Marilena De Angelis, Sacro e profano
Tanti i dubbi (spero fecondi) leggendo i vari commenti. Li sistemo per punti schematici e li ripropongo magari in tutta la loro immediatezza e probabile rozzezza,
ragionandoci a modo mio, senza troppe stampelle teoriche, con l'intento di rilanciare la discussione e trovare anche qualcuno/a che mi aiuti a dipanarli:
1. Il sacro sarebbe «ciò che non muta»? Ma c’è davvero qualcosa
(sacro o meno) che non muta? C’è qualcuno/a che l’ha raggiunto ed ha accertato
(intellettualmente) o sentito (emotivamente) questa sua immutabilità? E come si
fa a dichiarare immutabile qualcosa se non si ha la possibilità di conoscerla o
sentirla? Qualcosa, cioè, d’ignoto, di cui - si dice (dice Mayoor, ad es.) - si
sente «l’influsso… notevole… come quando vai al mare e lo senti ben prima di
arrivare». Al mare ci arrivo e posso accertarmi in qualche modo che ho sotto
gli occhi proprio mare. Il sacro, invece? Chi mi assicura che il qualcosa a
cui mi avvicino o che vedo/sento sia proprio il sacro?
2. Si dice poi (sempre Mayoor) che di strade per arrivarci «ce ne
possono essere diverse». Non vengono però (almeno in questi suoi commenti) indicate. Ma, ammesso
che tutte le strade (o alcune), portino al sacro, il punto di arrivo (il sacro),
restando in genere in ombra o relativamente
(troppo relativamente per me…) ignoto, mi fa dubitare (un po’) anche sulle
strade indicate da guide più o meno autorevoli.
3. Non capisco perché la realtà (altro concetto indefinito
nei vari commenti…) sia dichiarata sacra.
Posso accettare, sulla base dell’esperienza mia o di altri ai quali do credito,
che sia sorprendente, inattesa, sconvolgente, impensata, terribile,
terrorizzante o liberante, entusiasmante, scioccante o altro ancora. Ma perché
sacra? E poi tutta, Interamente?
4. Sembrerebbe che il sacro
sia stato sottratto alla gente comune dai “religiosi” e che si sia arrivati
(come? è secondario saperlo?) a una divisione tra cosiddette “cose terrene” e
cosiddette “cose spirituali” o tout court
(senza virgolette dubitative) ‘spirituali’;
e cioè non visibili, non percepibili dai sensi (che pur possono confonderci o
ingannarci, ma in parte ci garantiscono un minimo di certezze stabili, senza le
quali saremmo in uno stato di continuo allarme) e accessibili invece attraverso
un affinamento particolare del corpo e della mente («Ora et labora»; il
disciplinamento dei corpi studiato da Foucault, esercizi spirituali, ecc.) , di cui i singoli non vengono in possesso autonomamente, ma sempre e solo con la mediazione di specialisti
più o meno istituzionali (sacerdoti, guru, maestri, etc.). Sono essi che fanno da guide,
da Virgilio, perché sanno o si suppone che sappiano prima di te (o di noi). Non
contesto l’evidente divario che esiste in tutti i campi tra chi sa e chi non sa o sa di meno. Dico però che, se sottrazione di sapere (o di saperi) c'è stata da parte di alcuni su altri, essa dovrebbe aver riguardato un intero e non una sua sola parte soltanto (il sacro). Mi pare più probabile, infatti, che abbia
riguardato sia le cose che a un certo punto abbiamo cominciato a definire terrene sia quelle che abbiamo finito per chiamare spirituali. Non, dunque, solo queste ultime. E la sottrazione dev’essere
accaduta in un certo tempo (storico), in epoca relativamente recente.
5. Mi sono andato a rileggere la voce Sacro/Profano che Alfonso Di Nola scrisse per la vecchia
Enciclopedia Einaudi, Vol. XII e ho trovato due affermazioni, che
andrebbero approfondite, anche perché mi paiono parzialmente in contrasto:
1.
Nelle società arcaiche non c’era la cesura (tutta occidentale e moderna) fra
sacro e profano ed esisteva un atteggiamento “totalizzante” nei confronti del
reale: «ogni atto economico, anche fondato su una conoscenza
tecnologica arcaica, è contemporaneamente un atto sacro» (p. 314), per cui in
quelle società «nulla è sacro e nulla è profano nella valenza
lessicale e ideologica da noi attribuita alla coppia sacro/profano» (p. 317).
2.
Non si deve pensare all’uomo arcaico
come se egli fosse «in una permanente immersione nel sacro» (p.316), poiché, al contrario, anche in quelle
società veniva avvertita «la diversità fra il momento della laicità-profanità e
quello della sacralità» (p. 316).
