Tabea Nineo 1990
11. Riepilogando. Un criterio politico-poetico
come misura delle poetiche
Come ho detto nella tesi 1 (qui) credo che
siamo in una insoddisfacente Babele poetante, subiamo una cattiva
globalizzazione e operiamo in un “cattivo” ceto medio, che non è in grado, così
pare (in assenza di una più precisa analisi), di porsi i problemi poetici e
politici della “globalizzazione” o farsi voce del nostro tempo. Riproduce,
invece, in piccolo il caos globale e frammentato. E in tale caos c’è spazio -
tanto la frammentazione è ormai dominante
- per il “nuovo” e per il “vecchio” purché devitalizzati: il Web, la
rivoluzione dei trasporti, le biotecnologie ma anche le piccole patrie, i
dialetti (magari “meticciati”), i ritorni al mito (ma congelato e privatizzato).
Nessuna nuova polis (globale)
si sta costruendo mentre gli stati-nazione vengono sconvolti. La falsa
democratizzazione (non solo della poesia) convive con le false élite. L’opposizione
storica pochi/molti rimane intatta nell’ideologia
e nell’immaginario in ogni campo, pur svelando ogni campo una microfisica dei
poteri che non corrisponde alla macrofisica ufficiale e convenzionale.
I pochi difendono coi denti le posizioni di vantaggio ereditate o
acquisite ma non godono con agio la loro superiorità. I molti s’illudono ancora di partecipare prima o poi al “banchetto”
culturale (oggi soprattutto mediatico) e dilapidano le loro energie.[1]
Mentre pochi superstiti di vecchie vicende politiche e
cultural-letterarie si ritagliano la loro monacale “torretta d’avorio” (o
osservatorio) rischiando di murarvisi
dentro da soli e di lavorare (come Gramsci) für
ewig. Questo a me pare il quadro veritiero della situazione subordinata (e
non solo in poesia) del ceto medio.
Ora, accantoniamo per semplificare il discorso, la buona e la malafede ideologica, contorno riducibile ma non
eliminabile dei nostri stessi discorsi, i quali pur quando mirando al vero o al
reale, per il semplice fatto di essere noi in questa condizione di vita, posson
distrarsi e intendere fischi per fiaschi. E diciamo che è compito indispensabile del pensiero critico
e poetico (che può svilupparsi in chunque) smuovere la vischiosità
“cetomedista”. E per farlo bisogna che questi signor chiunque non rifuggano dal
piano che a me pare dirimente, quello poetico-politico. Perché soprattutto qui
è possibile intendere come tale vischiosità “cetomedista” è al contempo
prodotto (offensivo-difensivo) dello stesso
ceto medio e “suggerimento” imposto dall’esterno: dall’agire conflittuale
di altri attori, quelli dominanti soprattutto o decisori (come li definisce G.
La Grassa), essendo, come detto, quelli dominati (proletariato, classi
inferiori, popoli, ecc) in grande difficoltà e non capaci di scuotere la «gabbia
d’acciaio» di Das Kapital mondializzatosi.
Su questo piano, trascurato o rimosso negli ultimi decenni dalle ideologie
del postmodernismo (“società trasparente”, “fine della storia”, intellettuali non più universali ma avviatisi con disincanto
alla Baricco sulla via del disincanto, dell’intrattenimento
e della spettacolarizzazione) ogni scelta di ciascuno di noi - simbolica o
pratica (quindi dal voto alle elezioni ai rapporti di collaborazione culturale
che stabiliamo) - potrebbe e dovrebbe arrivare
ad un chiarimento anche nelle sue implicazioni di
poetica.[2]
In un’ottica progettuale (che io chiamo della poesia
esodante ed altri possono chiamare in
altri modi) ogni scelta, se svuota il possibile progetto, risulterebbe dannosa
e condannabile.
12. Apro parentesi. Cosa intendo per poesia esodante
In questi anni ho tentato varie volte di definire
cosa intendere per poesia esodante.
L’ho fatto partendo da alcune mie poesie, e in particolare da un testo, Dialogo
del Vecchio scriba e del giovane
giardiniere (2002-2009),
dove ho fissato il passaggio dal
mio giovanile, fiducioso, accostamento alla cultura umanistica (unica stella
osservabile e accostabile allora per me dal Sud d’Italia) a una fase successiva
di contestazione delle idee ricevute e di ricerca poi di un tipo di poesia che
tenesse in conto l’esperienza “demitizzante” fatta da immigrato in una città
moderna e industriale come Milano (e la sua periferia).
