Proseguendo il discorso su La polis che non c’è. Tre modi di interrogarsi in poesia sul venir meno della polis e della società civile pubblico pubblico gli appunti di di lettura di G. Lucini sulla mia raccolta Immigratorio [E. A.]
Appunti per una lettura di “Immigratorio”, di Ennio Abate
“Immigratorio” è un’opera polimorfa, non nel senso di avere
più di una forma (è, anzi, un qualcosa in sé unico, anche se sulla scia di
diverse scritture, anche italiane: mi viene in mente ad esempio a Giovanni e
le mani, di Fortini) ma nel senso che sta dentro la logica di diverse forme
di scrittura. E’ un romanzo storico, ma è anche un poema, è un racconto
personale di vita e di identità ma è anche un racconto paradigmatico e
generazionale o anche di classe (quella degli immigrati), è un’opera di poesia,
ma anche una testimonianza sociologica che tratta dell’incontro di due realtà
ambientali molto diverse e, infine, capace di alludere anche alla realtà
dell’immigratorio contemporaneo, dai paesi poveri al nostro Paese. E infine vi
è il risvolto linguistico che fa dialogare lingua e dialetto in maniera viva e
sinergica.
La scrittura si esprime poi in diversi modi: con la poesia
lirica, con la prosa civile, con il resoconto quasi cronacistico, con il racconto
nel racconto, con l’epistola, senza però mai perdere di vista un’intenzione
unitaria e coerente.
Occorrono dunque più occhi, per leggerlo e questo ne fa una
scrittura densa e polisemica.
La voce principale, al di là dell’apparenza, è collettiva, non
personale. C’è una realtà importante che si muove, dietro queste pagine, che
trascende ampiamente la vicenda dei diversi personaggi o dell’”Io narrante”, ed
è paragonabile a un’epopea.
La poesia che permea versi e prosa sta nella situazione
evocata, non nella scrittura. E’ la “situazione in sé”, che si dipana in testi
iconici che pian piano, nel corso della lettura compongono un vastissimo quadro
di fatti e di sentimenti, a sostenere la poeticità della scrittura, così che la
forma e la lingua si connotano come semplici strumenti espressivi di questa
poesia, senza assumere il rilievo di “poesia”.
Ossia, l’accento non sta sulla soluzione linguistica adottata, ma sulla
poeticità della vicenda espressa col vigore della testimonianza e
dell’ispirazione, più che con lo strumento linguistico di volta in volta
adottato.
Rispetto al tema proposto, ossia “il venir meno della pòlis
nella società civile”, a mio modo di vedere manca un antefatto per questa
domanda. E l’antefatto è: “c’è mai stata una pòlis” o, in altre parole, il
concetto (ideale?) di pòlis che noi consideriamo come dato culturale acquisito,
è davvero così uniforme nella nostra cultura?
Ammesso che lo sia (e al riguardo ho forti dubbi), non può
che essere un concetto pregno di eticità, di una concezione etica della
politica e viene da sé che, in un periodo storico nel quale l’etica diventa
sempre più relativa e strumentale a un certo sistema di valori (diverso,
sensibilmente diverso rispetto a neppure mezzo secolo fa) anche il concetto di
pòlis non può rimanere fisso. E se con “pòlis” la mente correva, per
associazione, al sistema di governo democratico, oggi sempre di più, pensando
alla “pòlis”, la realtà ci mostra un sistema di governo oligarchico, nel quale
esiste una “pòlis” fittizia, che funziona con le vecchie regole, ma entro un
quadro di regole generali e sovrastanti completamente rivisto in funzione non
della politica, ma dell’economia. La Pòlis è praticamente diventata una grande
gabbia nella quale non si vedono le sbarre, e dove ognuno si muove pensando di
essere libero, e in apparenza lo è, ma sempre dentro una gabbia. C’è chi arriva ad intuire e magari anche a
cozzare contro le mura di questa gabbia, ma la gabbia è così vasta che ignora
di cozzare contro la parte interna o la parte esterna di questo muro.
Io credo che la pòlis non sia una condizione tangibile, ma
un ideale. In questo senso, “pòlis” si potrebbe tradurre con “sistema ideale di
convivenza”, o “contratto sociale equo” ed è innegabile che ogni giorno si
debba sempre più registrare questo “venir meno” della pòlis, come sostiene
Abate. Il problema è che non possiamo dimostrarlo, perché non sappiamo se
stiamo dalla parte interna o esterna del muro.
