Anticipo un paragrafo del libro di Giorgio Linguaglossa "La poesia italiana dal 1945 al 2010" in corso di stampa presso l'editore Edilet di Roma. Nel parlare di autori affermati come Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Gianni D'Elia, Franco Marcoaldi, Franco Buffoni, il critico romano spezza un conformismo di giudizi favorevoli abbastanza diffuso e pone un serio problema:
"Siamo così giunti all’ultima soglia del minimalismo, dove il minimalismo sfocia nel qualunquismo, nella crisi della cultura ludico-ironica che è finita nel blog di Raitre, nella cultura che è finita nel canzonettismo di massa e nel cabaret di massa; dopo di che non resta nulla, c’è una spiaggia bianca e trasparente di conchiglie colorate… d’ora in avanti si apre una strada tutta in salita: non resta che sperare in un ripensamento generale sullo scadimento e sul discredito cui è pervenuto l’oggetto «poesia»… la poesia diventa un atto di fede nel futuro".
E' un buon motivo per discuterne. [E.A]
Il libro di esordio di Patrizia Cavalli Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) segna, con alcuni anni di anticipo, l’inizio del riflusso della cultura del ’68. La poetessa romana mette la parola fine ad ogni tipo di poesia dell’interventismo: alla poesia politica, ideologica, civile, impegnata, ed apre la strada del disimpegno, dello scetticismo «privato» e del ritorno al «quotidiano». L’andamento colloquiale, i toni da canzonetta, più che da canzoniere, il piglio scanzonato e disimpegnato, un certo malizioso cinismo e scetticismo, l’esibizione spregiudicata del «privato», anzi, dell’abitazione privata (nella quale avviene il processo di teatralizzazione dell’io), l’esibizione del certificato anagrafico, del certificato medico, la preferenza per gli oggetti «umili» del quotidiano, l’ironizzazione dell’io lirico, la deterritorializzazione del «pubblico» sono tutti elementi che diventeranno presto paradigmatici (e sinallagmatici) e saranno presi a modello dalla nuova generazione di poetanti. La poesia diventa sempre più «facile», ironica e spiritosa, di conseguenza cresce a dismisura la frequentazione di massa di un certo tipo di epigonismo. In altre parole, Patrizia Cavalli è per Roma quello che Vivian Lamarque è per Milano. Entrambe sono modelli irraggiungibili. Entrambe aprono la sfrenata corsa in discesa del minimalismo romano-milanese. Un minimalismo acritico, disponibile, replicabile e ricaricabile all’infinito da una smisurata schiera di poetesse e poetanti del nuovo «privato» massificato delle società della post-massa. La poesia diventa un genere commestibile, replicabile, riciclabile in pubblico, nei caffé letterari e nei cabaret. D’ora in poi la poesia tenderà a somigliare sempre di più alle filastrocche dei comici di cabaret. L’amore mio è buonissimo è l’opera di esordio di Vivian Lamarque (1978), seguono Teresino (1981), Il signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989), Il signore degli spaventati (1993), Una quieta polvere (1996), e il riassuntivo tutte le Poesie 1972-2002 (2003). È subito un successo di pubblico e di critica. È la tipica poesia femminile degli anni Ottanta: finto-amicale, finto-individuale e finto-sociale; dietro questo impalpabile spartito di zucchero filato e banale puoi scorgere, come in filigrana, la durezza e la rozzezza del decennio del pragmatismo e dell’edonismo di massa, il decennio del craxismo, della ristrutturazione industriale e della ricomposizione in chiave conservatrice dei contrasti di classe del decennio precedente. È una poesia facile, buonista, igienica, ironica, colloquiale, finto-sincera, finto-amicale, finto-problematica, finto-delicata, finto-infantile fatta di un’aria sognante, di piccole gioie e piccole vicende familiari: il «privato» da lettino psicanalitico è squadernato sulla pagina senza alcuna ambascia. Un finto infantilismo (accattivante, disarmante e smaccato che mescola furbescamente il tono da fiaba con lo spartito finto-infantile), è diluito come colla appiccicosa un po’ dappertutto con una grande quantità di zucchero filato e un pizzico di tematica «alta» (la «morte»), così da rendere più appetitoso il menù da servire ai gusti di una società letteraria ormai irrimediabilmente massmediatizzata e standardizzata. Poesia che è, ad un tempo, il frutto tipicamente italiano della eterna arcadia che ritorna, come il ritorno del rimosso, nella cultura italiana che, da questo momento, conoscerà un lungo momento di oscuramento e di obnubilamento.