti «una lingua semplice etimologicamente», se richiede una conoscenza specialistica così acuta dei meccanismi linguistici elencati abbondamentemente ed esemplificati abbondantemente da Scarpa su questi poeti (307)?  La semplicità dei classici (o del classicismo) è ben diversa dalla «lingua di tutti» (319)]

 13. Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie di Massimiliano Manganelli. Attraverso la ripresa del pensiero critico di Bachtin, a cui si era riferita la rivista Baldus con il recupero di Folengo («il nostro Rabelais») si sono avute esperienze di contaminazione, antiliriche, puntando sul basso corporeo, il dialogismo, la polifonia. Alle spalle un’ideologia: usare la letteratura quale paradossale strumento di aggressione contro la lingua massificata del mercato mediatico (al posto del monologismo lirico) con un ricorso sfrenato alla citazione (Voce) (606-608)

 [Sarebbe da rileggere tutta la documentazione sul convegno di Lecce…(1982?) con interventi di Fortini, Briosi, ecc.]

 [La letteratura sarebbe stata messa a nudo (Gentiluomo, Bàino) attraverso la parodizzazione di Leopardi. O la ripresa del Marino da parte di Frixione. Ci sarebbe stato un allontanamento dal campo letterario per diventare «mediatamente politici».  Dante, Leopardi o Montale sono parodizzati e al contempo omaggiati [610]. Ottonieri parodizza l’alto e il basso: la poesia d’amore e la canzonetta popolare, «forma di resistenza linguistica ma  anche ovviamente [?] politica» (610)]

 [Andrebbero approfondite e discusse affermazioni come queste: «Di fronte a una realtà già in sé deformata, abnorme, mostruosa, il grottesco sembra costituire oggi, in ultima istanza, l’unica risposta polemica possibile, poiché con una critica della rappresentazione e della visione risponde con una critica della rappresentazione e della visione. Smontare i meccanismi della realtà quotidiana dall’interno – merceografia condotta da Ottonieri e da Nove – significa smascherarla? E lo smascheramento sarebbe di per sé «un gesto autenticamente trasgressivo» (612).

Ah, quanti smascheramenti sono mascherate!]

 [I neoavanguardisti e i loro nipotini più o meno autenticati hanno davvero posto le vere «questioni politiche» collegabili a quelle «estetiche»? Si sono, sì, contrapposti ad «affondi narcisistici e proiezioni auratiche… riflusso intimista e neoromantico … orfismo e neoermetismo di La parola innamorata..(Pontiggia-Di Mauro)» (614),  ma ci si è ben accorti che fare l’avanguardia nell’universo della comunicazione estetica (Di Marco) non aveva senso o ci si “identificava col nemico” (622).  Ha prevalso la seduttiva cultura postmoderna, appiattita in sé e vocata all’estetico più che al politico (623). Mentre Cortellessa invita  a rompere il “bel giocattolo” e a costruirne uno nuovo (625) [ ma sempre giocattolo è]. Sanguineti parlava nel 2001 [convegno di Pontignano] ancora di «sovversione interminabile» ]

 14. Dialetto e postdialetto  di Fabio Zinelli. L’aspetto più interessante del saggio sta nello sforzo di vedere la ripresa del dialetto nel quadro della mondializzazione, Ho molti dubbi sulla tesi sostenuta: che dialetto e post-dialetto siano oggi di per sé esempi di «apertura plurale».

 [Dialetto “lingua delle maschere”… Dopo la stagione di Pasolini (mimesis che regrediva alla indifferenziata ricchezza linguistica dei dialetti con l’intento di «di dare corpo a strati di realtà che altrimenti resterebbero inconoscibili») (799), negli anni Settanta- Ottanta. il dialetto si è presentato come lingua poetica di un ritorno a casa]

 [Villalta, deriddiano, pupillo di Zanzotto: il poeta dialettale è un naufrago abbarbicato a un iceberg in viaggio verso l’equatore…montacarichi per far risalire materiali dal basso (801)… Titanic della letteratura italiana… sotto la minaccia dell’inglese e dei linguaggi settoriali]