Oggi chiamo questa ricerca
con un nome un po’ complicato:
«esodante» (da ‘esodo’, che fa riferimento sia al libro della Bibbia sia al dibattito
sul concetto attuale di esodo, sviluppatosi in Italia attorno agli anni ’80-’90
del Novecento, condotto con varie sfumature da autori che andavano da Walzer a
Negri, a Virno a De Carolis e che ho seguito dalla mia collocazione di
“intellettuale periferico”). Potrei più
semplicemente dire, per farmi intendere dai veri ingenui (non dai falsi
ingenui): esodo come fuoruscita dai discorsi da cui si proviene (di sinistra o
di destra); e, nel campo di cui ci stiamo occupando, poesia che non si ferma
alla poesia.
In successive altre poesie
e riflessioni ho tentato poi, dopo lo shock di quello che ho chiamato immigratorio,[3] di
elaborare lo shock delle nuove guerre “umanitarie”, tenendomi a distanza sia
dal “dogma” dell’autonomia della poesia sia da certa “poesia civile” o
“avanguardista” a mio parere standardizzata, riducendo il tasso di liricità (senza
mai abolirlo, però) e assumendomi i temi
di un noi o, più precisamente, di un
inquieto io/noi permeabile all’orrore della storia e delle società e in distacco crescente dalle
tradizioni culturali del periodo storico in cui mi sono formato (che possono
indicare sempre coi nomi comuni e ideologici di destra/sinistra e cattolicesimo/comunismo).
Tenendo saldamente d’occhio questo mio percorso
esistenziale, poetico e intellettuale,
propongo qui, a titolo di chiarimento e schematicamente, queste definizioni-tesi sulla poesia esodante:
a. La poesia esodante, essendo scritta in Italia,
dunque in città occidentalizzate, si sofferma per forza di cose sull’ovattato
orrore quotidiano (di “pace”, parcellizzato, quotidiano, normale), ma si
sporge sull’orrore storico del mondo,
quello passato e quello presente e si
sofferma sulla politica dei potenti, su guerre,sofferenze, fatti di sangue.
b. La poesia
esodante si sforza di destarsi dal sogno della poesia. Almeno un po’. Ma questo po’
conta. (Perché una certa poesia ha messo radici nel sogno e là vuole
unicamente o soprattutto permanere).
c. La poesia esodante è tentativo di rompere gli
steccati (tutti e non solo quelli che comodamente attribuiamo agli altri) in
cui oggi sta una certa poesia (minimalista, orfica, formalistica, verginale, adamitica, fatua o agghindata di tecnicismi e
manierismi). E rimettersi a contatto con la realtà e i conflitti sociali, come fecero a suo
tempo le avanguardie, i neorealisti e più di recente le neoavanguardie).
d. La poesia esodante rifiuta la netta distinzione
tra poesia e politica (pur sapendo i pericoli di una cattiva mescolanza tra le
due attività, non evitati dai
sunnominati movimenti: surrealisti, neorealisti, neoavanguardie). Non chiede ai
poeti di tramutarsi in politici o di
mescolarsi con loro, ma di maneggiare la politicità del linguaggio (anche di quello poetico) e farla
incontrare con quella di veri costruttori di polis.
e. La poesia esodante
abbandona l’oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia. Che non esiste. Che
è un’ideologia della poesia, non dissimile dal vischioso petrolio di brutti
pensieri-teorie-ideologie prodotto a
barili dagli specialisti dell’orrore del mondo e della storia (teorici,
intellettuali, moralisti).
f. La
poesia esodante mira a ciò che la poesia migliore - che parta dall’io lirico o da un noi epico - ha sempre fatto: pensare
l’orrore del mondo e della storia. Non ha cambiato il mondo, ma la
testimonianza dell’orrore l’ha sempre data e in modi spesso più penetranti di
altri saperi. La poesia esodante non cambierà il mondo? E con questo? Può però
pensarlo! Non ha armi per rivoltarsi assieme ad altri? Forse, ma sa che nel passato ci sono stati poeti capaci
di pensare, poetare e anche agire con
altri, molti altri e non le solite élite dei potenti.
g. La
poesia esodante è quella di poeti che sanno di non essere liberi. Che non cercano nella poesia compenso
individuale alla illibertà crescente delle società. Che non coccolano una loro
presunta libertà, che consisterebbe
(come fossimo ai tempi della Controriforma) nello scrivere al di fuori delle
“precettistiche”. Visto che il vero, unico, Precetto, cui siamo tutti sottomessi, anche quando scriviamo poesie,
anche quando assaggiamo un pizzico di “felicità” in poesia, è quello del Capitale,
un Padrone e Nemico che pochi tra noi oggi sanno nominare, riconoscere e
contrastare.