Immigratorio, nella sua innocenza e naturalezza
espositiva, a mio avviso fa l’unica cosa possibile in una temperie culturale
come la nostra, caratterizzata da questa sostanziale illusione o dubbio, che è
quella di raccontare una verità sentita, così come la propria sensibilità
suggerisce, senza filtri culturali (s’intende, voluti, perché la nostra
stessa vita è un grande filtro culturale acquisito, criticato in parte o in
toto, influenzato dal carattere e dalle inclinazioni o pulsioni personali, e
pertanto mai obiettivo).
Se può dunque sopravvivere una pòlis, anche in senso
classico-umanistico, non può che sopravvivere all’interno di una testimonianza
di verità e non all’interno della “dimostrazione” di una verità. Per
tornare alla metafora del muro, qualsiasi dimostrazione è fallace, se non si
risolve prima in quesito: siamo al di qua o al di là del muro?
Il compito dell’artista (e dello scrittore) nel tempo del
“venir meno della pòlis nella società civile”, allora, non può che essere la
testimonianza e la fedeltà alla verità sentita, senza la pretesa di
testimoniare la verità assoluta. É il compito del ribelle, che addita il
sistema di storture e non esita a combatterlo pagando di persona (e, per
inciso, non è un comportamento eroico, ma razionale: vedere il negativo e
tacere conformandosi, ossia quella che noi chiamiamo “normalità”, non è altro
che schizofrenia. O, in altre parole, l’eroismo di oggi è la semplice coerenza,
qualcosa insomma di anti-eroico, di anti-lirico, di anti-letterario, ma di
estremamente pratico, dove la bellezza significa vita e suo significato, non la
perfezione del gluteo dell’amata o i colori dorati di un tramonto).
Ecco perché il lavoro di Abate trova un aggancio a quello di
Bertoldo: perché Immigratorio è, in qualche modo, una firma chiara alla
“pergamena dei ribelli”, un documento che non esiste fisicamente ma, io credo
esista – eccome! – spiritualmente.
5 commenti:
sono greci e romani che hanno concepito un' accezione positiva della città come polis. idea che ci hanno fregato poi i nord-eruropei (prima ed istintivamente tribali), gli inglesi e gli americani.
questo avveniva attraverso i secoli, intanto che la nostra nozione di polis decadeva e si contaminava con quella loro, più razionale e naturale, di tribù.
infatti la polis è un concetto forzato dalle egemonie culturali sulla gente.
in verità, il clan è molto più vicino all'istinto barbarico delle comunità.
la polis è un concetto e non una realtà naturale, secondo me.
che non ci sia, in questi tempi di decadenza della cultura, non mi meraviglia , sicchè la polis è solo un prodotto culturale, anche in senso giuridico del diritto civile --
vedere che non ci sia, affermare che non ci sia, è pervenire alla verità dietro lo specchio dell'utopia e della pianificazione dei modelli ideal-funzionali. erminia
ecco perchè, pur essendo di sinistra, uno è oggi forzato ad essere stalinista, ovvero un/a fascista di sinistra: perchè la gente non si merita la polis, e gliela si deve imporre, in forza di leggie discipline dispotiche: pena il caos. siccome lo stalinismo non tornerà e non può mai tornare e nemmeno il fascismo, in nessuna forma, ma solo l'imperialismo capitalista avanzare a oltranza, ormai, la pena è il caos e l'assenza definitiva sia della polis sia del suo concetto. ermina
Immigratorio ha spezzato la gabbia,Immigratorio non spera,racconta esce dalle sbarre ,allargate con la forza delle sue mani, Immigratorio si ribella per continuare a credere nello spirito della ribellione e della giustizia degli uomini giusti, li troverà? ciao Emy
"Quando gli amici s'incuneano in stretti vicoli
di morte, un allarme suona. Essi sudano e noi
prudenti tremiamo. E per sedare i loro spasimi
furibondi ci caliamo sul volto un elmo di silenzio."
Questi versi tratti dalla poesia "Lettera di lamento di Karl Bis" basterebbero per segnalare l'Abate poeta che mi ha convinto leggendo. Ve ne sono tantissimi altri naturalmente, ma qui vorrei far notare quel silenzio.
Più avanti prosegue:
"Sono rimasto, sì, fuggendo io pure da fermo.
Pacato e ragionevole, non mi sono lacerato.