 [Brevini. I dialettali sono in effetti  post-dialettali, cioè poeti posteriori al declino del dialetto come mezzo abituale di comunicazione quotidiana … poesia sbrigativamente [? …polemica di  Fortini da rivedere…]    definita ‘per professori’…]

 [«crisi dello scrittore dialettale non diversa da quella dello scrittore in italiano, vista la crisi di tutte le aree della comunicazione. La vecchia idea, cara ai parlanti, di un dialetto diverso per ogni collina e per ogni campanile è minacciata dal divenire di colline e campanili accessori del paesaggio unico della globalizzazione … più che dialetto inteso come  forma di resistenza culturale alla massificazione e alla globalizzazione. I nuovi autori avrebbero saputo «dare [o fare? Nota 2023] delle microidentità un luogo di passaggio per incontrare, nei suoi vari aspetti, il nuovo mondo globalizzato»  A me questo pare un passaggio semplificato.…]

 Troppo semplicistica  mi pare anche  l’etichetta ambientalista o ecologica attribuita ad una  scrittura che registrerebbe i danni inferti all’ambiente umano ed ecologico dall’industrializzazione selvaggia e dalla mercificazione dei rapporti di scambio (802).

Elementi considerati segno di ritardo provinciale risorgerebbero a livello comunicativo e formale e sarebbero portatori di progresso (806). Il dialetto verrebbe usato per la costruzione di una creolità, corrispondente ad una identità fluida, multicentrica, migrante, meticciata (876). Ma questo dialetto glocal - giustapposizione di romagnolo, italiano e  lingue varie [nel caso di Nadiani] – fa passare davvero i significati? E quali? Non c’è il rischio di una creolizzazione di superficie, come se si saltasse – per povertà – la possibilità di una vera traduzione e la si surrogasse con un minestrone di suoni dal significato indecidibile ( 807)?]

 15. Modelli mediali di Gianfranco Alfano. Analizza «i discorsi poetici contemporanei che più intensamente si sono confrontati con il sistema mediale» (813) e in particolare con le modificazioni seguite all’affermazione in Italia della televisione (anni ’50-’60) e ora coi nuovi media (815). Si accenna alle prove di Magrelli (computer e dintorni), D’Elia (Congendo della vecchia Olivetti), Voce (Farfalle  da combattimento), Lo Russo (Comedia), Ottonieri (Elegia sanremese), ecc. (816); al problema dell’analogia formale tra linguaggio poetico e linguaggio dei media (817). La caratteristica parodica di tanta parte della poesia contemporanea è collegata appunto al suo rapporto con il sistema  dei media, ricorrendo ad una sorta di mimesi ludica (818).

 [Su questo punto valgono le riserve espresse nei confronti di Frasca e Ottonieri…]

16. Secondo me la portata (ambigua) del fenomeno della scrittura poetica di massa (come sintomo della crisi della poesia contemporanea) viene sottovalutata. L’analisi dei 67 autori non mi pare giustificare il giudizio tutto sommato ottimistico a cui arriva l’antologia. C’è troppa fretta nel far tornare i conti e
giustificare  la poesia:

«Quello a cui assistiamo, così almeno ci pare, è davvero un nòstos struggente come quello del mito. A dimostrare una volta di più, come sempre [!] che la poesia serve , eccome, serve a tutti, appunto senza servire nessuno» (29) . Questo assunto zanzottiano risalente al 1974 (28) è tutto da dimostrare, mentre viene accolto dandolo per scontato.
Il senso comune dei poeti (o di un autorevole poeta) è presentato come verità e tutte le più inquiete interrogazioni  sulla poesia (penso a quelle di Fortini) sono  dimenticate.  I giovani critici vedono la poesia come «riserva di immaginario del nostro paese» e «attenta a confrontarsi con la sua storia passata e in corso» (29). [Ma quanta poesia oggi lo è davvero? E si confronta con la storia?]

