RIORDINADIARIO 2011/ LABORATORIO MOLTINPOESIA DI MILANO
24
gennaio 2011
Ennio Abate a Lucio Mayoor Tosi e a Eugenio Grandinetti
Se sto su una spiaggia affollata da molti bagnanti e vedo una persona che sta per affogare, mi rivolgo ai pochi a me vicini, che mi possono sentire e darmi una mano. Non alla folla lontana e distratta, alla quale le mie grida non arrivano o giungeranno incomprensibili. Per questa scelta qualcuno mi potrebbe mai accusare di aver voluto rivolgermi a pochi con l’intento di «creare nuove élites»?
L’immagine
che ho della poesia oggi è proprio questa: una persona che sta per
affogare. Tutti noi vorremmo salvarla. Io però vedo attorno molta
agitazione, troppa confusione. E non m’illudo che alla (difficile)
operazione di salvataggio possano partecipare i *molti*,
ai quali pur si richiama nel nome il nostro Laboratorio. Non è
possibile. Non subito almeno.
Siamo realistici (senza essere
cinicamente realisti): in piccolo anche alle discussioni della nostra
mailing list partecipano *pochi*
rispetto
ai *molti*che
pur la seguono o sembrano seguirla.
Le cause di questo scarto sono tante e complicate: il tipo di vita convulso che facciamo; il “rumore di fondo” dei mass media che comunque ci sommerge; gli orientamenti mutevoli dei singoli: ora più propensi all’autopromozione individualistica; ora affascinati dall’obiettivo di una libera espressività; ora diffidenti verso certi problemi (critica dei testi, rapporto tra tradizione e innovazione, ecc.) considerati per oziosi o fisime da “intellettuali”.
Se questo mio punto di vista non è del tutto campato in aria, non mi sento affatto in contraddizione per aver scritto:
«la poesia deve rinunciare in partenza a raggiungere quanti non possono neppure "sentirla", essendo assordati da "questo mondo così distratto e frammentato"; e deve invece rivolgersi - perché vi è costretta, ma anche per scelta consapevole -ai pochi/molti. (Fortini diceva: non parlo a tutti. Io userei questa termine "ambiguo" per indicare un potenziale io/noi capace di costruirsi tenendosi lontano sia dall’elitarismo dei “pochi ma buoni”e sia dal populismo dei rintronati dalla grancassa massmediale».
Affermando questo, no, non mi sono trasformato d’un tratto in un fautore delle élites, ostile a una comunicazione più ampia della poesia (o di ogni altro sapere). Non è «riduttivo», come mi è stato rimproverato, rivolgersi ai «non-rintronati». Di fatto è solo a questi che arrivano (forse) alcuni dei nostri messaggi. Al momento non ci sono scorciatoie per arrivare agli altri. E non si tratta di nessun rifiuto spocchioso di “comunicare”.
Certo,
uno strumento potente per arrivare ai*molti*
ci sarebbe:
la comunicazione attraverso i media. Non la ritengo opera del demonio
da cui stare alla larga. Però è a tutti evidente che, per quanto
qualcuno tra noi possa aver imparato a parlare «universalmente in
modo appropriato e comprensibile», l’accesso all’uso di questi
mezzi gli è in genere impedita.
«Chi ha il potere di
selezionare i messaggi da veicolare attraverso i mass media usa –
ho scritto - criteri non diversi da quelli con cui Berlusconi sceglie
le sue *escort*e
i partiti i loro candidati alle elezioni». Provatemi il contrario.
Conclusioni.
La critica – almeno quella che ancora sta addosso a «questa realtà
oggettiva» e non occulta l’esistenza dei rapporti di forza
diseguali (per cui alcuni accedono attivamente ai mass media e altri
possono essere solo pubblico passivo o semipassivo dei mass media) -
è oggi l’unico salvagente che possiamo buttare alla poesia che
affoga. Ed i poeti dovrebbero essere i primi ad esercitarla,
anche nei propri confronti.
Solo avendo presente questo stato
di cose, sfavorevole alla ricerca in generale e alla stessa ricerca
poetica, si potrà «tornare a chiamare le cose col loro nome». E a
farsi intendere anche dai molti, oggi irraggiungibili.
Non
esiste più (e non solo in poesia) nessun «codice condiviso»,
nessuna «comunità che fa uso di quel codice condiviso».
La
frammentazione è tale che, anche quando si cerca di “comunicare”
con le più oneste intenzioni, non ci si intende. E, allora, credo
che il discorso di Fortini, solo in apparenza aristocratico, avesse
chiara proprio questa realtà; e chiedesse di far pulizia delle false
idee che circolano anche in poesia.
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