Da una
parte pare di capire che gli uomini di allora non separavano così nettamente
sacro e profano come si è fatto dopo. Dall’altra che essi un po’ di diversità
tra sacro e profano lo avvertivano già allora. (Sarebbe da rileggere anche la voce Mito/rito nel vol. IX della stessa Enciclopedia Einaudi e ritornare sulla domanda fondamentale di Marcel Detienne: «I Greci credevano ai loro miti?», ma per ora salto..)
6. Se il “reale (da
definire in qualche modo!) è stato dunque espropriato, sottratto (ai molti, alle
masse, ai popoli, ecc.), propendo a credere che lo sia stato nella sua
interezza. Non ne sono certo. Posso ricredermi, ma mi convince di più questa ipotesi. Ormai
le cose intere o nella loro interezza si fatica persino a immaginarle, perché,
quando discutiamo (e specie di cose sfuggenti) - non
so se per comodità o abitudine a semplificare o per sottomissione alla
specializzazione spinta dei saperi più complessi - siamo portati facilmente a
segmentare. E quindi ad accettare distinzioni consolidate nel linguaggio (“terreno”,
“spirituale”, “economico”, “politico”, “culturale”, “filosofico”, “scientifico”,
“psicologico”, eccetera), come se stessero nella “realtà” e non fossero
costruzioni della nostra mente. Così s’impongono come degli assoluti, mentre ci mostrano solo “pezzi” della cosiddetta “realtà”. Non dico che di tali distinzioni possiamo
fare a meno, ma qualcosa (l’insieme? e solo l’insieme?) si è perso o si perde. (Con quali
danni?).
7. Ci aggiriamo dunque nelle “gabbie” di vari saperi. In certi campi l'esplorazione è giunta così in profondità che non basta una vita per impossessarsene). Eppure abbiamo saperi scollegati tra loro. Mancano i ponti per passare dall’uno
all’altro. E facilmente, come quando non si praticano lingue straniere, si finisce per starsene solo nella propria, perdendo ogni
curiosità per il resto. Pertanto se - altra affermazione di Mayoor - «le
letture economicistiche del reale» sono
parziali, direi che lo sono altrettanto le altre letture: le religiose, le teologiche
e, più in generale, tutte le letture
umanistiche (oggi “scienze umane”) e (in misura minore?) quelle scientifiche (degli specialisti dell’economia, che oggi annaspano davanti alla crisi ma anche di altre discipline). E non pare che la storia abbia dimostrato la parzialità o l’insuccesso solo di alcune di queste letture (le
“economiciste”) e il successo o la riuscita delle altre. (Forse che le
religioni hanno ottenuto risultati migliori, hanno prodotto meno danni -
guerre, disastri, infelicità - delle scienze?).
8. Su questa parcellizzazione della conoscenza si sono costruiti dei poteri storici (istituzioni
di vario tipo: dallo Stato alle Chiese, alle Università, alle Fondazioni che
arruolano teste d’uovo), i quali hanno imposto i loro metodi di ricerca e
valutazione, soppiantando precedenti autorità. E' importante cercare di
capire che accumulo di potenza (in parte reale, in parte fasulla) hanno
capitalizzato tali istituzioni, sia per evitare di diventare
inconsapevoli tifosi di quelle più forti sia per non contrapporvisi astrattamente.
9. Non dico perciò che quei saperi siano tutti equivalenti e di
tutti si debba diffidare. Anche perché ciascuno di noi ha una storia (non solo
personale) che lo condiziona e lo attira più verso l'uno che l'altro. Ciascuno, infatti, si è formato più in un sapere che in un altro, ha
avuto o non ha avuto un’educazione religiosa, più umanistica o più
scientifica; e del suo pregresso bagaglio culturale può disfarsi fino a un
certo punto. (Anzi sarebbe già un bene se lo usasse con maggiore precauzione,
sforzandosi di dare più ascolto a chi proviene da un’altra formazione).
10. Nella discussione Erminia Passannanti ha sostenuto, in
contrapposizione a Mayoor, che «il sacro muta eccome, ma molto lentamente,
impercettibilmente… ma al passo dei millenni». Se, allora, il sacro «è iscritto nel tempo e nella
natura delle cose», fino a che punto può essere
distinto dal resto (cioè dalle “cose umane” o dalle “cose naturali”)? Solo
per una sua maggiore lentezza? Che ha di per sé o gli attribuiamo noi?