 

Conclusioni provvisorie

  1. No alla poesia valore assoluto.

Io parto dal rifiuto di  una visione apologetica della poesia contemporanea. Ritengo legittimo chiedersi quanto essa ci metta davvero in contatto con i problemi fondamentali della nostra esistenza come singoli e come popoli. E, quando ne leggo, ho spesso uno sgradevole sentimento: di perdere del tempo, di divagare,  di compensare un vuoto d’”altro”. (Anche se so in partenza che è incolmabile per il momento).

Il sentimento sgradevole s’accresce appena mi documento sulla “amministrazione” della poesia che viene fatta da gran parte degli “addetti ai lavori” (critici, poeti, redattori di riviste, professori di lettere, dottorandi).

Non sostengo che la poesia sia meno importante delle scienze o della storia o di altri saperi. Ma è certo che quella che si fa oggi solo in minima parte valorizza ciò che può dare un senso alla vita dei singoli e delle società. E spesso nasconde con un tragico di maniera, narcisistico e individualistico, quanto di tragico e irrisolto (e magari di irrisolvibile) nel mondo avviene.

Non è detto, insomma,  che il semplice fatto di continuare a fare poesia (un poiein ultrasecolare) o ad occuparsene (leggerla, riflettere sul suo senso) sia sempre automaticamente e in qualsiasi  situazione storica cosa buona, giusta, bella, virtuosa. O che procuri e trasmetta  un vero piacere o sveli  importanti verità.

La mia ipotesi è che una buona parte della poesia contemporanea  (ma anche del passato…quale? precisare…) dice invece ben poco  di fondamentale.  E ritengo che la moltitudine che oggi la pratica  abbia una coscienza più o meno falsa del senso del  suo operare in poesia, del contesto  letterario, ma soprattutto del contesto sociale-storico in cui viviamo.[ Cfr. la nostra  piccola inchiesta  sulla moltitudine poetante]

Mi si potrebbe obiettare: ma allora perché ti occupi di poesia?

Semplicemente perché non si può rinunciare a respirare anche se si sa che l’aria è inquinata.  E forse perché è ancora viva – magari residuale – la memoria di altri respiri più ampi e liberi e di un’aria più pulita. Consapevolezza di una crisi, dunque. E sarebbe già tanto.

 

2. La forma antologia

L’antologia ha avuto spesso una funzione storica di manifesto di un gruppo o di un progetto. E forse oggi  potrebbe averne una di ecologia della letteratura, come ipotizzò a suo tempo Fortini. Ma  alle sue spalle c’è  una tradizione fortemente elitaria (specie in Italia) contrastata da episodiche spinte avanguardistiche (altrettanto elitarie).

Gli antologizzatori d’oggi mi sembrano  incapaci  o impossibilitati (in realtà) ad affrontare questo mare magnum   tumultuoso della poesia contemporanea , enormemente  cresciuto per la spinte complesse delle società di massa .

  [Forse ci vorrebbe una più seria interrogazione sull’attualità e l’utilità della forma-antologia, come in campo politico ci si è in vari momenti interrogati sui limiti ormai storici della forma-partito.

Una parte della critica, che pur ha dato fino alla fine degli anni Settanta il suo contributo autorevole alla forma-antologia (Sanguineti, Mengaldo, Fortini), di fronte al «tempo del gremito» (Giancarlo Majorino) ha  preso atto dell’impossibilità di proseguire il suo tradizionale lavoro.

La “moltitudine”  (più o meno poetante) non è  sondabile. O non è sondabile con gli stessi strumenti che si usavano per  la poesia “artigianale” o per giudicare i “maestri”.

Quelli che insistono si dibattono tra l’ipotesi di rifugiarsi  nei modelli del passato elitario e quella di abbandonarsi al plurale  

 [Parola plurale ha trovato una mediazione che a me pare nel solco della tradizione (Mengaldo): un’accentuazione del policentrismo. Potremmo parlare di una delineazione (generosa?) di una élite di massa, ma resta insondato (se non demonizzato) quello che di solito  viene indicato con il termine spregiativo di “sottobosco”; e che  sottobosco non  andrebbe considerato fino a quando non sia stato mappato con la stessa attenzione concessa tradizionalmente all’élite o  - ora – all’élite di massa].

