INTERVISTA AD UN MORTO AMMAZZATO
Il
comitato di redazione m’ha affidato un incarico strano
correre,
filosofo in bicicletta, lungo le piste ciclabili di Milano
nella
speranza di sottrarre all’anonimato
l’intervista
ad un morto ammazzato.
Cercando
il cadavere d’un bandito,
la morte
dell’uomo comune non è fatto gradito,
mi
rifugiai al fresco d’un deposito mortuario,
interrogandone
ogni misero affittuario,
e mi
imbattei nel disdicevole pallore
«Perché
sei morto ammazzato»
chiesi
al colpevole dell’antiestetico reato,
«non sei
riuscito a farla franca
dopo la
tua rapina in banca,
finendo
vittima d’una revolverata
esplosa
dalla guardia giurata?».
«Più che
l’effetto d’una ferita»
narrò la
salma risentita,
«fu la
coscienza d’aver subito furto
che mi
causò morte da infarto,
essendo
vittima dello spavento
del
rialzo dei tassi al 30%!»
Chi,
abituato ai miei versi, attendeva una storia indigesta
troverà,
in conclusione, una morale anticapitalista:
l’intervista
a un morto ammazzato, a volte, chiarisce tutto
sulla
difficoltà di distinguere tra vera vittima e vero farabutto.
SOLO LA MORTE POTRÀ FAR TACERE IL MIO
CANTO
Solo la
morte potrà far tacere il mio canto o una reiterata disoccupazione,
un
crollo definitivo della borsa di Milano, l’inizio o la fine di un amore,
un mutuo
e un affitto da versare.
Solo la
morte potrà far tacere il mio canto, o due anni in cassa integrazione,
un immutabile
destino ergastolano, l’incedere aggressivo di un tumore,
l’istinto
a non cercar di non crollare.
Solo la
morte potrà far tacere il mio canto o fantasie di beatificazione,
i moniti
di un critico nostrano, i cicli d’un disturbo dell’umore,
l’idea
di non dovermi mai fermare.
La morte
farà tacere il mio canto insieme ad un miliardo d’altre cose,
non sono
uomo da soccombere al millanto di scrivere in funzione d’altrui chiose,
né mai
sarò costretto a vender all’incanto il mio diritto a non cantare in overdose.
FERMIAMO TUTTO!
Fermiamo
tutto, vogliamo scendere dal treno
che
arranca, fermata dopo fermata, arresto dopo arresto,
i binari
non arrivano mai ad essere tangenti, alloggiati, senza comodità, sul carrozzone
di un
ente statale, di un’azienda multinazionale, delle sedie di una riunione
condominiale,
sul
carrozzone di coda è meglio, dicono, nel caso di incidente avremo la fortuna
incontrovertibile
di defungere di morte cerebrale.
Fermiamo
tutto, vogliamo scendere dall’ottovolante,
che
danza, e balla, e gira su se stesso, mettendoci a testa sotto, e a culo in
fuori,
lontani
dal vincolo del riflusso delle liberalizzazioni, libertà di uscire dal mercato
del lavoro,
rifiutare
corone d’alloro, ruttare a un concistoro,
contestando
IVA, IMU, IRPEF, ILOR, TAV
Tavor e
Serenase, assunti a urgente necessità a ogni smania di steccar fuori dal coro.
Fermiamo
tutto, basta, stop,
ce lo
chiede l’Unione Europea dagli angoli scuri d’un porno-shop,
ce lo
chiedono milioni di barboni dalla società americana
lieti di
accompagnarsi alle migliaia di nuovi soci della Caritas ambrosiana,
ce lo
chiedono i docenti d’economia, i maestri di finanza,
disponibili
a tradurre la disperazione della gente in ordinanza.
con l’obiettivo,
finalmente, di delocalizzare dall’area ungherese
i centri
di una grande industria, installandoli a Termini Imerese.
TOMBA D’IGNOTO
Cadavere
n.2,
l’ombra
dell’onda riflessa nella mia retina destra,
mani
serrate ad afferrar sabbie mediterranee
indossate
sotto bermuda rossi da surf.
Cadavere
n. 7,
tentativi
di urla smorzati alla bocca dello stomaco
cartine
da hashish di Marrakech nelle mie tasche,
scarsi,
i dirham, seminati tra borsello e calzoni,
mi
condussero in bocca all’abisso.
Cadavere
n. 12,
«Eloì, Eloì,
lemà sabactàni»,
non
ricordo chi l’urlava a chi
non
essendo scritto nel Corano:
anch’io
sono morto invocandolo invano.
Cadavere
n. 18,
ritirata
sulle strade tra le dune di Misurata,
in
slalom assetato tra missili amici e nemici,
e morire
d’acqua.
Cadavere
n. 20,
benché i
nomadi, come me, ondeggino
sulle
navi del deserto, fluidità detonate,
mai s’abitueranno
ad annegare.
Ogni
tomba d’ignoto migrante
sussurra
che è duro abbracciare
una
morte che viene dal mare.