h. La poesia esodante sa che la bellezza,
quella che poesia è ancora in grado di attingere, è segnata dall’orrore e vi
convive. La bellezza non è tutto, non viene neppure «innanzitutto»; e, se la si
indaga senza innamoramento estetico, non può che mostrare anch’essa l’orrore
del mondo e della storia. È segnata da quello. Gronda, pur essa, di «lagrime e
sangue», che non si vogliono vedere. Lo sapeva bene, perché l’orrore storico
stava per ghermirlo e la bellezza non gli fu scudo sufficiente dai colpi
mortali in arrivo, Walter Benjamin. Affermare, come alcuni insistono, l’
inscindibilità di poesia e bellezza è non
tener conto che la poesia, se copre con la bellezza l’orrore, di esso si nutre
e si fa complice. Meglio che la poesia esodante sappia mostrare la fragilità e
la forza dei desideri umani senza ricorrere al feticcio della Bellezza.
i. La poesia esodante non liquida la
domanda fondamentale su quali siano i modi con cui la realtà può entrare in
poesia. Sa che essa “così com’è” non
entra nelle parole della poesia come in una scatoletta preconfezionata. Come
del resto non entra in una formula matematica o chimica o in un concetto
filosofico. Sa che la realtà sfugge alla forma, non coincide con essa. Sa che
la forma (e la forma in generale, non solo la “bella forma”) è in sé già distanziamento (problematico), se non
repulsione (problematica) della realtà.
Fortini ricordava che la forma è segnata dal marchio secolare dei
dominatori. E lo stesso marchio segna pure la “non forma”, adottata da quanti
(le avanguardie) hanno creduto così di aver trovato una scorciatoia per
trasgredire e aggirare il potere della forma.
l. La poesia esodante riconsidera dal suo
punto di vista i tentativi sia dei poeti fedeli alle forme della tradizione,
che in quelle vecchie botti hanno
immesso nuovo vino sia dei poeti che hanno voluto ”slogare” le forme tramandate
fino a farsi “camaleonti” e a mimare
quelle caotiche o mostruose o
“patologiche” accumulatesi in epoca moderna e postmoderna. Pensare in poesia
l’orrore del mondo non può significare
cedere a tale orrore, al Niente,
all’«enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano e postumano,
dove tutto è in metamorfosi» (Berardinelli),
che troppi vedono scorrere e gonfiarsi nel fondo dell’abisso storico
degli ultimi secoli o di tutti i secoli.
Non ne verrebbe un linguaggio (perché sempre al linguaggio il poeta deve
approdare) che riassumerebbe in sé la “forma
informe” o «senza limiti e senza confini» del mondo com’è, ma la negazione del
fare poesia.
m. La poesia esodante non è surrogato o ripresa dell’impegno (etico,
politico) in poesia. Guarda con rispetto a quell’esperienza, la difende dalla
denigrazione degli odierni revisionismi, però non si fa riassorbire in quei
discorsi. Per la semplice ragione che sono venute meno tutte le condizioni che
li permisero negli anni del secondo dopoguerra e attorno al biennio ’68-’69. Riproporli
artificiosamente (come si è tentato di recente con l’antologia «Calpestare
l’oblio») mostra presto l’equivoco di ogni rifondazione. La poesia esodante sa che la sua eticità e politicità sono da
costruire e da controllare su un terreno ignoto, non su quello di una qualche
rassicurante tradizione.
n. La poesia esodante si distanzia sia dal formalismo
(o estetismo) sia dal contenutismo (spesso mera propaganda dell’ideologia del Noi
dominante). Il contenuto, però, va giudicato anche quando ben formalizzato!
Contenuti che, con i saperi in nostro
possesso, giudichiamo nichilistici, prevaricatori, individualisti, antisemiti,
razzisti, anche se raggiungessero in poesia una forma esteticamente originale o
persino sbalorditiva, pur essendo de-realizzati (una cosa è ammazzare, altra
rappresentare un omicidio) non diventano “altra cosa”, non vengono mai del
tutto “sublimati”; e non devono pertanto sfuggire a una verifica critica rigorosa. La loro messa in forma non li “riscatta”. Restano latenti con la
loro carica positiva o negativa (o ambigua) nell’opera. Tra tirannide e
libertà, dominio e lotta per liberarsi
dal dominio o ridurlo il contrasto è ineliminabile (e storicamente irrisolto).