Questo è il problema irrisolto degli antologizzatori odierni. Tutti si barcamenano. Ora si muovono nostalgicamente in direzione della tradizione, parodiando la selezione di alcuni “Grandi” contemporanei, quelli che “resteranno nella Storia” come i “classici” (Piccini), che a me pare una ridicola caricatura del mitico Parnaso. Ora  arrivano a punte di soggettivismo arbitrario ( Loi-Rondoni) o s’immergono nella cronaca che rimanda a chissà quando ogni  possibile sintesi (Annuario Manacorda).

 

3. Poesia  e presente di guerra

Siamo in uno stato di guerra globale e la situazione spinge ancor più a rientrare o ad accucciarsi nel «margine». Più guerra, meno democrazia. E crisi della poesia, bisognerebbe aggiungere. A meno di non pensare la poesia come impermeabile al mondo. Io non riesco a separare le possibilità della poesia dalle possibilità della democrazia

Uscire dal margine per la poesia significa prendere consapevolezza che anche il «margine» ha a che fare col potere. Che si sta, insomma,  al margine del potere, non al di fuori, non al di là. Anzi che il potere è presente nel margine, è presente nel linguaggio della poesia, anche quando  si vuole fuori dal comune, fuori dalla Comunicazione, anche quando si vuole stile semplice.

 Rispetto al passato la poesia deve acquisire consapevolezza di «una sorta di “potere reticolare”, una nuova forma di sovranità [imperiale] capace di includere i principali stati nazionali, le istituzioni sovranazionali, le maggiori imprese capitalistiche ed altri poteri» (10). Ivi compresi, quindi, i poteri (o i micropoteri) che possono essere esercitati nel linguaggio; e nelle lingue nazionali e  nel linguaggio poetico che di esse è un’articolazione speciale.

 La poesia da tempo non è più fatta nazionale. E oggi più che mai. La globalizzazione ha lavorato il paesaggio in cui si muoveva, ha abbattuto quinte e scenari, ha creato «nuovi circuiti di cooperazione e di collaborazione che attraversano le nazioni e i continenti, facilitando un illimitato numero di incontri» (11). Troviamo riviste o case della poesia, che intrattengono più rapporti con poeti statunitensi che con poeti italiani (ad es. la Casa della poesia di Baronissi, il paese in cui sono nato!). Troviamo  neodialetti o postdialetti  «creolizzati»…


Ennio dic. 2005

 

 

Appendice 1: condizione sociale dei poeti selezionati (da completare)

 

Viviani: laureato in giurisprudenza,  lavoro nell’editoria poi come psicologo

Conte: Laureato in estetica, insegnante nelle superiori e collaborazioni giornalistiche ed editoriali

Cucchi: consulente editoriale

Coviello: lavora nell’editoria?

Reta: suicida…

Patrizia Cavalli: lavoro editoria e Rai

De Angelis: ?

Frabotta: docente di letteratura alla Sapienza

Sovente: docente Accademia Napoli

Prestigiacomo: ?

Lamarque:  parte come insegnante di stenografia e d’italiano per gli stranieri

D’Elia: ?

Magrelli: docente di lett. Francese  all’univ. Di Cassino

Valduga:  collaborazioni a giornali e settimanali

Ottonieri: ricercatore presso l’università La sapienza di Roma

Frasca: ricercatore università ?

Scarabicchi: ?

Benzoni: ?

Benedetti: ?

Salvia:  ?

Dario Villa: editor

Pagnanelli: ?

Held: consulente editoriale e traduttore da tedesco e francese

Pusterla: insegna italiano a Lugano

Fiori: musicista ? insegnante?

De Signoribus: insegnante scuole medie inferiori

Buffoni: Insegna letterature comparate… dove?

Testa: docente universitario a Genova?

Tripodo: ?

Fo: docente lett. Latina a siena

Mesa: ?

Frixione: ricercatore in scienze cognitive

Durante: ?