BALLATA
DEGLI INESISTENTI
Potrei
tentare di narrarvi al suono della mia tastiera
come
Baasima morì di lebbra senza mai raggiunger la frontiera,
o come
l'armeno Méroujan sotto uno sventolio di mezzelune
sentì
svanire l'aria dai suoi occhi buttati via in una fossa comune;
Charlee,
che travasata a Brisbane in cerca di un mondo migliore,
concluse
il viaggio dentro le fauci di un alligatore,
o
Aurélio, chiamato Bruna che dopo otto mesi d'ospedale
morì di aidiesse
contratto a battere su una tangenziale.
Nessuno
si ricorderà di Yehoudith, delle sue labbra rosse carminio,
finite a
bere veleni tossici in un campo di sterminio,
o di
Eerikki, dalla barba rossa, che, sconfitto dalla smania di navigare,
dorme,
raschiato dalle orche, sui fondi d'un qualche mare;
la testa
di Sandrine, duchessa di Borgogna, udì rumor di festa
cadendo
dalla lama d'una ghigliottina in una cesta,
e
Daisuke, moderno samurai, del motore d'un aereo contava i giri
trasumanando
un gesto da kamikaze in harakiri.
Potrei
starvi a raccontare nell'afa d'una notte d'estate
come
Iris ed Anthia, bimbe spartane dacché deformi furono abbandonate,
o come
Deendayal schiattò di stenti imputabile dell'unico reato
di
vivere una vita da intoccabile senza mai essersi ribellato;
Ituha,
ragazza indiana, che, minacciata da un coltello,
finì a
danzare con Manitou nelle anticamere di un bordello,
e Luther,
nato nel Lancashire, che, liberato dal mestiere d'accattone,
fu messo
a morire da sua maestà britannica nelle miniere di carbone.
Chi si
ricorderà di Itzayana, e della sua famiglia massacrata
in un
villaggio ai margini del Messico dall'esercito di Carranza in ritirata,
e chi di
Idris, africano ribelle, tramortito dallo shock e dalle ustioni
mentre,
indomito al dominio coloniale, cercava di rubare un camion di munizioni;
Shahdi,
volò alta nel cielo sulle aste della verde rivoluzione,
atterrando
a Teheran, le ali dilaniate da un colpo di cannone,
e
Tikhomir, muratore ceceno, che rovinò tra i volti indifferenti
a terra
dal tetto del Mausoleo di Lenin, senza commenti.
Questi
miei oggetti di racconto
fratti a
frammenti di inesistenza
trasmettano
suoni distanti
di
resistenza.
* Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; si è laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra le sue raccolte di versi: Underground (A&B, 2007, 8877281251), Riserva Indiana (A&B, 2007, 8877281448), Versi Introversi (Limina mentis, 2008, 9788895881003), Androgini (Limina mentis, 2008, 9788895881027), Mostri (Limina mentis, 2009, 9788895881126), Lame da rasoi (Joker, 2008, 9788875361914), Galata morente (Limina mentis, 2010, 9788895881225), Carmina non dant damen (Limina mentis, 2012, 9788895881638); ha curato le antologie poetiche Retroguardie (Limina mentis, 2009, 9788895881065), Demokratika (Limina mentis, 2010, 9788895881195), Tutti tranne te! (Limina mentis, 2010, 9788895881201), Frammenti ossei (Limina mentis, 2011, 9788895881362) e Labyrinthi [I] (Limina mentis, 2012, 9788895881669); . È direttore culturale della Limina mentis Editore; è direttore de L’arrivista - Quaderni democratici. In un’azienda della D. O. è logistico.
* Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; si è laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra le sue raccolte di versi: Underground (A&B, 2007, 8877281251), Riserva Indiana (A&B, 2007, 8877281448), Versi Introversi (Limina mentis, 2008, 9788895881003), Androgini (Limina mentis, 2008, 9788895881027), Mostri (Limina mentis, 2009, 9788895881126), Lame da rasoi (Joker, 2008, 9788875361914), Galata morente (Limina mentis, 2010, 9788895881225), Carmina non dant damen (Limina mentis, 2012, 9788895881638); ha curato le antologie poetiche Retroguardie (Limina mentis, 2009, 9788895881065), Demokratika (Limina mentis, 2010, 9788895881195), Tutti tranne te! (Limina mentis, 2010, 9788895881201), Frammenti ossei (Limina mentis, 2011, 9788895881362) e Labyrinthi [I] (Limina mentis, 2012, 9788895881669); . È direttore culturale della Limina mentis Editore; è direttore de L’arrivista - Quaderni democratici. In un’azienda della D. O. è logistico.
* Dichiarazione di poetica dell'autore
La zattera della mia iniziativa artistica, intesa come «non-poesia» e come nuova forma di resistenza etica / estetica interessata a combattere vecchie e nuove forme di dominanza, naviga sulle distese marine della «liquidità» tardo-moderna, muovendosi nei limiti di una weltanschauung artistica totalmente democratica e attenta a sollecitare, nella vita di ogni uomo / artista, la fabbricazione di sistemi di valore idonei a rifondare un dialegesthai comune;
La zattera della mia iniziativa artistica, intesa come «non-poesia» e come nuova forma di resistenza etica / estetica interessata a combattere vecchie e nuove forme di dominanza, naviga sulle distese marine della «liquidità» tardo-moderna, muovendosi nei limiti di una weltanschauung artistica totalmente democratica e attenta a sollecitare, nella vita di ogni uomo / artista, la fabbricazione di sistemi di valore idonei a rifondare un dialegesthai comune;
26 commenti:
Un esperimento interessante. Non poesia. Provocazione artistica, certo, per raccontare l'assurdo della quotidianità e cercare la via d'uscita che meriti d'essere percorsa.