La poesia lo può attenuare, svelare (Foscolo), occultare ma lo può anche sottilmente
esaltare, non essendo mai del tutto neutra. La poesia esodante, dunque, è
sempre accorta alla doppia faccia della poesia: oggetto estetico con un suo
particolare fascino; grumo di contenuti conflittuali mai del tutto spenti.
o. La poesia
esodante resta poesia e si muove
all’interno del discorso dell’«ambivalenza». Non è discorso diretto, ma
indiretto. Non può essere mai immediatamente discorso politico (anche se - ripeto
- è in rapporto con la politicità innanzitutto del proprio linguaggio). E non
può essere neppure discorso immediatamente corporeo, emotivo, vitale. Può muoversi in una zona definibile lirico-politica
o dell’io/noi. È/potrebbe essere poesia
esodante quella che rivela una sua politicità, anche quando parla di una rosa (Celan per tutti). O quella che ha una sua liricità, anche quando parla
di un orrore storico ben preciso e nominabile con altri saperi. Riconosce che
anche nell’io isolato ci può essere non solo
universalità generica ma politicità. E sa pure che il noi non è sempre e
solo ideologia, negazione della individualità,
comunitarismo più o meno fusionale e tribale.
p. La
poesia esodante è critica continua, intelligente, tenace, di tutto
quanto ci impedisce di accedere a una maggiore comprensione della realtà (e
della poesia e delle forme e delle tecniche per dir meglio e con più efficacia
quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo). Tale critica è in parte
accompagnamento (musica di sottofondo) dell’atto poetico e in parte svolta
proprio tramite esso. La poesia esodante
non si dà perciò un fine astratto da raggiungere (fosse la bellezza, la morale,
l’impegno politico o altro) Essa
deve criticare i Valori se si presentano
come astrazioni pericolose, ideologie, impedimenti della stessa ricerca poetica.
Per poesia esodante non s’intende la propaganda di un valore qualsiasi,
né una forma laico-borghese di religione o un’autoterapia o
un’autoconsolazione. S’intende, invece, un’attività intuitiva-pensante in
sintonia per quanto è possibile (come accade anche per le scienze e altre
forme di conoscenza) con le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed
esterno; soggettivo e oggettivo).
[Continua]
[2] Da quest’ottica una scelta - ad esempio quella di entrare in una ideale
Casa della Poesia, pur sapendo che essa è solo una facciata (fu il caso di
Montale, premio Nobel per la poesia proprio quando la sua produzione, con Satura, prendeva atto che la Poesia non
c’era più), o della moltiplicazione delle Case della poesia nelle città e nei
quartieri in base alla logica dell’imitazione
acritica o dell’adesione al criterio del “piccolo è bello”; oppure
l’altra, apparentemente contrapposta, di
fingere un assalto al Palazzo
d’inverno delle grandi case editrici, ricalcando le orme della neoavanguardia o
di ogni sovversivismo piccolo borghese
- può essere giudicata e approvata o riprovata in
base a un chiaro criterio.
[1] Proprio qualche giorni fa in auto ho ascoltato un’intervista a Federico Rampin
che parlava da New York su denaro, ricchezza
e crisi. Analogie con quella del ’29, richiami a Il grande Gatsby di Fitzgerald e conclusione realistica: il sogno americano non esiste più, i ricchi
che erano pochi sono diventati sempre più ricchi e pochi e i poveri diventano
sempre più poveri e tanti (compresi settori del ceto medio). Poi la morale destinata alla consolazione
edificante del ceto medio. Non esiste mica solo la ricchezza del denaro, esiste
anche quella della cultura. E questa tramite il Web è a disposizione di tutti (ergo: lasciate che i ricchi restino ricchi
di denaro e voi arricchitevi di cultura).
[2] Da quest’ottica una scelta - ad esempio quella di entrare in una ideale
Casa della Poesia, pur sapendo che essa è solo una facciata (fu il caso di
Montale, premio Nobel per la poesia proprio quando la sua produzione, con Satura, prendeva atto che la Poesia non
c’era più), o della moltiplicazione delle Case della poesia nelle città e nei
quartieri in base alla logica dell’imitazione
acritica o dell’adesione al criterio del “piccolo è bello”; oppure
l’altra, apparentemente contrapposta, di
fingere un assalto al Palazzo
d’inverno delle grandi case editrici, ricalcando le orme della neoavanguardia o
di ogni sovversivismo piccolo borghese
- può essere giudicata e approvata o riprovata in
base a un chiaro criterio.
