domenica 23 giugno 2024

I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza (1)

 



di Ennio Abate

Tirando le somme (amare) dalla rilettura di due mie poesie del 2004/2007 (1). 

e le grida nelle nostre piazze?
cessarono

e gli spari?
si smorzarono

e le speranze?
pure

ora impuniti tramortiscono
giovani donne operai immigrati braccianti

e
altrove?
torturano  e ammazzano
sempre lasciando viva una vittima
che piangendo narri

dall’opulento schermo occidentale?
no, lì si raccontano le serpi
più belle sorridenti e orride

dunque?
bestiole offese vite inermi barcollanti speranze
voi, non vi ascolteranno
secca è la rosa rossa nel bicchiere

Possiamo solo morire?
....



23 giugno 2004

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(1)
Appendice

In quegli anni ero in dialogo con vari amici e trattai il tema in queste due versioni:

A

Il poeta in tempo di guerra non trema abbastanza

                                                         
                                                     a Giulio Stocchi


In tempo di guerra il poeta si ritrova solo.

Immagina un’aquila trafitta e finita a sassate.

Ne descrive la morte. Avviene in riva al mare.

Mescola idilli campestri e marini,

paesaggi di morti: citazioni di autori a lui cari.

Vede incendi, soldati o consimili

ammazzare e violentare con metodo

lasciando sempre una vittima

una donna di solito, che piange e racconta.


Ma è qui il poeta, coi suoi libri.

Aveva chiuso la radio tempo fa

dopo che le grida in piazza e gli spari

qui da noi erano di botto cessati.

Ora la riapre. Ascolta il male

che altrove avviene e dei concittadini

anestetizzati da decenni di piaceri

e sofferenze lievi solo quello dei vicini

di condominio.


Il poeta si dispera ma ha la poesia.


E tu scrivi...


Ha ricordi d’amore.


E tu scrivi...


Vede nel buio la città assopita.


E tu scrivi...


Pensa alla città lontana che brucia.


E tu scrivi...


Scrive un’invettiva già nota

contro l’ingiusto dominio del Denaro

e dell’America che, che, che....

Ma tornano le citazioni amate

tornano le immagini di cieli, cicale,

strade di campagne, fiori e amori.


Compito del poeta nel tempo della guerra

è dunque «proteggere un fiore/

una nuvola un sospiro»?


Altrove i guerrieri spazzano via il sangue

dei corpi appena torturati

e pensano anch’essi ai fiori, alle nuvole, ai sospiri.


Nessuno più - qui - osa combattere i guerrieri

se non con il fiacco vecchio strillo della poesia.



17 ott 2004/ 8 novembre 2007 (per serata alla Permanente)


***


B.

I poeti in tempo di guerra non tremano abbastanza


Io questa mattina mi sono ferito

a un gambo di rosa, pungendomi il dito.


Lontano lontano si fanno la guerra

Il sangue degli altri si sparge per terra1.



Era qui a Milano una volta il poeta

coi suoi libri, una rosa in un bicchiere e la radio spenta.

Le grida nelle nostre piazze e gli spari

di botto eran cessati.

Altrove i guerrieri ammazzavano, torturavano ora

sempre lasciando una vittima viva

una donna di solito che piangendo narrasse.

Il poeta tremante ascoltò. Invece di una poesia

scrisse sette amare canzonette e poi morì.


Ma voi poeti, che dopo Auschwitz

Ruanda, Afghanistan, Irak, eccetera

declamate poesie nel sublime immobile

ditemi: non sanguina mai la vostra rosa

nel bicchiere? tremano almeno

i versi quando li deponete nelle plaquettes?


Uno ha detto: i poeti non si sentano in obbligo

di scrivere versi contro la guerra. Giammai!

In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!

Nessuno più pretenda nulla da loro.

Facciano quello che sanno fare, le poesie.


Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri.

Pur essi quello che sanno fare, ben fanno.

Addetta l’una al massacro permanente

l’altra orgogliosa del canto suo sciancato

maîtresses entrambe di democrazia

- oh strano accoppiamento! – guerra

e poesia, dunque, assieme procedano?


Ma di una cara inerme offesa bestiola

che in noi vive sotto anestesia

voleva la salvezza il filosofo

quando dopo Auschwitz ammonì i poeti:

non scrivete, tremate!

È quella che ancora oggi si dibatte sul tavolo operatorio

tra le mani di ossequiati chirurghi della cultura.


Ma barcollanti fantasmi di speranza ancora approdano

da barconi sulle coste di questo Paese

che in immonda puttanesca televisiva democrazia

guerreggia fuori e tramortisce dentro

donne, lavavetri e rumeni

e annegherebbe in uno sputo tutta la loro carnale poesia.


Oh belle statuine di poeti, via le pose civili.

Altrove, in macabra pirotecnia

uomini-bomba esplodono

ma non raggiungono l’altezza della poesia

che voi melliflui e solerti adagiate

sull’opulento divano occidentale che l’accoglie.


Se potete ancora, tremate.

Non, come già fate

per la minaccia che i poveri giustamente

portano ai ricchi con cui trafficate.

Tremate di fronte all’orrore

da voi cancellato in nome della poesia.

17 ott 2004/ 8 novembre 2007 (per serata alla Permanente)


1 Franco Fortini, Sette canzonette del Golfo in Composita solvantur, Einaudi 1994, Torino.

3 commenti:

cristiana fischer ha detto...

