Partiamo da una citazione, o meglio,
dall’adattamento ai nostri scopi di una citazione. L’autore che voglio citare è
André Corboz, uno studioso di urbanistica, architettura e arte (di cui ho
tradotto un libro sul Canaletto) che, qui (nel saggio Dans l’entre-deux,
in AA.VV., Hommage à Raymond Tschumi, Losanna, L’Age d’Homme,
1990), parla dei problemi della ricerca e dell’interpretazione sia nelle
scienze cosiddette esatte sia in quelle (il suo campo) cosiddette umane: che
cosa sia ricercare il significato del fatto che, se mollo la penna, cade, che
cosa sia interpretare questa caduta; come che cosa sia ricercare il significato
di un dipinto del Trecento, interpretarlo. Forse penserete che la prendo alla
lontana, ma a me invece sembra di prenderla da vicino: un traduttore cerca i
significati di parole, frasi, periodi, interpreta testi, e la parola interprete
designa una categoria di traduttori. Sostituirò quindi a volte alle parole
“ricerca”, “interpretazione”, “ricercatore”, “interprete” di Corboz le parole “traduzione”
e “traduttore”.
Che cosa dice Corboz? Che esistono
“ricerche delegabili” e altre non delegabili; operazioni “codificate”, che si
eseguono ricorrendo a un metodo formalizzato (e qui amplierei il suo discorso
intendendo per metodo anche uno strumento - un martello, un cacciavite, un
vocabolario - e quindi chiamerei queste operazioni delle tecniche, e operazioni
del genere, scrive Corboz, “si possono imparare e trasmettere”, sono cioè
delegabili), come esistono operazioni “personalissime”, che “non possono essere
delegate perché” si svolgono in gran parte “nella testa del ricercatore”, del
traduttore.
Io
chiamerei da subito - ma più avanti lo farà anche Corboz - queste operazioni
non delegabili delle “attività”. In queste “il ricercatore”, il traduttore,
“interroga ogni elemento”, ogni parola, ogni frase ecc., “secondo la propria
natura”, del traduttore, “per integrarne l’apporto in un’argomentazione che
tende a generare una figura d’insieme detta sintesi”, la traduzione. E “un tale
modo di procedere non è delegabile. Il suo successo e la forza di persuasione
che emana sono interamente dovuti al ricercatore”, al traduttore, “stesso; è
lui che porta il senso. Un altro, davanti allo stesso campo”, allo stesso
testo, “non imboccherà necessariamente le stesse strade né giungerà alle stesse
conclusioni”. Insomma, dice Corboz, “invece del sacrosanto metodo” -
sacrosanto, ricordiamolo, nella pratica positivista della scienza, il cui
modello è costituito dalle scienze cosiddette esatte (metodo e pratica e modello
che risuonano, ad esempio, in un testo classico di Georges Mounin come Teoria
e storia della traduzione, Torino, Einaudi, 1965, dove si parla di una
“teoria scientifica della traduzione di cui ormai si sente il bisogno”), invece
del sacrosanto metodo, si chiede Corboz, “a contare non sarebbero innanzi tutto
riflessi judicieux” - capaci di giudizio, intelligenti - “qualcosa
di analogo al ‘mestiere’, a quella familiarità non concettualizzabile che si ha
con un’attività?”.
E
qui Corboz esibisce una delle sue espressioni sintetiche, incisive, che vorrei
chiedervi di tenere a mente: “Il metodo,” dice “d’accordo, ma in presa diretta
sui neuroni”. “Se per la ricerca delegabile basta addestrare degli individui,
l’altra obbliga a educare delle persone.” Addestrare/educare; individui - cioè,
qui, esseri umani considerati come parti di un insieme, quindi interscambiabili
- e persone, cioè esseri umani unici: sta qui tutta la differenza tra quelle
che ho chiamato “tecniche” e quelle che ho chiamato “attività”.
La
traduzione non è innanzitutto una tecnica, ma è innanzitutto un’attività. Cioè:
non implica soprattutto l’acquisizione di una competenza specifica, che una
volta acquisita è utilizzabile invariata nel tempo, come quando impariamo che
cosa dobbiamo digitare al computer per entrare in un programma. Non ci richiede
soprattutto di prolungare, di estendere alcune nostre facoltà o capacità
parziali tramite degli strumenti: nemmeno tramite lo strumento della competenza
linguistica, ad esempio, che prolunga una nostra facoltà come il martello
prolunga la forza del braccio. La traduzione è una di quelle attività (e per
fortuna ce ne sono ancora) che non ci chiedono di essere solo “individui”, ci
chiedono di essere “persone”: implica una totalità di competenze e facoltà -
dalla competenza linguistica, letteraria ecc. (che ci vogliono: non vorrei
avere dato l’impressione che si possa farne a meno) all’intelligenza, alla
sensibilità ecc. - una totalità che fa tutt’uno con quello che chiamiamo “modo
d’essere”. Da questo deriva tra l’altro che la traduzione perfetta non esiste,
e non perché gli uomini sono imperfetti, per la maggiore o minore bravura di
questo o quel traduttore, ma perché ogni traduzione è frutto di un rapporto in
cui almeno uno dei due attori, il traduttore, non può mai essere uguale a se
stesso: è vivo. La traduzione è un momento di vitalità dell’opera, esattamente
come la lettura, e infatti non è altro che una lettura, speciale solo perché
assume la stessa forma, scritta, dell’opera, invece che svolgersi nella mente o
a “parole alate” (traduzione da Omero).