Se lacerato, mi rattoppo. E sposto un silenzio
dopo l'altro, di continuo…"
Questa poesia immette negli occhi la visione dell'immigrato. Allontanandosi dall'amico rimasto a Salerno:
" Ora il filo residuo con SA erano le lettere di Karl Bis, che cercò di farlo tornare. Ma Vulisse estraneo tra estranei, s'aggirava per stazioni, strade e solo in qualche parco per attimi si riposava"
"… Lui dal presepe s'era tolto e accusava l'altro d'esserci rimasto e di non intendere più quel suo dolore da supermercato…" .
Il silenzio di cui parlo è qui, il silenzio prudente e guardingo di un intellettuale immigrato, dagli aranceti alla piatta Lombardia. Uno sguardo ben diverso, si potrebbe dire per contrasto, da quello del milanese doc Umberto Simonetta, che negli anni '60 scrisse "Tirar mattina", che nei panni di un "randa" vede la città come abitata da rincoglioniti. Solo che il personaggio di Simonetta li manda affanculo, non è un intellettuale come Ennio che vede ribaltate e messe a dura prova tutte le sue appassionate teorizzazioni. Avrebbero dovuto incontrarsi.
(segue)
Giunto a Milano e lasciati da parte, per quanto possibile, i ricordi, Immigratorio sembra cambiare registro. Emerge l'intellettuale adulto, la scrittura si fa spedita e ragionata, meno sentimentale (in senso buono) e diaristica.
Fanno da contrappunto al disorientamento, dovuto allo sradicamento dai luoghi d'origine, una fisicità serena, fin dalle prime pagine, rivolta al se stesso ragazzo e alle ragazze/donne poi, e un'allegria discreta, sotterranea, che qui a Milano non è dato trovare di frequente. E' un'allegria che tradisce quell'aspetto serioso che hanno di regola gli intellettuali.
Come quando incontra un noto artista di Milano :
"… Era così contento che, nel salutare, gli baciò la mano, come da bambino gli avevano insegnato a fare coi preti."
Da Notturnisti,
"Sul rettilineo del Palmanova
…
Ed ecco, querce si schiantano.
Qui accoppano qualcuno!"
All'ASL:
"…
che fa l'alunna ansiosa, la figlia, la rimbambita
(che un po' lo è)."
Anche nell'amarezza:
"… Campa su di me, non finire giù di schiena, neh!"
Per quanto riguarda le donne trascrivo solo questi versi bellissimi:
"…
La valle, l'oscura valle profumata
solo alcune schiette donne l'offrirono.
E se lì, in fondo ai loro corpi amati, ci sia morte
non lo so.
Morte fu per me la loro assenza."
Sul tempo, passato e presente, storia e approfondimento, eredità da condividere oppure no, rimando a quanto scrive nell'oggi di questo blog. Dal libro questi due passaggi:
"…
Deperito ora lo shock del moderno, resisto senza la vostra antica Parola al mondo dell'Istante replicato in orride serie."
"...
Nell'oggi del sempre oggi, dei nuovamente ignari, dei vecchi-bimbi rimbambiti."
Non credo sia sbagliato mettere questo libro accanto allo strabordante " Viaggio nella presenza del tempo" (… ancora non mi so spiegare un titolo tanto macchinoso) di Giancarlo Majorino. Stilisticamente Abate è meno abile come slalomista, ma in Immigratorio mischia brani di prosa e poesie, italiano e dialetto, testi ragionati ed altri di puro trasporto ( come la breve poesia-gioiello dedicata alla madre). Le tematiche poi son quasi le stesse.
Si capisce che il libro deve aver avuto una lunga gestazione. Quasi un atto dovuto, a Salerno e all'amico karl Bis. Come forse è stato un atto dovuto l'altro libro di Abate che ho letto, "Donne seni petrosi", dovuto alle donne della sua vita e a quelle di fine anni 70 che scombinarono politico e personale.
Questi due libri, proprio perché scritti da un poeta-intellettuale attento a leggere nel presente, sembrano arrivare in ritardo. Arrivano cioè mentre sbarcano altri e diversi immigrati, e mentre il femminismo ha intrapreso altre vie. E' però ritardo che storicizza, tratta di avvenimenti ancora molto vicini a noi, e soprattutto lo fa con pagine di poesia.
Grazie
è un libro che conserverò con affetto.
mayoor
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