I miei frammenti, come frammenti ametrici, rifiutano ogni categorizzazione tradizionale, caratterizzandosi come «non-poesia» dove, con «poesia», si intenda una scrittura in versi eccessivamente attenta a modelli e strutture formali. La mia è una «vocazione», interessata a richiamare alla mente l’assurdo della quotidianità e a chiamare a raccolta chi, contro tale assurdo, desideri architettare forme di resistenza, benchè io non sia certo che, nel tardo-moderno, sia ancora significativo il concetto, molto solido, molto orientativo, di «via».
... mi sembra che si tratti di una questione molto semplice: la scomparsa della poesia così come l'abbiamo conosciuta e praticata nel Novecento; l'affondamento del Titanic. Ivan Pozzoni trae tutte le conseguenze del fatto che il locutore ha cessato di essere fondatore, e che il linguaggio ha cessato di essere la dimora dell'ego; che, insomma l'essere, l'ego e il linguaggio stanno tutti in una dimensione di galleggiamento dove presente e passato collimano con il futuro-passato. Ivan Pozzoni ha liquidato la poesia così come ha liquidato la filosofia; tutto è affondato sotto i colpi di quel machete che è l'affondametno della Fondazione. Pozzoni risolve (a modo suo) e con pieno diritto la questione della "Poesia" facendo una cosa che, molto semplicemetne, è fuori-della-poesia. Il fatto è che la poesia contemporanea è rimasta priva di referente e priva di un pubblico. Ergo non esiste, è parerga, fronzolo ricciuto e fronzuto. Ma, direi che anche questo azzeramento mi sembra una operazione che ha i suoi risvolti positivi e negativi, tanto è vero che Pozzoni riesce meglio quando abbandona la griglia in rime che non riesce in quanto troppo telefonata, mentre riesce molto meglio quando si libera della forma-poesia...
A parte certe analisi che non saprei fare , ma che frammento per frammento colgo in questo " pozzo" come quello dei cadaveri a cartoline dai morti ( franco arminio),
a parte l'allergia personale per i canoni, quindi la simpatia per quel "non" e dintorni della collina di non,
concentro la mia attenzione s'un aspetto bio-grafico, che non conoscendo "il non poeta", avrei scommesso con tutte e due le mani sul fuoco, prima di arrivare a fine lettura, poi rivelato nella parola "diritto". Il senso dell'antica poesia delle leggi è in ogni rigo al suo rovescio o per gli oggetti capovolti dalla fine del titanic nel futuro anteriore o passato.
I suoni delle "nuove" leggi sono anche percepibili in quel doppio suono , nota resistente di "via" ,la via di via , la via di via da qui, la via di fuga, la via di partenza, la via di un altro ritorno.
Dedico "al non poeta" del/la via nel pozzoni uno dei miei preferiti , me lo ha molto molto ricordato , così pure me lo ha associato il commento di Linguaglossa. Peraltro mi viene facile perchè ho iniziato a riproporlo anche di recente nel mio piccolo diario. Quando prima o poi approfondirò anche il non poeta "Giuanin",leggendo bene altri suoi pezzi, lo proporrò negli angolini serali della mia radiolina e in qualche mandala del tergicristallo e del muro.
Contraddizioni! gridava, Versioni! Dubbi!
Per esempio il numero dei morti: 1635?
1715? 1490? Si era spinto in avanti,
aveva afferrato il microfono,
e aveva chiesto: A cosa , dunque, egregio pubblico,
signore e signori, a cosa dobbiamo prestar fede?
Era un poeta, era muscoloso, spingeva
gli altri da canto, che erano anch'essi poeti,
più o meno gridava: O empirismo!
Divento pazzo! O eterno dibattere
degli esperti! Guai agli specialisti!
Ahimè, bibliografi, che pena mi fate!
Anche per voi verrà la fine, ma almeno
mai nessuno vi riterrà meritevoli di un'indagine sera,
perciò naufragate senza gloria, Amen! — Neanche per sogno!
ululò un altro della bolgia.Credetemi,
tanto che s'impadronì del microfono, tutti loro
hanno creduto soltanto a ciò che portava il giornale
non si fidavano più della propria memoria e anche noi
ora ci diciamo: Deve essere accaduto come nel film
(...)
da canto ventitreesimo , la fine del titanic, Hans Magnus Enzensberger
@Giorgio Linguaglossa
Caro Giorgio, condivido il tuo intervento: l’affondamento del Titanic ci ha lasciati a nuotare tra le onde della liquidità sociale. Sta a noi, come direbbe Michelstaedter, lasciarci annegare, o irrobustire i muscoli in modo da trovare una nuova «riva», lontanissima dal linguaggio (poetico e filosofico) del Novecento/Titanic. Aggiungo: Ivan Pozzoni, dopo aver liquidato poesia e filosofia, è stato liquidato (Bauman), flessibilizzato (Sennet), fluidificato. Quando, nella storia, cadono i referenti e i pubblici, i cantastorie, aedi o trovatori, registrano, ricorrono alla «rima telefonata», e tramandano, mascherando tentativi di elaborazione di valori sotto nenie, non riuscendo, magari, a fare «poesia» tradizionale; ma dalla «non-poesia», incantando, dalla «rima telefonata», creano stimoli, interessi, in esseri umani di ogni tipo, a riavvicinarsi alla discussione etico/politica, più importante di ogni poetica o teoresi filosofica.