La
differenza fra “tecniche” e “attività” di cui, con Corboz, ho parlato, è
analoga a quella tra “conoscenza teorica” e “conoscenza pratica” (o “teoria” e
“capacità”) argomentata (in Verità e etica, Milano, Il Saggiatore,
1982) da un filosofo contemporaneo, Hilary Putnam, che accenna a svilupparla,
anche qui come Corboz, in una direzione che mi sembra molto importante per i
traduttori e la traduzione. Sono stato contento, tra l’altro, di scoprire che
Putnam, pur non occupandosi qui di teoria della traduzione, ricorre proprio
alla traduzione come esempio per illustrare le sue idee. Dice: “Io posso
imparare a tradurre da una lingua in un’altra. Ma non c’è una teoria
(esplicita) che mi consenta di descrivere la capacità che ho acquisito. Può
darsi che il mio cervello una teoria ce l’abbia. […] Ma anche se il mio
cervello ha una ‘ipotesi analitica’ completa, formulata per intero in qualche
ipotetico ‘linguaggio del cervello’, io” - e Putnam mette in
corsivo questo “io”, la persona, che è qualcosa di diverso da una sua parte, il
cervello - “io non ce l’ho, e nemmeno oggi gli scienziati. Il dato
cruciale è che le capacità non sempre dipendono da teorie e la conoscenza,
persino la conoscenza verbale” - quella in gioco quando si traduce, aggiungo io
- “può essere incorporata in una capacità e non in una teoria”. E questo, mi
sembra, basta per il primo punto su cui volevo mettere l’accento: la
distinzione tra “attività” e “tecnica” e la traduzione come “attività”.
Ma
che implicazioni, che conseguenze ha un’impostazione del genere, pensare alla
traduzione e praticarla concependola in questi termini? Riprendiamo Putnam e
poi Corboz. Dice il primo: “È una caratteristica della conoscenza ‘scientifica’
(almeno se si prende la fisica come paradigma) il fatto che si usano strumenti
di misura che siamo in grado di comprendere. La teoria non si applica
semplicemente agli oggetti che vengono misurati, ma anche agli strumenti di
misura e alle loro interazioni con ciò che essi misurano. Viceversa, è una
caratteristica della conoscenza pratica il fatto che si debba usare se stessi
come strumenti di misura, e di queste interazioni non si ha
una teoria esplicita”. Nei nostri termini: è una caratteristica dell’attività
di traduzione che si debba usare se stessi come strumenti di misura, e
dell’interazione tra noi stessi e il testo da tradurre (e anche tra noi stessi
e le varie “traduzioni” che ci si presentano alla mente o che abbozziamo nelle
varie fasi del processo di lavoro), di questa interazione non esiste una teoria
esplicita.
Corboz
dice più o meno le stesse cose, ma va un po’ oltre: “La ricerca non delegabile
comporta quindi un rapporto personalizzato con l’oggetto. Quale che sia
l’attrezzatura interposta” - dalla competenza linguistica al dizionario dei
sinonimi - è “il ricercatore”, il traduttore, “che costruisce le trappole in
cui il reale”, il testo, “verrà a farsi prendere, ma” - e questo è il punto -
“i ricercatori”, i traduttori, “si trovano essi stessi nella trappola”. “Ne consegue”
prosegue Corboz “che quello che ora importa sapere è come il
ricercatore trova”, come il traduttore traduce o, meglio, dove trova la
traduzione. “Il percorso euristico”, il percorso della ricerca, “si ramifica
all’interno di uno spazio in cui le qualità personali - intelligenza,
perspicacia, ingegno, tenacia, capacità di giudizio - entrano in interazione
con la sua cultura”, la cultura del traduttore, di cui fanno parte le sue
competenze. “Il che significa tra l’altro”, e con questa ulteriore espressione
incisiva, da tenere a mente, chiudiamo con Corboz, questo significa che “il
ricercatore”, il traduttore, “deve vivere in buona intelligenza con il proprio
inconscio”.
Questi
discorsi ci introducono a un problema chiave, quello dell’interpretazione. La
traduzione è, come la lettura, un’interpretazione. E l’interpretazione è
un’attività che si svolge in due sensi, in due direzioni: dal soggetto
all’oggetto e dall’oggetto al soggetto. È un’attività circolare. (Il circolo
interpretativo è detto “circolo ermeneutico”, e chi lo desidera potrebbe
leggersi che cosa dicono al riguardo, fra gli altri, Heidegger, Gadamer e
Spitzer).
