Maddalena
Capalbi Nessuno sa quando il lupo sbrana La Vita Felice, Milano, 2012
Questo
libro di Maddalena Capalbi mi fa venire in mente alcune considerazioni in
ordine ai mutamenti del «parlato» e del «personale» del tardo Novecento.
Questo della Capalbi è un «parlato» e un «personale» sciolto, liquido,
snodabile, immediato per un «contenuto», o meglio, per un «contenitore» misto
tra diario, occasione, storie periferiche e accadimenti vari ma sempre
nell’ambito dei legami parentali e affettivi. È una poesia legata al mondo
delle esperienze primarie; è il suo modo di restare attaccata al «reale».
Capalbi
prende atto che quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad
uno stile mitologicamente sostenuto, non ha lasciato dopo il Novecento traccia
significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento
è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e
conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia
delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia. Adesso,
è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per
tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata
e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano,
Govoni, Moretti, Vallini, Corazzini) che hanno scoperto la prosa, il personale,
l’inflessione egolalica, la natura metaforica del discorso poetico inteso come
ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi
chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un
uso laico piccolo borghese. Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda
metà del secolo scorso, e precisamente ai decenni che hanno visto l’esaurimento
dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno
territorio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento
il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio
incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con
apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai incongruo: il discorso poetico
del secondo Novecento concede comodi divani agli esiti epigonici, c’è spazio
per chi vuole accomodarsi, c’è un atrio per i ricevimenti, c’è un salotto per
l’intrattenimento, c’è un corridoio lastricato di sperimentalismo «privato» e
di oggettistiche «urbane», di periferie «urbane», di ulcerazioni private,
privatissime; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi,
si scrive come se si fosse tutti davanti ad una telecamera che spii la nostra
privatissima vicenda privata. Ecco la ragione per cui molti libri di poesia (e
di narrativa) ci mettono davanti il piatto di una quotidianità da vetrina,
imbalsamata, artefatta, finta, posticcia fatta apposta per l’occhio scrutatore
della telecamera. Ecco la ragione di molta poesia turistica, che adotta a
proprio modello la guida turistica Michelin.
Nella
poesia della Capalbi c’è tutto l’universo visto dal punto di vista del piccolo
mondo familistico: «mia madre appena entro in casa guarda / il vestito
sgualcito che riordino / e mi specchio…»; c’è «lo zio ricco pieno di sé / ha in
mano le chiavi della macchina…»; ci sono le cugine: «A pasqua grossi fiocchi
colorati / tra i capelli di noi cugine…». Insomma c’è lo svolgimento di alcuni
fotogrammi arrestati nel tempo come in una fotografia dove lo sguardo
dell’autrice carpisce momenti isolati di una umanità sospesa tra
dis-autenticità e precarietà in un’epoca di transizione e di introspezione.
Il
cappellino rosa
Raggiungiamo
il bar di Maria
lasciando
alle spalle la casa
littoria,
era il 1954.
L’euforia
di indossare il vestito
di tulle e
il cappellino rosa,
tutto al
rallentatore nel ricordo
di una
giornata pulita.
Le gambe da
guardare
Mia madre
mi ha sempre detto
che gli
uomini valgono poco
per
difendermi
ho anch’io
cercato il piacere proibito
e ho
mostrato le gambe
sperando
che qualcuno le guardasse.
È sempre
stata un’ossessione
liberarmi
di mia madre
e delle
gambe che vogliono
gli uomini
mentre cadono
dal cielo
dove vorrei
essere
anch’io.
Il lupo
sbrana
Mia madre
non vuole
l’immagine
allo specchio
ed io non
ho mai dato resto
al conto
della bellezza.
La gola è
secca
e non
confessa le colpe,
l’unica
vanità permessa
oggi
è guardarla
ma nessuno
sa
quando il
lupo sbrana.
Le mani
grasse
Vivo prima
di dare fuoco
ai panni
che indosso,
odio quando
lui mi guarda,
la casa è
senza pareti
e nel
grande vuoto hanno messo
il letto
per me,
gioca a
poker, soddisfatto
delle sue
mani grasse,
non può
afferrare né raggiungere
vorrebbe
solo stupire.
A mia madre
non piace perdere
e lo sfida
con i gesti,
è molto
autoritario.
È una
favola l’amore
ce la
raccontiamo per stare bene,
mio padre
ne ha una
piange, si
passa le mani
tra i
capelli di brillantina
e guarda il
suo amante,
ragazzo che
si ostina a difendere,
unico!
In tre sul
motorino rosso
verso la
salsedine di un mare calmo
il mare di
Foceverde,
ci
stringiamo –
di chi
sono? – mi chiedo
di quale
paesaggio?
Due padri
Non mi
piace avere due padri,
tu mamma
inveisci sempre
verso
quello
che fa i
versi con la bocca,
che bacia i
santini di gesù,
poi sbatte
la porta ed esce
e io prego
per lui che torni
e che mi
faccia un massaggio
al cuore
che si
sgretola
come la
pietra al sole.
Capalbi prende atto che quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto, non ha lasciato dopo il Novecento traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia. Adesso, è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini, Corazzini) che hanno scoperto la prosa, il personale, l’inflessione egolalica, la natura metaforica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico piccolo borghese. Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente ai decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno territorio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai incongruo: il discorso poetico del secondo Novecento concede comodi divani agli esiti epigonici, c’è spazio per chi vuole accomodarsi, c’è un atrio per i ricevimenti, c’è un salotto per l’intrattenimento, c’è un corridoio lastricato di sperimentalismo «privato» e di oggettistiche «urbane», di periferie «urbane», di ulcerazioni private, privatissime; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi, si scrive come se si fosse tutti davanti ad una telecamera che spii la nostra privatissima vicenda privata. Ecco la ragione per cui molti libri di poesia (e di narrativa) ci mettono davanti il piatto di una quotidianità da vetrina, imbalsamata, artefatta, finta, posticcia fatta apposta per l’occhio scrutatore della telecamera. Ecco la ragione di molta poesia turistica, che adotta a proprio modello la guida turistica Michelin.
1 commento:
Certo ci si impiega un po' per capire questa esigenza di realtà da descrivere senza mai uscire per un attimo dal seminato. Ma nell'ultima "Due padri" c'è tutto quello che ci si può aspettare da poesie come queste. Sentimenti senza sconti, vissuti e voluti, anche qui l'io che cerca un noi da afferrare , da conquistare , da amare . Belle, molto belle. Grazie Emy
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