@ In soffitta
La netta commistione tra leggi e poesia, approfondita nei miei studi sulle suggestioni etico/giuridiche dei c.d. Presocratici che stanno indirizzandosi all’analisi del rapporto etica/diritto e poesia in Omero e nei lirici, mi è molto chiara, e cara. La mia «non-poesia», in realtà etica in versi, ha forte valenza orientativa, normativa.
Per carità Ivan, è chiaro che il mio virgolettato "non" , affermava la tua via po-etica , non certo la negava, anzi tutto al contrario infatti. L'operazione infatti è in quel capovolgimento. Come dissi in altro argomento, anche per "Omero" ci ha gia detto tutto sulla società degli uomini, guerre di ogni tipo per primo. Ho molto chiara la valenza "orientativa-normativa" proprio perché alcune sensibilità e studi sono in comune. Dalla tua poetica ciò che mi piace e molto è la presa di posizione , personalmente unica possibile, per cercare di comprendere da cosa e come ci hanno alienato, tutti, non uno di meno. Di conseguenza cercare parallelamente alal prima ricerca le vie di resistenza. Tutti siamo coinvolti nell'alienazione, anche quelli che si trincerano dietro a spegazioni ideologizzate credendosene immuni. Pasolini che è stato nella mia formazione uno dei punti cardinali su questo passaggio, lo ha spiegato perfettamente. Siamo in un mondo " merce" in cui alcuni sono piu schiavi di altri ma tutti siamo alienati, la liberta' che io definisco interiore, sta nel decidere di non partecipare all'alienazione "globale" contro la quale non esiste alcuna etica possibile se non di opposizione e resistenza...
Se tutto si gioca sulla menzogna, proiettata da quella dei potenti capillarmente fino al basso degli schaivi,
se tutto è il falso , ergo la negazione della vita e quindi anche della morte(che infatti canta anche il tuo " non " per oreintare a quale "si")
allora l'unico modo per dirsi pronti partenza via è una poetica di vita che sfugga dalla " falsità dell'intero"(adorno docet)...rifiuto della falsita tonda tonda globale in cui ci vogliono proiettati per il loro in-cube ( come nel film, come nell'incubo dell'alineazione).
Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa e a Ivan Pozzoni:
Vedete che il “gioco” tradizione/innovazione (o continuità/discontinuità) è molto più complicato e sorprendente di come voi lo ponete.
Quanti “incendari” dopo un po’ si sono ritrovati “pompieri”? Da Marinetti a Sanguineti gli esempi non mancano. Ma si vede che certi “trucchi” dell’avanguardia o della neo-avanguardia (Ivan ha usato il termine ‘neon-avanguardia’ che ho usato anch’io anni fa, ma lui - mi pare - rallegrandosene, io per sfottere un amico) attirano ancora. Sono lì nel deposito della storia poetica insieme a tanta robaccia o a solenni «rovine»; e chiunque può attingervi, fregiarsene, dare una “botta di vita” al grigio piumaggio quotidiano.
Quando Ivan Pozzoni sostiene che i suoi sono «frammenti ametrici» (li ha fatti controllare da un metricista?), sono «non-poesia», non s’accorge (o sorvola sul fatto) di RIPETERE il gesto sbruffone e contestatore di antenati primo-secondo Novecento.
Non fa che aggiungere un ‘non’ al termine ‘poesia’, continuando a scriverne; e a rivolgerla a quelli che leggono o scrivono o dicono di scrivere poesie.
La sua è una «vocazione», lo dice lui stesso. Ma dovrebbe individuare meglio chi e cosa lo voca. Perché, per «richiamare alla mente l’assurdo della quotidianità», ci sarebbero vari altri modi. Non solo quello a cui lui crede di essere vocato.
Comunque, se quello che lo spinge a fare “non-poesie” gli si chiarirà ed egli avrà l’onestà di dirsi qualche verità in più di quelle che oggi, data la “vocazione”, può permettersi, scommetto che cambierà posizione. (Basterebbe, tanto per dire, che egli rifletta sul suo desiderio che le sue «non-poesie» vengano apprezzate da quelli che di poesia s’intendono o dicono d’intendersi).
Questo non vuol dire che la poesia non sia in crisi e stia là florida e pimpante.
Anzi è proprio la sua crisi, il suo non “funzionamento” che permette che circolino nelle nostre menti molti dubbi, confusioni e idee francamente sballate. Da cui dovremmo liberarci, possibilmente.
Ma la questione non è affatto «molto semplice», Giorgio.