Perché
dall’oggetto al soggetto? Perché di fronte a un oggetto che ci parla (adesso
chiamiamolo testo) non abbiamo che due possibilità: o un’interpretazione ce
l’abbiamo o non ce l’abbiamo. Se non ce l’abbiamo, se non conosciamo il
significato di una parola, è il testo a dircelo: a indicare una nostra
mancanza, ignoranza, e così, già, in un certo senso, ci legge, ci interpreta.
Ma più importante e più interessante è forse quando un’interpretazione ce
l’abbiamo già.
Facciamo
degli esempi, così stringiamo il discorso intorno alla traduzione. A volte i
redattori delle case editrici incaricati di rivedere una traduzione (o gli
stessi traduttori, magari per autocensura) tendono a “normalizzare” un testo, a
eliminarne termini o costruzioni sintattiche che possano apparire arrischiati
per sostituirli con altri più comuni. Tendono ad avvicinare il testo alla
lingua standard. Un “delitto crudele” può diventare un “delitto efferato”,
un’espressione come “la diffusione della droga è stata resa possibile dalla
combutta tra potere politico e mafia” può diventare “la diffusione della droga
è stata resa possibile dall’alleanza o dalla complicità tra potere politico e
mafia”, oppure “ha visto in combutta potere politico e mafia”. Diamo per
scontato che la prima traduzione, quella non riveduta, sia corretta,
corrisponda a qualcosa di presente nel testo originale: la volontà, per
esempio, di evitare espressioni cui l’orecchio è tanto abituato da non
prestarci più molta attenzione, e/o la volontà di utilizzare termini abituali
in contesti insoliti - come “combutta” non preceduto da “in” - per creare nel
lettore un attimo di stupore, per aumentare il tasso di espressività del testo.
Perché allora, a volte, i redattori e gli stessi traduttori compiono
l’operazione opposta?
Una
ragione generale può essere il conformismo, una forza di attrazione sociale,
culturale, linguistica, psichica molto complessa, che spesso agisce a livello
del tutto inconscio. Ma a questa s’intreccia, mi sembra, una ragione più
specifica: i traduttori e soprattutto i redattori occupano un posto in una
gerarchia, sono controllati da e devono rendere conto ad altri del loro
operato. E una gerarchia tende sempre a innescare una sorta di opportunismo:
per evitare di essere criticati dall’istanza superiore si preferisce fornire
dei prodotti inattaccabili perché già sperimentati.
Un
altro esempio potrebbe essere questo: Franco Fortini ha osservato una volta (io
non saprei dire se ha ragione, ma è un’opinione autorevole e ve la passo) che
molti traduttori tendono a elevare, impreziosire, nobilitare il testo per, a
suo parere, contrastare, controbilanciare lo status “minore” di cui l’attività
di traduzione gode rispetto a quella di scrittura originale, “d’autore”.
Insomma, reagirebbero attraverso e dentro la scrittura a quella sindrome da
controfigura che un traduttore e poeta francese, Guillaume Colletet, ha
espresso in questi versi tradotti da Valerio Magrelli: “Son stufo di servire,
basta con l’imitare, / Le versioni sviliscono chi è in grado di inventare”.
Bene,
che cosa traducono, così, questi redattori e traduttori? Ciò che hanno davanti,
il testo, o ciò che hanno dietro? Traducono o sono tradotti? Adesso è forse più
concretamente chiaro che cosa possa significare, in negativo, “interazione tra
noi stessi e il testo da tradurre”, e perché, adattando Corboz, ho detto che i
traduttori si trovano essi stessi nella trappola in cui cercano di prendere il
testo. E sarà più chiaro anche perché bisogna che il traduttore viva “in buona
intelligenza con il proprio inconscio”. Quei due esempi dicono infatti una
cosa: che nella lingua ci siamo già, che di fronte a un testo da tradurre non
ci poniamo mai vuoti, vergini, ma pieni, “contaminati”. Che la lingua la usiamo
e ne siamo usati. E questo, naturalmente, vale anche per l’autore. Tradurre è
un processo nel quale possiamo scoprire come l’autore usi e sia usato dalla
lingua, ma anche come noi stessi usiamo e siamo usati dalla lingua. E per
questo, oltre a essere un’attività in cui conosciamo e cambiamo noi stessi in
generale, è un’attività che cambia continuamente il nostro modo di tradurre. Un
buon consiglio per traduttori potrebbe essere una famosa frase di Wittgenstein:
“Dì quello che vuoi, basta che ciò non t’impedisca di vedere come stanno le
cose; quando l’avrai visto, ci saranno cose che non dirai più”. Di fronte a
“head”, scrivi (meglio se a matita) “testa”, “capo”, “capoccione”, “zucca”,
finché non avrai capito che cosa il testo ti chiede, ma anche finché non avrai
capito che cosa tu tendi a scrivere e perché. Il processo dell’interpretazione
è circolare.