Voce: collaborazioni giornalistiche?

Baino: ?

Gentiluomo: si occupa di teatro

Berisso: dottorato di ricerca, lavora all’università di Genova

Pierno: lavora come informatica?

Pinto: bibliotecaria alla Sapienza di Roma

Nove: ?

Lo Russo: traduttrice, attice, insegnante

Grisoni:  autodidatta, manicure, operatrice culturale

Rentocchini: insegnante di scuole medie

Cecchinel: insegnante scuole medie

De Vita: insegnante scuole medie

Nadiani: traduttore

Villalta: ? nel giro di Zanzotto

Dal Bianco: ricercatore all’università di siena

Anedda: ?

Febbraro: ricercatore alla Sapienza

Trnci:?

Bonito: insegnante di liceo

Zuccato: docente inglese allo Iulm

Gardini: ?

Inglese: dottorato di ricerca

Lombardo: impiegato?

Biagini: insegnante?

Frene: dottoranda di ricerca all’università di Padova

Fusco: dottoranda in italianistica

Santi: studente?

Giovenale:  lavora come libraio?

Sannelli: dottorando di ricerca a Genova

 

 

 

 


1 commento:

moltinpoesia ha detto...

SEGNALAZIONE

https://www.leparoleelecose.it/?p=46837#_ftn10

Non è un caso che uno degli ultimi lavori antologici autorevolmente riconosciuti da quasi tutti coloro che frequentano il mondo della poesia (ma certo non l’unico), pubblicato nel 2005, quasi vent’anni fa, si chiami appunto Parola plurale: fin dal nome, il lavoro di quell’équipe di critici rivendicava una condizione che da allora non è cambiata, ma semmai moltiplicata esponenzialmente. Nella prefazione, dal titolo 1975-2005: Odissea di forme, già si parlava apertamente come da tempo ormai (proprio dalla metà degli anni Settanta) ci si trovasse in una dimensione di convivenza caotica fra scritture assai diverse, che si trovavano a condividere la dicitura “poesia”, «pur ignorandosi bellamente» una con l’altra[12]. A partire da quegli anni, la poesia italiana è come se andasse incontro ad inevitabili «effetti di deriva» e la metafora che è stata spesso ripresa è stata quella dell’«astro esploso»[13]; e si è riconosciuto che il pubblico di lettori e il pubblico degli scrittori da quegli anni tendevano sempre più a coincidere, a fronte di una individualizzazione stilistica sempre più accentuata. Il critico Alfonso Berardinelli, nel 2004, guardando gli anni che erano seguiti alla sua fortunata antologia del 1975, dal titolo emblematico Il pubblico della poesia, ha scritto che «per tutti i venticinque anni successivi in realtà non si è riuscito a capire che cosa fosse diventata la poesia italiana»[14]. E pensare che nel 2005, quando Parola plurale fu data alle stampe, si era ancora qualche anno prima dell’avvento in Italia dei social network (Facebook nasce nel 2004, ma è del 2009 il suo exploit in Italia e YouTube è nata proprio nel 2005) e della conseguente trasformazione che ha operato sulla vita sociale delle persone e anche quindi sul panorama letterario.[15]

Ad oggi, le scritture contemporanee si trovano connesse le une alle altre in uno svariato, anarchico e pulsante continuo sottofondo, composto da riviste cartacee e on line, pagine Facebook, festival, libri, case editrici e profili Instagram ecc. La diffusione di internet, nel netto predominio della forma dei social network, ha creato una sorta di struttura-micelio, in continuo movimento senza che sia possibile trovare un centro. Insomma, chi si volesse affacciare alla scena della poesia contemporanea si troverebbe davanti ad immane groviglio di ife. Questa dimensione mediale, nella sua radicale novità, anche rispetto ai primi anni Duemila, è stata di recente descritta nelle sue conseguenze cognitive ed estetiche dal critico Alberto Casadei come un’epoca del Cloud, caratterizzata dalla compresenza potenziale e simultanea «di tutte le informazioni in cui siamo immersi».