Che sia scomparsa la poesia «così come l’abbiamo conosciuta e praticata nel Novecento» è un’affermazione ragionevole. E nel nostro Paese, per tenerci al concreto, possiamo - com’è stato fatto - anche stabilire una data simbolica: il 1975, anno dell’uccisione di Pasolini e del Nobel a Montale. Ma sarebbe meglio dire che è finita QUELLA poesia.
Perché su quello che è venuto dopo siamo (o dovremmo essere) cauti nel pronunciarci.
I termini (post-poesia, dopo la lirica, parola plurale, “quotidianismo”, “minimalismo”) per indicare o descrivere quello che è venuto dopo il 1975 e che ancora si va facendo sono da prendersi con le pinze tanto sono poco convincenti.
E tuttavia, se siamo confusi, c’è confusione e confusione.
Tutti possono credere di stare risolvendo a modo proprio e magari «con pieno diritto» (se non c’è una posizione davvero convincente, è vero che tutti i tentativi di dare una risposta debbono essere attentamente vagliati e non snobbati) i problemi posti dalla crisi della poesia. Concedere però a Pozzoni - simpatico e intelligente - che egli davvero « è fuori-della-poesia», mi pare (per quanto detto sopra) sbagliato.
Come mi pare sbagliata la tua deduzione: essendo la poesia contemporanea rimasta priva di referente e di un pubblico, allora «non esiste, è parerga [appendice, epigonica], fronzolo ricciuto e fronzuto». Ma è certo questo «azzeramento»? Siamo davvero persuasi che i risvolti positivi e negativi derivino da un azzeramento e non da una convivenza incerta di modelli passati (e niente affatto azzerati) e “sgorbi” di nuovi modelli? Chi ha oggi l’autorità per azzerare qualcosa e dire partiamo da qui? E tu allora che analizzi così attentamente la produzione in corso ti occuperesti solo di trucioli? Non sarebbe divertente…
Aggiungerei al discorso di Ennio: continuiamo a raccontare la "non poesia", ma qui si tratta di leggere la poesia sotto altri aspetti, ed io leggo poesia. Un giorno più nessuno si interesserà alla pittura e spariranno i pittori? E i musicisti pure? L'errore sta nel pensare alla "non poesia " come a qualcosa di nuovo o una conseguenza di ciò che è cambiato. La società cambia , nulla è rimasto come prima, ma la ricchezza che abbiamo accumulato nel tempo serve solo per aiutarci a capire il nostro tempo , nella poesia non ci può essere il fantasma se non di passaggio. Chi vuol aprire il discorso del nuovo deve prima esserlo. L'apertura al nuovo e la comprensione dei nostri tempi attraverso la poesia è facile solo per chi ha sempre vissuto senza fermarsi sul passato ma facendo di esso una bagaglio da portarsi durante il cammino. Non possima scindire il ricordo di ciò che è stato neraviglioso , potente in letteratura ,da ciò che è la nostra storia piccola, che diventa grande solo quando conosciamo ciò che lascia in noi il desiderio di proseguire seriamente su un cammino dove chi è stato più grande di noi ha lasciato orme incancellabili.
Le Muse dell'Olimpo figlie di Zeus , una volta insegnarono ad Esiodo un canto bello, come un discorso, a lui per primo:
"O pastori, cui la campagna è casa, mala genia,solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare." Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, e come scettro mi diedero un ramo d'alloro fiorito, dopo averlo staccato, meraviglioso; e m'ispirarono il canto divino,perchè cantassi ciò che sarà e ciò che è e mi ordinarono di cantare la stirpe dei beati, sempre viventi;ma ESSE PER PRIME, e alla fine, sempre.-
(Esiodo, Teogonia, 22-34)
Ciao Emy
Condivido! La difficoltà, sta nel ricostruire un'etica "positiva" dopo che, molti autori, l'abbiano dichiarata morta dopo Auschwitz. L'etica di "resistenza" rimane un'etica da stato di necessità. Per ricostruire un'etica, e quindi una politica (cosa che sta tanto a cuore ad Ennio, e a molti di noi) urge, puntellandoci su un'etica della resistenza, tentare di costruire, in dialegesthai continuo, un'etica "positiva", attraverso ogni mezzo (inclusa una poesia, che, al servizio dell'etica, diviene "non poesia").
Cari Ennio, Ivan In soffitta etc.
a me la non-poesia di Ivan Pozzoni non dispiace, anzi, direi che mi diverte e mi piace, per alcune caratteristiche: che getta al macero la "neon-avanguardia" (dizione di Pozzoni) che rigetta la poesia "metrica" optando per la "ametrica"; getta tutto nella spazzatura adotando in proprio e in toto tutta la spazzatura, introiettandola in un sistema tipo Beaubourg, un sistema di reversibilità, di reversione degli ordini linguistici, metrici, tematici, sottotematici; ricuce i sotto circuiti sematici e discuce i sotto circuiti ideologici e significazionisti. Pozzoni si pone un problema molto semplice e molto serio: che la poesia contemporanea è rimasta senza un referente e senza un pubblico. E questo è un fenomeno nuovo che la neoavanguardia non si era posta perché il problema a quel tempo non si profilava all'orizzonte con la chiarezza con cui invece si pone oggi.