Noi padroni del mondo
con la morte che incombe senza scelta
e la fine tramuta in superna eternità
noi mortali in croce come il simbolo 
del suo possesso orizzontale e il sangue
nella sua verticale 
profondità.
Il dio crudele ci sacrifica 
mentre del mondo si disinteressa:
è un moloch che ci getta allo sbaraglio 
a interessarci di scuse allo sbaglio
di esistere
senza nasconderci tra le foglie e i sassi
per mascherare nostra voglia: apparire
eterni in divina libertà.

Ennio Abate ha detto...

Ennio Abate

Accosterei questo dolente ma pacato scritto di Pietro Clemente
alla mia più disperata riflessione su "I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza (1)"....

SEGNALAZIONE
Pietro Clemente
·
Compleanno e guerra
Sta per finire la giornata del mio ottantaduesimo compleanno. E’ una scadenza poco rotonda e questo la rende più adatta a pensieri poco edificanti. Quando compio, faccio e finisco, gli anni penso sempre ai ‘miei morti’ mio padre, mia madre, i miei fratelli minori. A come sono rimasti in me, a come li ho dimenticati, ai rimorsi o alle nostalgie che ho verso di loro. Ripasso ‘la parte della vita’. Ma quest’anno sono sopraffatto dalla presenza della guerra. Dal dolore che è ancora più forte perché non le vivo, nei sono lontano, sembra una alterità impensabile per te quando prendi il caffè o vai a riposare. Ogni giorno aspetto la fine dei massacri a Gaza, ricordo spesso la poesia di quel professore dell’Università di Gaza, dedicata all’aquilone e premonizione poetica della sua morte (la metto in fondo). Ogni giorno mi riesce più difficile connettermi idealmente con la parte ‘buona’ di Israele con l’opposizione, con le manifestazioni contro il primo ministro, di fatto dittatore militare. Ma mi sforzo ancora di tenere aperto dentro di me quello spazio. Le guerre più vicine mi riportano sempre alla Yugoslavia. A come male la abbiamo vissuta, a due passi dalle nostre case, e facilmente dimenticata. Una ferita ancora sanguinante nella mia immaginazione morale, nella mia memoria. Terribili anni Novanta (la Somalia!!!). Già in quella guerra succedeva qualcosa che cambiava totalmente la lunga vicenda di pace sospesa dei muri e del bipolarismo. Anche all’Università cercammo di capire, di spiegare, di dare voce ai colleghi che stavano in mezzo alle bombe, e dopo cercavamo di ascoltare chi ascoltava le donne di Sebrenica, i racconti di Sarajevo. Con poco peso e anche con poca pace delle nostre coscienze. Non pensavamo che potesse succedere di peggio.
Così ho pensato di dedicare i vostri auguri e i miei pensieri a Luca Rastello. Giornalista e scrittore torinese che mi ha fatto accedere tramite il suo coraggio e la sua scrittura alla guerra in Yugoslvaia vista da vcino, vista da chi salva persone e si complica la vita per aiutarle . Immaginando cosa avrebbe fatto ora con la sua tenacia e la sua scrittura, con il suo fare e il suo scrivere. Ha pubblicato “La guerra in casa” nel 1998 un racconto soggettivo e drammatico di sé e la guerra delle zone di mezzo del soccorrere e dell’interpretare fuori dal coro. E poi ha scritto tante note sulla sua malattia tumorale che sono state raccolte dopo la sua morte di cinquatraquattreenne pieno di risorse umane e intellettuali. Avrebbe potuto per età essere un mio allievo. “Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime”. E con molti altri, un testo bellissimo sull’alterità della malattia e della morte. Sulla loro marginalità nelle nostre vite. La guerra, la morte, la malattia dentro la nostra vita e intorno alla nostra dimenticanza. Una lezione di vita. Sopravvivere chiede più memoria. Chiede ponti verso il passato memorie utili al futuro.

[continua]

Ennio Abate ha detto...

[continua]


E insieme a Luca Rastello voglio ricordare dei versi per me fondativi
Come questa pietra /del San Michele/ Così fredda/ così dura/ così prosciugata/ così refrattaria/ così totalmente /disanimata/Come questa pietra / è il mio pianto /che non si vede/ la morte/ si sconta/ vivendo
Ungaretti per la grande guerra ma così vicino a Gaza
e la poesia del professore di Gaza
Se dovessi morire/ tu devi vivere/ per raccontare / la mia storia/ per vendere le mie cose/ per comprare un po' di carta/ e qualche filo/ per farne un aquilone (fallo bianco con una coda lunga) /cosicchè un bambino/ da qualche parte a Gaza/guardando il cielo / negli occhi/ in attesa di suo padre che / se ne andò in una fiamma/ senza dare l’addio a nessuno/ nemmeno alla sua stessa carne/ nemmeno a se stesso/ veda l’aquilone e il mio/ aquilone che tu hai fatto/ volare là sopra/ e pensi per un momento/ che un angelo sia lì/ a riportare amore. / Se dovessi morire/ fa che porti speranza / fa che sia un racconto
Refaat Akìlareer, intellettuale, poeta, docente di letteratura all’Università di Gaza
Spero ancora ogni giorno che finiscano le guerre, almeno quelle vicine. Mentre domani ricomincerà il calendario a contare i giorni della mia esistenza, della mia sopravvivenza vitale, compatibilmente serena, di cui ringrazio la vita e la storia.
Grazie dei vostri auguri e scusatemi se non li ho pensati in modo festoso.
(https://www.facebook.com/pietro.clemente.79/posts/pfbid0cXdXiVtH37cuNNaFmDwAa8qtDFF3vhXCvPPH1r6KKonM3KUNFZ3NbJZoi2y3FWVVl)