Cerchiamo
di esemplificare questo processo, questa interpretazione circolare, di vedere
come può incarnarsi questo rapporto che, adesso, possiamo dire che implichi
quattro attori: la lingua dell’autore, l’autore, la lingua del traduttore, il
traduttore. Ogni testo sceglie, elegge una o più “tranches” della lingua, uno o
più spaccati del mondo; sceglie, in un certo senso, di identificarsi con esso,
o con essi. È come se ritagliasse nell’universo della lingua - in senso lato,
ma anche in senso stretto - una zona e dicesse: io sto qui. Queneau,
negli Esercizi di stile tradotti in italiano da Eco, ne dà un
ottimo esempio: racconta la stessa situazione collocandola ogni volta in una
zona linguistica diversa.
È
molto importante: è ciò che si chiama stile, o tono, tonalità di un testo. E a
esso si affida, ed esso coincide con, uno dei suoi significati più importanti:
più sottili, sfuggenti, perché non riconoscibile in uno specifico ed esplicito
“messaggio”, chiamiamolo così, in quello che un testo esplicitamente dice, o in
specifiche parole; ma nello stesso tempo più forti, inevitabili, ineludibili,
perché è appunto il luogo in cui un testo mette il lettore, ed è quel luogo e
non un altro. Ho detto significato, ma sarebbe meglio dire senso. Nel
ritagliare una zona della lingua, infatti, l’autore investe dei significati -
quelli veicolati dal lessico, dalla sintassi ecc. della lingua - di un senso.
Possiamo dire (in questo contesto, in questa accezione): il significato è della
lingua, il senso dell’autore. A questo livello del testo, insomma, l’autore
parla facendo parlare la lingua. Estremizzando: è come se lui personalmente
decidesse di essere muto, e di parlare presentando un pezzo di lingua. Allora
quello che dice è: questo pezzo, non un altro. Parla facendo tacere sia se
stesso sia gli altri pezzi di lingua, quelli che non sceglie.
Tutto
ciò può forse diventare più chiaro guardando a un altro livello del testo,
questa volta più interno a esso (non coincidente con il testo nella sua
globalità), in cui questo rapporto autore/lingua, per il quale l’autore parla
facendo parlare la lingua, si attua: quello degli accenti, delle accentazioni,
delle sottolineature. In ogni testo l’autore sottolinea certe parole (non solo
parole, anche strutture sintattiche ecc., ma facciamo l’esempio delle parole)
invece di altre. (Ci sono vari modi per sottolinearle: la sintassi, in poesia
la rima o l’assonanza o l’allitterazione, gli accenti primari e secondari ecc.,
e notiamo che nelle diverse lingue sono già inclusi sistemi di accentazione
convenzionali, istituzionali, e allora l’accentazione “d’autore” si definisce
rispetto a questi). Bene, il significato delle parole è lo stesso che vengano
accentate o no. È il significato della lingua. Ma il loro senso deriva
dall’accento: è “d’autore”. “Sempre caro mi fu…” dà una poesia filosofica;
“caro sempre mi fu…” darebbe una poesia sentimentale (forse: anche qui ho
estremizzato per amore di chiarezza; però è effettivamente probabile che, se
Leopardi volle sottolineare, dandogli il primo posto, un avverbio che rimanda
alla dimensione temporale, invece che un aggettivo che rimanda alla dimensione
affettiva, una ragione del genere non gli fosse estranea).
Ho
sempre detto “scelta”, “l’autore sceglie”, ma, anche qui, non è esatto. Non in
ogni suo momento, tutt’altro, questo processo in cui l’autore parla facendo
parlare la lingua è cosciente, deliberato, volontario. Non solo è un processo
in cui, anche, la lingua parla attraverso l’autore: cioè, attraverso di lui
parlano le due grandi coordinate della lingua, la sua diacronia e la sua sincronia,
la sua temporalità e la comunità linguistica. Ma le stesse “scelte”
dell’autore, di stile o tono e di accentazione, possono essere riflessi
automatici, inconsci. Non dilunghiamoci. Quello che è importante dire, per noi,
è che il traduttore deve riconoscere i caratteri di questo processo nel testo
(che cosa l’autore accenta e che cosa fa scorrere, che pezzo di lingua ritaglia
e in rapporto a quali altri pezzi) e cercare di tradurli. Già, come se fosse
facile. Non è per niente facile. A certi livelli, anzi, è impossibile. Ma
bisogna tentare.