Ennio pone il problema della continuità / discontinuità? Penso che Pozzoni non si ponga nemmeno questo problema; il problema della tradizione e dell'antitradizione? Pozzoni non se lo pone nemmeno. Vuole fare il guastatore, va con le cesoie per spezzare il filo spinato che il Novecento ha posto a difesa dei fortilizi della Tradizione e del Canone, tutte parole grosse che designano un significato preciso: i rapporti di potere che sotto stanno e sottendono i rapporti di produzione tra le istituzioni stilistiche maggioritarie. Pozzoni, a mio avviso, fa bene a buttare tutto all'aria e a carte quarantotto. Non ha nulla da perdere perché non c'è nulla da perdere. Tutto è già stato perduto, e chi non se ne è accorto forse vive nel mondo rodato e patinato dei propri sogni, o perché non gli fa comodo ammettere come stanno le cose. Pozzoni non ci sta a questo gioco all'ipocrisia collettiva che va di moda nel nostro paese, dove si parla di: crisi non-crisi, poesia etica, poesia mitica, fine del realismo, poesia del quotidiano, autobiologia in poesia etc. e chi più ne ha più ne metta. Siamo nella confusione babelica di tutte le lingue e di tutte le maniere.
E il compito del critico? Credo che in questa situazione il compito del critico sia insostituibile; direi del dibattito critico... ma proviamo ad aprire le riviste e gli almanacchi di poesia, cosa ci troviamo: NULLA, NULLA DI TUTTO CIO, ci troviamo scambi di favori, recensioncine accattivanti, articoli buonisti e igienici sulla fine del mondo prossimo venturo, sulla crisi di vendite e di lettura della poesia. Roba da far ridere i polli.
A Giorgio:
Noi, ci siamo persi.
Come rocce frantumate
nella scossa rotolano
a fare della terra , terra.
Emy
Non ho da aggiungere niente. Ti sono arrivati i contenuti del mio messaggio. Però, Giorgio, dopo aver spaccato i pavimenti sciatti delle città industriali, mi aiuterai a trovare chi stenda magnifici mosaici sulla nuda terra. Io, a stendere magnifici mosaici, non sono capace. La nostra speranza di usare la con-fusione, e, fondendoci, di riattivare le assemblee della cultura, esiste sempre?
Ciascun «avanguardista», invecchiando, diventa «retroguardista»: semplicemente, i tempi sociali essendo accelerati rispetto ai tempi dell’uomo, l’uomo rimane indietro nella corsa col mondo, e, a volte, rimane indietro nella corsa con se stesso. Detto ciò, c’è il momento dell’«avanguardia», quello della «retroguardia», quello dello «schieramento in battaglia». Occorrono momenti di rottura del linguaggio, come quelli effettuati da Marziale, da Villon, Da Cecco, da Burchiello, da Gongora, da Marinetti, da Sanguineti, e occorrono momenti di riaggiustamento; come spiegavo, occorre un’etica della «resistenza» ionica (Eraclito) per fondare un’etica «positiva» ateniese (Platone). Oggi è il momento della rottura, della resistenza.
Quando Ennio Abate motteggia sul fatto che Pozzoni non s’accorge (o sorvola sul fatto) di RIPETERE il gesto sbruffone e contestatore di antenati primo-secondo Novecento, non s’accorge (o sorvola sul fatto) di RIPETERE il gesto codino e conservatore di antenati primo-secondo Novecento (critiche alle avanguardie). Tout lasse, tout casse, tout passe (nei vari ordini che si suole dare al motto).
Comunque, io non sono un avanguardista, sono, con spirito ironico, un neon-avanguardista.
La mia è una «vocazione»: cioè, rispettando il senso etimologico del termine, una «chiamata» a raccolta di ogni animo curioso, finalizzata alla concretizzazione di un dialegesthai, che, in quanto attività non esclusiva, abbisogna di una molteplicità di individui; e, nel contempo, mi sento «impegnato» (categoria deontica del dovere) alla chiamata. L’apprezzamento di chi si intende di «poesia» non c’entra: (con)vocatio e (pro)vocatio di un’assemblea, è l’obiettivo. Mi interessa che arrivino a bersaglio i contenuti (fuori dalla forma = ametricismo), come nell’esperienza teoretica cinica.
Giorgio dice che sono «fuori-dalla-poesia», cioè «a-poetico», e non «im-poetico»: proprio perché ha intuito che mi servo, iconoclasticamente, della «poesia» (cos’è?), della «filosofia» (cos’è?), della «sociologia» (cos’è?), mettendole al servizio di altro (cioè del tentativo di rinegoziare una morale, in un momento storico di assolute amoralità e immoralità).
Sono un Papini con i mezzi tecnici e metodologici di un Vailati. ah ah ah
Io vorrei chiedere a Pozzoni in cosa consista questa non-poesia, perché leggendo i testi pubblicati, a me sembrano poesie a tutti gli effetti, nel senso più tradizionale del termine, alcune perfino corredate di rime baciate. E molto spesso con esiti davvero interessanti. Sicuramente sono io che non vedo la differenza.
Grazie in anticipo per ogni chiarimento.