11. Ma muta o non muta
il sacro? Rita Simonitto sostiene l’immutabilità di per sé del sacro. Mutevoli sarebbero
soltanto le rappresentazioni che ne diamo. Saremmo «noi che mutiamo» (e
aggiungerei: angosciati dal mutamento…) e pensiamo il sacro come mutevole. Perché altrimenti neppure potremmo
concepirlo, essendo «‘altro’ dalla nostra esistenza». La quale, si sa, evidentemente,
irrimediabilmente, mutevole lo è, per tutti/e. Il sacro, allora, sarebbe (come
il divino?) una nostra costruzione. Rita indica il sacro anche con dei
sinonimi:«vuoto, informe infinito» (da Milton) o «’altro’ dalla nostra
esistenza».
12. Esiste - mi pare - un continuo slittamento degli attributi dell’oggetto di cui vorremmo
parlare, ma è l’oggetto stesso - il sostantivo sacro - che resta oscuro. Da
qui varie contorsioni e difficoltà. Le colgo soprattutto in alcune affermazioni di Mayoor: «Togliamo
il sacro, che vedo non piace (e lo capisco), e parliamo allora del permanente»;
«la ricerca del permanente ci renderà meno infelici»; se «[portassimo] via il
sacro alle chiese», «[faremmo] una buona azione verso noi stessi». A me paiono
promesse sulla pelle dell’orso (in questo caso il sacro) prima di averlo
catturato.
13. A questo punto nel discorso sul sacro fa il suo ingresso la poesia. Essa, si dice, sarebbe un
ottimo strumento per cercare il sacro.
Ne siamo sicuri? A me restano tanti dubbi, proprio perché il sacro non è in qualche modo definito. Come
faccio ad esser certo che con la poesia posso afferrarlo? Non è che lo
inseguiamo, ma poi ci restano in mano solo le metafore a cui ricorriamo per
parlarne (muovere verso il sacro, attingere al sacro, rompere il sacro o
spezzarlo)? Hanno davvero un legame con la “cosa” (il sacro)? Altrettanto vaghe e confuse mi sembrano istanze del
tipo: bisognerebbe «introdurre il pro-fano» (nel sacro? nel «processo» di
avvicinamento al sacro?); evitare di «rendere sacri anche gli strumenti di accesso»
(al sacro); o quella di sacralizzare il Poeta, il quale sarebbe più di altri «in
contatto con il sacro» (e chi l’ha dimostrato?).
14. Non do al poeta la patente di “sacerdote supplente” o di
“sacerdote di serie B”, che pur si è assunto a volte presentandosi appunto come poeta-vate. Sono ancora
con Fortini contro «la sporca religione dei poeti». Meglio fare i conti con la religione tout
court e criticarla, se siamo ancora in
grado di farlo e ci sentiamo di criticarla per quel che ha di negativo. Non mi va concedere, come fa Rita Simonitto che «il poeta, solo in
quanto ha affinato una capacità di entrare in contatto con il sacro (anche lui
quindi un sacerdos, un Vate) potrebbe dirsi sacro. E la poesia, solo in quanto
strumento che permette questi contatti, può, se proprio proprio vogliamo
spingere, dirsi sacra». La poesia, che
con la religione ha avuto certamente nel passato fortissimi legami (andrebbero
riletti e commentati certi capitoli
dell’Estetica di Lukács!), può e
deve essere criticate sempre. Come dev'essere criticata la
religione. Come devono essere criticate le scienze stesse.
15. Che poi l’ars poetica
pretenda o abbia preteso (in passato fin troppo spesso) un contatto speciale
con «il non-ancora-noto, attraverso un lavoro di pro-fanazione, di distruzione
dei vecchi idoli» è vero. Ma è un’autorappresentazione ottimistica e ambigua di
processi, che forse non corrispondono
effettivamente a quello che effetivamente avviene o è avvenuto nella produzione di
opere d’arte o di poesia. Temo, infatti, che poeti e artisti siano stati o
siano tuttora così succubi del prestigio secolare dei “religiosi” da aver sacralizzato le loro pratiche (e ben più del dovuto, e
non solo per imposizione esterne di chiese e preti, e a danno della libertà stessa della loro ricerca) .