Vediamo
i due problemi separatamente, e brevemente. Tradurre le accentazioni di un
testo è relativamente più facile, meno problematico. A condizione, a mio
parere, di essere “infedeli”, cioè di non prendere in considerazione il singolo
elemento, la singola parola o altro, ma tutto il sistema di accentazioni di un
testo (il che tuttavia, vorrei precisare, non è un invito a passar sopra alle
singole parole, tutt’altro: un testo è fatto di parole. Ed è sempre necessario
che un traduttore sia, fino a dove è possibile, fedele alla lettera, che abbia
questa umiltà, altrimenti rischia di tradurre altro, di tradurre se stesso,
come vedremo). Ma insomma, attraversate le parole, un testo può essere visto,
al livello delle sue accentazioni, come un sistema di equilibri e squilibri, di
vuoti e pieni, di rapporti tra pesi ecc. Ed è questo sistema che va tradotto
con un sistema analogo. Adesso parlo di accentazioni in senso lato: sono
accentazioni, mettiamo, anche gli arcaismi o preziosismi, o i gergalismi, o le
ripetizioni in funzione espressiva ecc. Un testo, ad esempio, che esibisca un
carattere letterario, prezioso, affidandolo a certi termini, può essere
tradotto (se non è possibile, ripeto, essere fedeli alla lettera) affidando
quel carattere ad altri termini, o alla sintassi. Quello che conta è che a
essere tradotto sia il messaggio “sono un testo letterario, prezioso”, e il
tasso di letterarietà, di preziosità.
Ma
passiamo al secondo problema: quello dello stile o tono di un’opera (o di un
brano). Qui la faccenda è più complessa. Abbozziamo una distinzione (di comodo,
ce ne sono mille altre). Un conto è trovarsi di fronte a uno stile, a un tono
che fanno riferimento, per dir così, a esperienze umane più o meno universali:
un testo allegro o cupo, ispirato o prosaico ecc. Un altro è trovarsi di fronte
a un racconto che, ad esempio, si svolge in un pub inglese. In questo caso va
tradotto il senso di trovarsi in un pub inglese. Solo che per un lettore
inglese questo senso è una cosa (può avere delle connotazioni, tra le altre, di
tradizione nazionale, o di “popolare”), per un lettore italiano è un’altra: ha,
ad esempio, un’inevitabile connotazione di esotismo. E qui tocchiamo un punto
che vorrei sviluppare più avanti, come ultimo “tema”.
Riprendiamo,
per il momento, il processo di cui abbiamo parlato, e di cui abbiamo tentato
qualche esempio: quello in cui l’autore parla facendo parlare la lingua e la
lingua parla attraverso l’autore. È importante osservare che un processo analogo
viene compiuto e/o vissuto (perché anche in lui è conscio e inconscio ecc.)
anche dal traduttore. Anche a questo livello il traduttore, nel momento stesso
in cui interpreta il testo, ha l’occasione (e farebbe bene a coglierla) di
essere interpretato dal testo.
Facciamo
un esempio: un racconto d’amore. L’amore è forse uno dei sentimenti o delle
esperienze o non so, in cui siamo più ammaestrati (come gli animali di un
circo): canzoni, film, pubblicità ecc. ci dicono cos’è, com’è, come si esprime,
come ci si sente; tutto (e questo non vale solo per l’amore, vale un po’ per
ogni cosa). Ora, meno siamo consapevoli di questo ammaestramento, di queste
“interpretazioni che abbiamo già”, più è inevitabile che per tradurre un
racconto d’amore attingiamo al repertorio di toni, al frasario, al lessico con
i quali per noi l’amore s’identifica. Ma può succedere che, se stiamo attenti,
ci accorgiamo che il racconto oppone una sorda resistenza alla veste che
tendiamo a dargli. Che dica: “Sono altro”. A questo punto può avviarsi un
processo di ricerca doppio: di ricerca di e in noi stessi, e di ricerca di
quest’altro. Possiamo chiederci: se il “nostro amore” non esprime quell’amore
lì, quale amore esprime? (e magari scopriamo che esprime l’amore delle
telenovelas, che il suo tono, frasario, lessico ecc. vengono da lì). E possiamo
chiederci: se quell’amore lì non si fa esprimere dal nostro amore, che amore è?
Così, il testo ci ha interpretati, ci ha mostrato l’origine, la matrice della
nostra immagine dell’amore (del mondo), i suoi confini, e ci ha spinti a
esplorare oltre questi confini. (Non posso resistere, a questo punto, alla
tentazione di citare una bellissima frase di una breve e acutissima opera di
sant’Agostino, il De magistro: “Quando si pronunciano parole,”
scrive Agostino “o noi sappiamo che cosa significhino, o non lo sappiamo: se lo
sappiamo, ricordiamo e non impariamo, se invece non lo sappiamo, neppure
ricordiamo, ma, forse, siamo invitati alla ricerca”.)
Ma
passiamo all’ultimo punto, cui abbiamo accennato con l’esempio del racconto
ambientato in un pub inglese e del problema che pone al traduttore: il problema
della distanza culturale. Nel tempo, nello spazio, o in tutti e due. Anche
ammettendo (per assurdo) che la traduzione italiana di un testo inglese contemporaneo,
o di un testo inglese di 50, 100, 400 anni fa, rispecchi esattamente
l’originale in tutto, resta una differenza: la traduzione è un testo italiano
scritto oggi, l’originale un testo inglese, e magari, anche, scritto 50, 100,
400 anni fa. Fatta questa scoperta, cerchiamo di vedere che cosa significhi.