Ennio Abate:
"Sono un Papini con i mezzi tecnici e metodologici di un Vailati. ah ah ah" (Pozzoni)
"Proviamo ad aprire le riviste e gli almanacchi di poesia, cosa ci troviamo: NULLA, NULLA DI TUTTO CIO, ci troviamo scambi di favori, recensioncine accattivanti, articoli buonisti e igienici sulla fine del mondo prossimo venturo, sulla crisi di vendite e di lettura della poesia. Roba da far ridere i polli"(Linguaglossa)
Ahimè, ridete, ridete che la mamma ha fatto gli gnocchi!
Una risata non seppellirà i nostri Nemici (manco individuati) ma seppellirà noi, se ci abbandoniamo a questo ilare sovversivismo. Alla Papini poi! (Proprio lui!).
Vi dico che non ci sto. Biosgna distinguere quello che effettivamente distruggiamo noi e quello che gli altri ci distruggono sotto i nostri piedi.
Come ho anticipato a Giorgio Linguaglossa ho in cantiere uno scritto intitolato "Ancora sulla ex-piccola borghesia o ceto medio in poesia". A giorni lo inserisco nel blog.
Ma per il momento mi permetto di ricordare ( e non solo a lui) le perplessità, che già avevo esposto nel mio «VICINANZE E DISTANZE. Lettera riepilogativa per me stesso e per Giorgio Linguaglossa su «La nuova poesia modernista italiana» del luglio 2010 e che riprenderò nel prossimo che sto preparando:
«La «piccola borghesia» classica, ottocentesca o primo novecentesca,
non esiste più. Si è trasformata in un ceto medio indeterminato e in buona parte
impoverito persino rispetto a quello degli anni Cinquanta. Per aver seguito tutto il
discorso sul ceto medio di Sergio Bologna,28 che poeti e critici – gli umanisti –
sarebbe bene conoscessero, ti inviterei a un approfondimento e almeno a una
depurazione del termine dalle sue implicazioni moralistiche, ma anche dagli echi
della diffidenza ideologica da vecchio PCI o da snobismo montaliano.
Sono più che convinto che la distanza tra il “noi” della «nuova poesia
modernista», che tu stai tentando di costruire, e gli epigoni (quotidianisti, iperrealisti,
minimalisti) della poesia “ufficiale” non sia così grande. E mi chiedo se a questa –
necessaria, eh! - polemica “endo-ceto medio” (vedi le tue frecciate a Zeichen, Fiori,
Majorino, Cucchi, Ferroni, ecc.) giovi ancora il taglio “militante” di una volta, del
tutto novecentesco, malgrado la tua dichiarata volontà di andare oltre il Novecento.
(Ti preciso, a scanso di equivoci, che sono per una qualche forma di «militanza», ma una militanza - per ora o non so per quanto tempo – che non può più avere lo stile o il linguaggio del passato, neppure quello di Fortini). Credo, cioè, che ci debba essere una più alta consapevolezza delle ambivalenze della nostra situazione di crisi. Di tutte: di quelle «quotidianiste» o «narrativiste», ma anche di quelle «poetiche», nostalgiche di un « un tempo posseduto e riconosciuto».
[Continua]
Ennio Abate [Continua]:
Dobbiamo esplorare questa nebulosa che designiamo ancora con vecchi termini (piccola borghesia, ceto medio, o moltinpoesia, come dico io) ma, per farlo e non assolutizzarla (o farne l’unico – ideologico -bersaglio), dobbiamo intendere entro quali più potenti nebulose è inclusa.
Quando dici: «siamo sicuri che una poesia del «quotidiano» siffatta non sia, in
fin dei conti, ancillare e complementare alla visione (politica) del mondo della
piccola borghesia italiana nella sua fase di stagnazione economica?», mi chiedo: ma
è solo la piccola borghesia a ristagnare? E cos’è, ad es., per te, quella «borghesia
finanziaria» di cui nell’intervista a Santoro auspichi en passant una riforma? Quanto condiziona, ben più della «piccola borghesia», le sorti della poesia?
Insomma, la «piccola borghesia» mi pare un bersaglio troppo facile, ma –
ripeto - allo stesso tempo da non scartare, perché bisogna pur indignarsi e criticare quelli a noi più vicini e denunciare questo nuovo populismo della poesia
«quotidianista». Ma sapendo che noi stessi che lo denunciamo ne siamo inquinati e
perciò spinti ad un quasi inevitabile moralismo elitario, che inquinerà anche la
nostra critica (proprio come tu in qualche modo imputi a Fiori). Anche io ho parlato
di recente criticamente del «cetomedista» Majorino e mi sono distanziato anche dal
«cetomedismo» di Sergio Bologna, ma ho consapevolezza che siamo tutti piccolo
borghesi (o cetomedisti). Voglio dire che non sono propenso a uno scontro a testa
bassa - tutto endocorporativo (tra poeti) o endo-ceto medio. Se, per cominciare a
uscire dalla palude, anche uno scontro interno alla piccola borghesia o ceto medio ci
deve essere, deve risultare più chiaro in nome di chi o di cosa va condotto.