[3] Vedi Ennio Abate, Immigratorio, Edizioni CFR,
Piateda 2011
2 commenti:
Caro Ennio,
IL GRANDE CETACEO il Ceto Medio Mediatico (CMM), ex piccola borghesia, è un fatto oggettivo non una mia impressione soggettiva. Sta lì, e aspetta di deglutire tutto: plastica e fazzoletti di carta, poesie e ferraglia, l'Euro e il Dollaro, e direi di più: le poetiche (tutte ormai rigorosamente epigoniche) e la pratiche (tutte monetarie), fiction e fashion. Agli occhi del «Dopo il Novecento» appaiono tutti epigonici: Montale epigono di Pascoli e D'Annunzio, la post-avanguardia epigona della neoavanguardia, i post-orfici epigoni di una poetica già in fase calante da molto tempo in Europa, la ridicola poesia dell'io e del tu epigona degli epigoni, tipico involucro adatto a una "cultura" dei baci Perugina. Non credo, in queste condizioni che ci sia scampo. Se si vuole fare qualcosa, lo dico e lo ripeto, occorre puntare a saltare con un cross (come nel gioco del calcio) il fitto centrocampo del CMM e parlare ad un interlocutore inesistente. Meglio l'inesistenza che esser fagocitati dal CMM. Meglio non essere letti da nessuno che fare i compitini alla maniera del prof Magrelli e dei post-minimalisti alla Mariangela Gualtieri. Questo deve essere chiaro.
Chiediamoci: che cosa è rimasto Dopo il Novecento di un poeta come Salvatore Toma che fa una poesia della fine e la porta a termine con il suicidio? La risposta è semplice: niente. Le sue poesie edite nel 1999 da Einaudi (Canzoniere della morte) per interessamento di Maria Corti mettono la parola «fine» al Novecento. Della trilogia di Helle Busacca, I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974) e Niente poesia da Babele (1980), è rimasto il monumento funebre fatto per recare traccia e memoria del suicidio del fratello «aldo»; un monumento diroccato, irriconoscibile e inservibile; della poesia di Maria Rosaria Madonna, Stige (1992), ci resta una superficie con incisi dei segni simili a geroglifici che rimandano ad una traccia di qualcuno che è vissuto nel tempo, in un tempo irripetibile; così di Altre foto per album (1996) di Giorgia Stecher, di Giuseppe Pedota con Equazione dell’infinito (1996) e Einstein. I vincoli dello spazio (1999), di Maria Marchesi con L’occhio dell’ala (2003) e Evitare il contatto con la luce (2005), ciò che ci resta sono dei monumenti diroccati scritti in un tempo rottamato e irriconoscibile. È l’ultimo fuoco fatuo del Novecento che si spegne. Ciò che resta sono le ceneri. In questi autori è vivissimo il senso della Fine. Ma fine di che? Fine del Novecento, fine del post-moderno, fine dell’utopia dell’uscita dal Moderno, fine del Progresso, della credenza in un miglioramento economico indefinito della società, fine del progetto Italia. Fine dell’angoscia della Fine. Nella loro poesia non c’è un Dopo, c’è la percezione di una «pianura» che si annuncia, una superficie piatta che si prolunga in tutte le direzioni. Per questi autori mettere «la vita in versi» è un velleitario proposito da museo. Dopo il Novecento nel museo immaginario della poesia italiana si potrà parlare soltanto in termini di micologia. «La metafisica trapassa in micrologia» ha scritto un tempo Adorno. Errato: è tutto il mondo della media-sfera che trapassa in micrologia e autobiologia con ciò esaurendo il mandato mediatico di tradurre ogni linguaggio artistico nell’unica lingua comune che accomuna l’Occidente: la micrologia, compreso l’autoriferimento dell’arte a se stessa. È «l’età della Mutazione» che si annuncia, come ha scritto Berardinelli? Credo sia più esatto parlare di fine dell’ideologia del Nuovo, in quanto il Nuovo appare già invecchiato nel momento in cui si annuncia; l’avanguardia di inizio Novecento è diventata neoavanguardia e quest’ultima è diventata post-avanguardia. Dopo il Novecento non c’è un ritorno, né sembra possibile o verosimile alcuna partenza o ripartenza. Il bel proposito «c’è sempre qualcosa che verrà dopo il Dopo e anche dopo la fine del Dopo», è una credenza difficile da estirpare tanto questa idea sembra connaturata al modello culturale dell’Occidente; ma probabilmente è una idea errata. È altamente verosimile che Dopo il Novecento non ci sarà nulla di significativo, nulla dico che sia degno di menzione.
«Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari». Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile.
Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de «La Ronda»: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di «rivoluzione» è come parlare di ircocervi in scatola.
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