Prima
di tutto significa che il traduttore si trova a dovere veicolare o non
veicolare un significato che nel testo non c’è; e a dovere per questo, lui e
nessun altro, compiere scelte, assumersi responsabilità, svolgere una funzione
culturale in senso generale: intellettuale, etica, persino politica. Come la
traduzione svolge una funzione culturale in senso lato che il testo originale
non svolge. Il significato che nel testo originale non c’è è appunto la
distanza culturale. Che vuol dire varie cose. Un testo inglese (o francese, o
tedesco) è vicino ai suoi lettori innanzitutto nella lingua, nella struttura
della lingua, e ogni lingua affronta la realtà, l’esperienza, in un modo
diverso, più o meno diverso, da un’altra. È ciò che il linguista Benvenuto
Terracini, autore di Il problema della traduzione, Milano, Serra e
Riva 1983, chiama “spirito della lingua”, e cui si riferisce un altro
linguista, Roman Jacobson (autore di preziose pagine sulla traduzione, contenute
nei suoi Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1992),
dicendo che “il sistema grammaticale di una lingua determina gli aspetti di
ogni esperienza che devono essere necessariamente espressi nella lingua in
questione”, e per questo, aggiunge, le lingue “differiscono essenzialmente per
ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere”. Ma poi, ogni
testo nato all’interno di una data comunità linguistica è pieno zeppo a tutti i
livelli di riferimenti interni a quella comunità: abitudini di vita, luoghi,
frasi fatte che suonano familiari ai lettori appartenenti a quella comunità, e
invece estranee, diverse, “altre” a lettori appartenenti ad altre comunità.
Il
problema, o il compito, per il traduttore, sta proprio qui: che cosa deve fare,
azzerare questa diversità o indicarla? Il problema si pone anche per i testi
distanti nel tempo. È vero che qui la distanza, se continua a non essere dentro
il testo, se continua a essere un significato in più, che nell’originale non
c’è, è un significato che esiste anche per i membri della stessa comunità
linguistica del testo. Esiste per noi quando leggiamo Dante, o anche soltanto
Svevo o D’Annunzio, con tutti i loro “fo” per dire “faccio”. Ma questo complica
il problema per il traduttore, non ne muta i termini: che cosa devo fare,
traducendo Shakespeare, rendere sensibile al lettore italiano il fatto che
Shakespeare è inglese, quindi che gli inglesi non sono identici agli italiani,
quindi che esistono modi linguistici di vedere il mondo, abitudini, luoghi ecc.
diversi dai nostri, quindi che il mondo non si esaurisce e non si identifica
nel cortile di casa nostra? Oppure devo rendere sensibile al lettore italiano
il fatto che Shakespeare è un uomo, come noi? Devo fare trasparire il fatto che
scriveva 400 anni fa, in una situazione storica, ambientale, sociale, direi
addirittura antropologica diversa dalla nostra, devo cioè comunicare anche
questa diversità, o devo invece azzerare questa diversità in nome ad esempio
del carattere “eterno” di certi valori (estetici, di pensiero ecc.)?
Ma
che esistano valori o contenuti di carattere eterno e universale a prescindere
dalle forme storiche e specifiche che assumono si può discutere. E poi, si può
ritenere un valore “eterno”, “universale” proprio anche la diversità, il fatto
e la coscienza che esista qualcosa che è “altro” da noi. È già abbastanza
chiaro a questo punto, mi sembra, che cosa è in gioco a tale livello nell’atto
di tradurre. Qualcosa di importanza cruciale. Cruciale. E, purtroppo, questa
crucialità, che rimanda a croce, a calvario, noi l’abbiamo sotto gli occhi: il
tema della uguaglianza e della diversità tra gli uomini viene in questo momento
“dibattuto” in molte parti del mondo, nella ex Jugoslavia ad esempio, tra
assassini e morti.
Insomma,
il problema è grosso, perché, tornando alla traduzione, la lingua è ciò che,
contemporaneamente, unisce gli uomini, permette loro di comunicare, di mettere
in comune, e li divide, impedisce a un italiano di capire un cinese. Ma bisogna
anche riconoscere che impostarlo in termini di alternativa assoluta,
uguaglianza versus differenza, come forse ho fatto per comodità, significa
impostarlo male: non si può comunicare se non si è diversi. La mia mano destra
può comunicare con la sinistra, con la mia testa, con voi, non con se stessa.
Il punto che si tocca, qui, è quello della assoluta intraducibilità e, nello
stesso tempo, girando lo sguardo, vedendo la cosa da un altro angolo, della
massima traducibilità. Della assoluta intraducibilità se si pensa a una traduzione
come a uno specchio, della massima traducibilità se si pensa alla traduzione
come alla comunicazione di qualcosa che è diverso, che è “altro” (più un testo
è diverso, è “altro”, più è traducibile: un testo italiano in Italia è di
traducibilità zero).