Questo oggi è per me il punto più problematico. E mi pare che tu lo copra con
un piglio troppo sicuro, sprezzante, eroicistico. Per me c’era una volta la classe
operaia e la rivoluzione; e allora la polemica contro la piccola borghesia o la
diffidenza verso il ceto medio (da cui comunque io pure provenivo per studi,
immaginario, ecc.) furono motivate con un’analisi della realtà classista della società
italiana e con agganci all’immaginario marxiano della classe operaia: il punto di
vista operaio contro il punto di vista piccolo borghese. Ma oggi?»
[Fine]
* L'intero scritto si legge qui:
http://www.backupoli.altervista.org/IMG/LINGUAGLOSSA_Intervento_di_Abate_luglio_2010.pdf
Leggi bene: Papini, con i mezzi tecnici e metodologici di un Vailati! Almeno, moriremo contenti...
@ Francesca L’essere «non-poesia» dei miei versi sta nell’a] essere «non-poesia» tradizionale, totalmente disinteressata alla forma, al ritmo, ai toni, e alla rima, che, tra l’altro, come sostiene incisivamente Giorgio, negli esempi riportati è una «rima telefonata», o, direi io, baciata dalla sfortuna e b] «non-poesia», nel senso di scrittura messa a servizio dell’etica, cioè «etica in versi». Gli esiti, che trovi interessanti, negli ultimi miei componimenti, sono assolutamente assenti in molta della mia esperienza scrittoria precedente, orientata, come scrive bene Giorgio, ad andare «con le cesoie per spezzare il filo spinato che il Novecento ha posto a difesa dei fortilizi della Tradizione e del Canone». Se ti interessa, scrivimi a kiripoz@tin.it , che ti mando via posta miei materiali per approfondire. Ciao Ivan
Esistono categorie o poetiche che vanno al di là della poesia o dei soliti stereotipi letterari? Forse si, anche se spesso mi chiedo: di cosa ha bisogno la poesia per essere nonpoesia? e dove cercare l'inedito per cercare di sfuggire all'edito? probabilmente siamo noi stessi a deciderlo e forse la prima regola per non cadere nella solita trappola poetica è quella di offrire immagini libere dalle solite associazioni borghesi o capitaliste che dal Rinascimento in poi hanno infettato l'essenza della scrittura; in fondo ogni uomo è portatore di un'essenza unica e imprevedibile, e il poeta deve solo lasciarsi trasportare dall'orgia di libere associazioni che scuotono il suo spirito, lo spirito del mondo, lo spirito della terra, lo spirito dell'universo; e tutta una questione d'immaginazione o meglio di eccessi dell'immaginazione, dove corpo e mente si unificano in un discorso che è naturale purificazione, cuore che batte all'unisono con la follia/genialità del mondo, lo spirito del mondo, lo spirito dell'uomo: genio/folle che incorpora la morbosa complessità della natura umana e dell'universo intero!
http://issuu.com/pasticherivista/docs/pastiche_n9_online
Grazie Ivan. Eppure, io trovo che l'idea di "etica in versi" (po-etica? poietica?) sia già di per sé una forma poetica. Quella di Leopardi era un filosofia in versi no? Io il ritmo ce lo trovo, una struttura solida anche. Non so dei tuoi precedenti, ma qui seguito a vedere poesia. Il che in realtà mi piace.
Se, ai fini di raggiungere obiettivi altri, come effetto collaterale, riesco a svolgere anche «poesia» decente, c'è soltanto da esserne conteti, dato che il messaggio raggiungerà un maggior numero di individui. Comunque ti ringrazio dell'incoraggiamento!
Cari Ivan..Giorgio..Francesca..tutti, "condivido" ognuno dei vostri interventi per primo l'ultimo di Ivan, che moltiplica quanto e come siamo in un altro esilio. Ma siamo come Nazim, in un altro carcere rispetto al suo, ma in carcere, che è dentro Ivan, dentro Giorgio, dentro Paolo o Francesca , dentro e lì ognuno di "noi", come la voce che ti è cosi tanto dentro la carne che riconosceresti dopo secoli che non sentivi più, che era quella di tua madre, di tuo padre, della tua amica, del tuo amore, di tuo fratello, di tua figlia..
"Penso che la poesia debba essere innanzi tutto utile... utile a tutta l'umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona. Utile a una causa, utile all'orecchio...
Voglio essere capito e letto dal maggior numero possibile di persone, ai più vari livelli di cultura, nei più diversi stati d'animo, dalle prossime generazioni. Voglio essere traducibile per i popoli più diversi. Credo che la forma sia perfetta quando dà la possibilità di creare il ponte più solido e comodo tra me, poeta, e il lettore. Detesto non solo le celle della prigione, ma anche quelle dell'arte, dove si sta in pochi o da soli. Sono per la chiarezza senza ombre del sole allo zenit, che non nasconde nulla del bene e del male. Se la poesia regge questa gran luce, allora è vera poesia"
Nazim Hikmet
Penso che se davvero riuscissi, con un mio verso, a dare uno spunto di riflessione a chi, attraverso il mio verso, costruirà un capolavoro, io mi sentirò contento. Cosa conta, in fondo, il successo? La cultura è un'iniziativa collettiva, e io non sono nessuno. ciao I.
il " Nessuno" che dici , è già quel capolavoro, almeno per come vivo i vivi e i morti nello spazio tempo fra le gocce degli uni,la roccia degli altri e gli scavi comuni.un ciao molto contento. rò
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