16. Chi mi dice che certi risultati notevoli o sorprendenti
nell’invenzione di segni e nella combinazione poetica delle parole non siano
stati raggiunti per caso (per tentativi ed errori)? E non perché, come hanno creduto o sostenuto
gli stessi inventori o scopritori, per ispirazione divina («cantami o diva…») o
per una particolare e insondabile
facoltà ( il genio?) da alcuni posseduta e da altri no? Se è probabile che «ognuno
[abbia] bisogno di idoli, che lo voglia oppure no», resta il fatto che a me (e
non solo a me) pare ideologica (cioè non corrispondente a processi reali) ogni spiegazione della poesia come operazione
che avrebbe un contatto privilegiato con il «non-ancora-noto». Proprio per
difendere la forza della poesia, sono
convinto che non bisogna concedere un di più ai poeti in partenza o a scatola
chiusa rispetto agli scienziati o anche alla gente comune. Neppure che la poesia sgorghi «dall’interiorità», che è un termine indefinito quanto il sacro.
17. Che l’«interiorità», invece di essere un luogo di maggiore
libertà rispetto all’ «esteriorità» o «una specie di ritiro spirituale, come
facevano i monaci di un tempo» sia, piuttosto, un altro complesso luogo di
conflitto tra spinte liberatrici e spinte distruttive, come ha ricordato Rita Simonitto appellandosi a Freud, mi pare
ipotesi tutta da condividere.
18. D’altronde ho perplessità anche su due altre prospettive
affacciatesi nella discussione: il
rapporto tra poesia e realtà e il rapporto tra poesia e tragico. Siamo
abbastanza stufi della poesia «da diporto» (Bertoldo) o “leggera” o
“quotidianista” o “minimalista” (Linguaglossa). E anche di quella che insegue mimeticamente il caos
moderno o postmoderno o «la vita», registra e si ferma lì. La «realtà» sarà
pure complessa o difficilissima da intendere, ma non comanda automaticamente le
scelte linguistiche di un poeta. Mi chiedo però se, per distanziarci da queste
tendenze, che oggi sentiamo
insoddisfacenti o invecchiate, davvero «non rimane dunque che riappropriarci
del tragico». E se dovessimo onestamente concludere di sì, è lecito sapere di quale tragico dovremmo occuparci?
19. Nella discussione Rita Simonitto ha indicato una prospettiva
(suggestiva? conciliante? dialettica?): «portare il sacro al pro-fano (viaggio
di andata) e […] portare il pro-fano al sacro (viaggio di ritorno)». È una prospettiva
che mi pare confermata da Di Nola, quando scrive:
«Eppure il piano della laicità indifferente al sacro non può operare...
in una sfera di autonomo e assoluto isolamento dal sacro. Sacro e laicità sono
soggetti, in sede di esperienza storica, ad interferenze e scambi che danno
origine a fenomeni di commistione... noti... come ‘laicizzazione (o
profanizzazione, o secolarizzazione) del sacro’, e, all’inverso, come
‘sacralizzazione dell’orientamento laicistico» (p. 338)
20. Rileggendo alla fine le seguenti definizioni di sacro che ho trovato
elencate in Di Nola:
a. nelle culture popolari il sacro «coacerva, in una fusione amorfa, le ignote e
pericolose cose che appartengono primamente ai santi, poi ai morti, poi a dio,
al dominio mediatore del prete e dell’uomo di chiesa. Nei confronti di un tale
coacervo[…] l’atteggiamento è quello di un timore reverenziale, di un avvertimento
di distanza ed inaccessibilità» (p. 335);
b.
per Hubert e Mauss il sacro era un “sacro sociale” e vi comprendeva precisi
concetti «di separazione, di purezza, d’impurità, e,
contemporaneamente, i concetti di rispetto, di amore, di repulsione , di timore»(p. 341);
c. per Levy- Bruhl esso si presenta come «potenza occulta e invisibile» (p. 345);
d.
per Söderblom il sacro è «emozione irrazionale di terrore-reverenza in confronto
di alcune realtà» (p. 347);
d.
per Otto il termine ‘numinoso’ (che sostituisce il termine ‘sacro’) diventa una
essenza, «che si rende accessibile, ma non comprensibile, sul
piano delle emozioni e delle reazioni psicologiche” e porta ad una “totale
svalutazione della condizione umana»(p. 349)
e.
per Eliade il sacro è «il tutt’altro... la potenza a sé..la forza, la
vita, forme epifaniche della realtà ultima» (p. 351).
rimango con un dubbio forte e lo esprimo così: la sacralizzazione
di ciò che è sconosciuto (il mistero), a me pare sottragga quel qualcosa che definiamo sacro all’interrogazione (poetica o
scientifica) che non dovrebbe essere inceppata. Azzardo una prospettiva che detta con un rozzo slogan suonerebbe così: desacralizzare
il sacralizzato il più possibile. Non so se coincide con la prospettiva di andata-ritorno dal sacro
al profano e viceversa, di cui parla Rita Simonitto (e forse Di Nola). Ma temo l’indeterminatezza del sacro. Esso mi appare -
forse esagero - una sorta di araba fenice, data per esistente ma mai
confermabile. Sia chiaro che io non escluda che possa esserci, ma non mi adatto a rinunciare alle prove e
diffido di chi ha fretta e non me le dà.