Notiamo
un’ultima cosa, a questo livello generale: che se questo problema impegna il
traduttore in scelte, azioni ecc. che hanno un significato culturale in senso
lato, a sua volta la cultura in senso lato, cioè certi caratteri o tendenze di
fondo di una società, si esprime, nei suoi tentativi di risolverlo, spingendolo
in una direzione più che in un’altra. Un esempio fra i tanti è la questione dei
nomi di persona. Soltanto fino a cinquant’anni fa (e se vi è capitato di
leggere vecchie traduzioni l’avrete notato) si tendevano a tradurre non solo i
nomi dei personaggi di un romanzo, ma persino quelli degli autori: Leone
Tolstoj, Giacomo Joyce ecc. Adesso nessuno lo farebbe più. Perché? Certamente,
tra altri motivi, perché è mutato il rapporto fra dimensione nazionale e
dimensione internazionale, perché fino a cinquant’anni fa eravamo molto più
italiani e molto meno cittadini del mondo di adesso. Ma anche perché è mutata
la comunità letteraria: fino a cinquant’anni fa era abbastanza ristretta da
essere in qualche modo sovranazionale. Quindi, vinceva la tendenza a non
definire la nazionalità di un nome, ma a renderlo “naturale”, a renderlo un
nome e basta, il che significava tradurlo nella lingua “naturale” dei lettori.
Adesso James non ci è meno naturale di Giacomo.
Per
portare un esempio di portata ben più ampia: Benvenuto Terracini (in Conflitti
di lingue e di cultura, Venezia, Pozza, 1957) distingue, nella tradizione
italiana fra l’Ottocento e la metà del Novecento, due grandi tipi di
traduzione: la traduzione “idealistica - di marca romantica - la quale guarda
soltanto alla forma interna dell’originale che essa cerca di trasporre senza
residui o ombre in stampi familiari al proprio spirito ed a quello del
lettore”, e la traduzione “di carattere eminentemente critico e filologico”.
Franco Fortini (nel saggio Traduzione e rifacimento, in Saggi
italiani, vol. 1, Milano, Garzanti, 1987) riprende questa distinzione
osservando che entrambi i tipi di traduzione vengono “da una matrice
romantica”, dai suoi due poli: “Il momento affermativo delle nazionalità e dei
linguaggi-cultura delle patrie nuove”, l’affermarsi dello stato-nazione
insomma, “esigeva la trasposizione del diverso nel noto e familiare (e
tradizionale), quindi un’appropriazione; mentre il momento storicistico”
(proprio allo storicismo romantico si deve quel concetto di nazione, quale
sintesi di un intero popolo foggiato dalla sua propria tradizione) “mentre il
momento storicistico, fondandosi in indagine e in filologia, esigeva la interpretazione del
diverso in quanto tale”. E questa contraddizione, concludeva Fortini, “che
abbiamo ereditato dall’età romantica”, è tuttora viva.
Detto
tutto questo, è chiaro che non è possibile né avrebbe senso rispondere alla
domanda di prima: che cosa deve fare un traduttore, azzerare o indicare la
distanza che divide nel tempo e/o nello spazio il testo originale dai lettori
della sua traduzione? Esprimere o cancellare questo significato in più, che nel
testo non c’è? Una risposta univoca non esiste. Quello che mi sembra importante
è tenere presente la portata del problema. E la portata di tutti i problemi che
l’attività di tradurre, a mio parere, comporta, la rete di problemi in cui la
traduzione è presa. Adesso, prendiamo in mano un testo.
10 commenti:
ciao massimo, grazie per la condivisione. Quello che sarebbe stato interessante per me traduttrice di Heaney è vedere anche le versioni su cui si accapigliarono i tuoi studenti. le hai conservate? sarei curiosa di leggerle e sapere su cosa sono sorti i dilemmi del traduttore interprete.
ciao, erm
se ti interessa vedere il mio libro senza testo a fronte http://erodiade.blogspot.com/2012/02/la-livella-bolla-daria-spirit-level.html
Cara Erminia,
le versioni degli studenti le ho conservate, sì, ma sono scritte a mano... Anche a me è venuta voglia, rivedendole, di digitarle al computer e rifletterci un po' su. Ma adesso non ne ho il tempo. E quanto a passarle ad altri, o metterle addirittura a disposizione online, be', ho qualche scrupolo: sono loro. E non posso neanche chiedere il permesso: di quegli studenti non ho che i nomi in testa al foglio. Comunque, la poesia era "The peninsula". Ma su che cosa fosse scoppiata la discussione, che si fece accesa, con un alzarsi dai banchi, apostrofarsi, gesticolare (non in modo antipatico, però), proprio non lo ricordo più. Il tuo libro m'interessa eccome, e ti ringrazio per il link. Confesso che è tanto tempo che non riprendo in mano Heaney (e non l'ho mai letto tradotto),ma quando scoprii la sua esistenza, durante un viaggio in bicicletta in Irlanda, ne rimasi letteralmente innamorato. Ciao, Massimo
Fortunatissimi questi studenti. Grande lezione. Complimenti Emy
Ciao Massimo, quello che descrivi essere stato l'atteggiamento degli studenti ricorda tanto l'attitudine dei traduttori l'uno verso l'altro a chi ha l'ultima parola su un dato significato o forma resa.Grazie dello scambio, Cari saluti, erm
Grazie, Emy (anche se mi sembri un po’ esagerata…). Ciao, Massimo
Grazie a Massimo per questo contributo, che è interessante da moltissimi punti di vista e in particolare per il fatto, da te notato, che le questioni che ancora molti si pongono oggi sono le stesse di venti anni fa. Ma si potrebbe dire anche di 40 o 100 o più anni fa. Si seguita a confondere, in molti casi, la storia della traduzione, la teoria della traduzione e la pratica della traduzione, che sono cose ben distinte e non necessariamente le prime due indispensabili all'ultima. In genere chi dice l'opposto ha poi poca pratica di traduzione.