3 commenti:
Caro Ennio, un simile argomento mi tira proprio a tenzone. Solo brevi considerazioni su un argomento enorme e spaventevole per la sua vastità.
Mi pare che la prima cosa sia definire il significato di "sacro". E già qui inizia il problema, perché pretendere di definire ciò che per sua natura è elusivo, sfugge all'esperienza razionale, si sottrae al flusso unidirezionale del tempo come noi lo conosciamo, è inconoscibile con gli strumenti della logica razionale, è molto difficile. Una simile impresa richiede la conoscenza di tutte le fonti e i testi, il che attiene più a uno storico delle religioni. Forse meglio sarebbe, almeno per me, che non ho tutti gli strumenti, provare a definirne le qualità, gli attributi, secondo quella che è la mia esperienza. Come specifica Eliade, e in questo concordo, il sacro è un elemento della coscienza e non un momento della sua storia. Sacro (il Numinoso di W.Otto) è ciò che sta al di fuori dello spazio-tempo. Il tempo del sacro, come dice Eliade, è circolare, non lineare. Si manifesta nella ripetizione del rito. L'esperienza del sacro è sempre puntuale e inattesa - non cercata, come l'illuminazione, il nirvana, del Buddismo. E' il Dharma indiano, la legge, la regola, l'ordine dell'universo. Il Mana, la potenza che si manifesta in tutta la sua terribilità. Il sacro non è certamente mutevole, poiché, sottraendosi allo spazio-tempo, non è impermanente (l'impermanenza del samsara). Non "scorre" come la realtà di cui abbiamo esperienza e in cui siamo immersi. E' l'apeiron perièchon dei greci, quella dimensione indisinta, non limitata, "esterna" e minacciosa nella sua inconoscibilità che circonda l'esperienza del conosciuto. E' la forma nella sua essenza eterna, come categoria antitetica dell'evento (Carlo Diano).
Dunque, mi pare che uno degli attributi fondamentali di quello che si definisce sacro, numinoso, apeiron periéchon, forma, Mana, Dharma ecc. sia la sua permanenza, il suo essere al di fuori dell'esperienza materiale e dello spazio-tempo.
Il sacro NON è la religione. La religione - qualunque religione - è una struttura umana che tenta di mediare e organizzare la percezione del sacro. Proprio come il significato etimologico del termine indica (religo - legare, collegare). Dalle culture sciamaniche alle religioni politeiste e monoteiste, il fine è quello di trovare dei mediatori tra il visibile e l'invisibile, all'inizio non come forma di potere, ma per l'immane e pericolosa potenza che il sacro possiede e che solo può essere "controllata", da agenti che ne assumano su di sé tutti i pericoli e i rischi. Da qui a un esercizio arbitrario di questo potere, soprattutto nelle religioni monoteiste, il passo è breve.
Ma, dopo questa brevissima e necessariamente superficiale premessa, vorrei dire qualcosa sul sacro e la poesia.
La poesia nasce come musica. Agli inizi l'una ERA l'altra e il loro carattere inscindibile permane per tempi lunghissimi. Anzi, la musica nasce dalla parola e parola del mito. Dunque l'ambito in cui si muove alle sue origini è quello del mito, cioè del sacro. Più il mito perde il suo valore poietico e sociale, più la poesia si allontana dalle sue origini. Ma v'è un ambito in cui questo non avviene ed è la poesia dei mistici. Mi vengono in mente, così sparsi, Teresa D'Avila, Gerard Manley Hopkins, i poeti sufi e persiani, Rumi, ecc.
In tutti questi poeti il punto centrale è la "sete", la spinta, la ricerca della fusione e dell'annullamento del Sé. Poiché la dimensione del sacro non ammette distinzioni e separazioni e dunque emerge questo tendere alla dispersione dell'Io. Proprio l'opposto di ciò che fa molta della poesia (o di quella che erroneamente passa come tale) oggi.
Ci sarebbe da dire una valanga di cose, ma sono costretta per motivi contingenti a limitarmi. Però ringrazio Ennio di questa splendida discussione.
Ennio, vatti a rivedere, ti consiglio, La Nuova Scienza di Gian Battista Vico, sul sacro e la poesia: è un libro fondamentale.
Erminia P.
Di sacro trovo nel passaggio
nell'arrestare le fatiche
per leggerti poeta.
Emy
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