Non c'è dubbio che, essendo la traduzione letteraria profondamente collegata alla visione del mondo dell'epoca che la produce, (come la sua letteratura) è soggetta, non diversamente dalla produzione letteraria e artistica di quell'epoca, agli influssi e alle idee che ne scaturiscono, incluse le scelte delle opere da tradurre. E di questo si occupa la storia della traduzione.
Per il resto, senza voler ritornare su cose già dette e motivate in altro post, al traduttore che si trova di fronte a un testo, le teorie a poco servono da un punto di vista pratico.
... sì, è davvero bella e utile la tua lezione (colpisce anche il fatto che tu l'abbia scritta). grazie di averla condivisa. ciao
marcella
Cara Francesca, d’accordo (come d’altronde risulta dal mio contributo): storia e teoria della traduzione non servono a tradurre meglio. Ma non fanno neanche tradurre peggio. Non sono d’accordo invece che occuparsi della “visione del mondo dell’epoca” che produce la traduzione, come di quella che produce il testo da tradurre, sia un’esclusiva della storia della traduzione. A mio parere è un compito nostro, di noi traduttori. Altrimenti si rischia di tradurre, che so?, Goethe in postmoderno. Per questo sono convinto che a tradurre meglio serva, oltre a quanto è stato già detto (conoscenza della lingua, della cultura dell’autore ecc. ecc.), tutto ciò che aiuta e abitua a diffidare di quanto sembra “naturale” (lì s’annida la “visione del mondo dell’epoca” in cui viviamo): per esempio la critica letteraria e anche la critica d’arte (che abituano all’attenzione ai dettagli, alle sfumature), e anche la cosiddetta Kulturkritik (Adorno, per esempio, o Karl Kraus). A mio parere la seconda principale causa delle cattive traduzioni è l’eccessiva sicurezza di sé del traduttore (la prima, non c’è dubbio, è il suo status professionale: precarietà, basse tariffe ecc.). Un caro saluto e grazie a te,
Massimo
Cara Marcella, grazie. Quanto ad averla scritta, a parte il fatto che non avrei potuto citare a memoria questo e quello, non sono abituato a parlare in pubblico, e quando devo farlo scrivo sempre tutto. Ciao,
Massimo
Caro Massimo, grazie della risposta. Certo, la conoscenza delle teorie è a prescindere. Intendevo che quando si traduce non ha senso sostenere che il traduttore si metta lì a pensare alla teoria e a quello che la teoria suggerirebbe di fare. Un traduttore - si spera - è un/a letterato/a e dunque è ovvio che non sarà digiuno di quanto si scrive su quel che fa.
In quanto alla visione del mondo, ciò che intendevo è che la lingua, lo stile, il sapore di una traduzione, risentono per forza di cose della cultura in cui è immerso il traduttore. Sarebbero anacronistiche oggi le traduzioni di Monti e Pindemonte ad esempio. Anche se sono ancora le uniche leggibili. Anacronistiche non per la bellezza, perché le traduzioni moderne sono squallide e in prosa, ma perché lo stile è quello dell'epoca. Chi userebbe oggi quell'italiano? Dunque ecco che, traducendo gli antichi, lo stile sarà alto se tale è nell'originale, ma più vicino a noi. Certo non modernista!
Hai poi ragione sulla seconda causa delle cattive traduzioni. Io aggiungerei anche la prosopopea di molti traduttorucoli che hanno un inspiegabile amplissimo spazio presso i grandi editori. Ma la colpa non è loro, è degli editori che preferiscono degli imbecilli (mi si passi il termine) perché facilmente manovrabili e di bocca buona.
Per la critica d'arte, figurati, mi inviti a nozze, dato che la mia formazione è quella di una storica dell'arte e la mia prima traduzione importante è stata quella della "Grammatica storica delle arti figurative" di Alois Riegl, autore su cui mi sono laureata molti decenni fa. Ho imparato da Riegl, dalla sua teoria sul linguaggio artistico e dalla Scuola di Vienna più di quanto abbia imparato da tanti trattati sulla traduzione.
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