Franco
Tagliafierro, Storie del terrorismo made in Italy. Racconti, Il mio libro 2012
Sono 18 racconti. Il primo
fa da introduzione e, cominciando con uno svagato «Ti può capitalre, una sera
che sei senza compagnia, di uscire da un cinema dopo mezzanotte e di avviarti a
piedi verso casa, anziché prendere un taxi o aspettare l’ultimo tram» (p.9),
suggerisce la cifra che li accomuna: l’attrito, lo scarto, tra quotidianità
della vita dei comuni mortali e gli intrighi
impenetrabili e terrorizzanti ( è il caso di dirlo…) del Potere.
Gli altri trattano con
ironia, ammiccamenti e un tetragono punto di vista (di cui tra poco dirò…) il
«terrorismo made in Italy», presentando una variegata tipologia di casi e di
personaggi che hanno avuto a che fare con le stragi e la lotta armata
sviluppatasi in Italia negli anni Settanta.
Incontriamo: il giovane del
MSI, fidanzato di Elda, una ragazza cresciuta in ambienti cattolici veneti, che
viene messo alla prova dai camerati che dirigono le cellule clandestine e va a
mettere una bomba allo stand della fiera Campionaria di Milano; «un leader di
seconda linea del Movimento Studentesco romano» che finisce agente dei servizi
segreti ancor prima di laurearsi; una coppia di turisti italiani che a Granada
in Spagna danno una lezione degna di un western ad alcuni fascisti italiani
protetti dalle autorità, allora franchiste; il direttore di una Casa
Circondariale costretto a far evadere dei brigatisti rossi su ordine del
Ministro degli interni e dei servizi segreti; una professoressa avanti negli
anni che s’innamora di uno studente, un giovane contestatore marxista-leninista
proveniente come lei dal Sud, il quale alla fine risulta un terrorista e si
suicida, lasciando una lettera che testimonia il suo idealismo e la sua
delusione per i capi delle Brigate rosse; un ex sequestrato dalle Brigate rosse
che dovrebbe partecipare a un incontro col suo sequestratore organizzato dalla TV e rievoca i retroscena
del sequestro e il comportamento impiegatizio e niente affatto eroico dei suoi
sequestratori; un giovane, arrestato come presunto partecipante alla strage di
Bologna, che, anche se scagionato, viene
isolato e respinto dalla famiglia e dall’ambiente (suo padre si suicida per la
vergogna e la disperazione), e finisce spacciatore. E altri ancora.
Nel narrare Tagliafierro, si
appella (quarta di copertina) ad principio classico, mazoniano: «ogni racconto
è un “misto di storia e d’invenzione”». Insomma ci avverte: vedete che vi
trovate di fronte a dei racconti (a una fiction
si dice oggi) e anche a fatti veri”, ma non pretendete esclusivamente un documentazione o
un’argomentazione da storico. D’accordo. E cosa risulta alla fine dalla
composizione sempre problematica di queste due spinte che sappiamo alquanto
eterogenee e difficili da tenere in equilibrio?
Noi prendiamo atto che il
narratore non si è abbandonato ad una sua sfrenata fantasia soggettiva e che ha
voluto mantenere (non per caso) un aggancio agli avvenimenti storici reali.
Ed è qui che nascono alcuni
problemi.
Nel caso di questi racconti,
l’aggancio alla storia, a vicende “realmente accadute” impedisce ai lettori, che
hanno vissuto, sia pur da testimoni e con grado diverso di coinvolgimento
emotivo e intellettuale, le vicende del
cosiddetto (dico io, e prego i lettori di non pensare che il rifiuto di questo termine sia una semplice
provocazione, ma ha le sue particolari ragioni…) “terrorismo”, di trascurare anche il loro grado di veridicità o
almeno di coerenza rispetto all’idea che essi si son fatta di quegli eventi. Ma
anche i giovani, che le conoscono
comunque per sentito dire (e pare, da ricerche fatte, in modi alquanto distorti se molti di loro attribuiscono
la strage di Piazza Fontana alle Brigate rosse), potrebbero rivedere o
confermare il loro approssimativo punto
di vista.
Insomma, dei racconti che
non sono pura fiction vanno letti e
giudicati tenendo conto di questa loro “doppiezza” del genere. Non sono puro
divertissement, non danno solo “il piacere del testo”.
Qualcuno insiste, rischiando,
anche a chiedersi. Ma che cosa avvenne davvero in Italia negli anni Settanta?
Vediamo se questo narratore cosa ne pensa…
Dico questo perché, nel valutare e commentare
questi racconti (come, per fare un altro esempio, il recente film di Giordana, Romanzo di una strage, un tema non
lontano da questi trattati da Tagliafierro), si assiste ad una strano balletto (o
gioco degli specchi) tra “formalisti” e “contenutisti”. I primi sembrano guardare come attraverso
un cannocchiale rovesciato e minimizzano
le vicende storiche fino a renderle irrilevanti, lontanissime, e quindi
intellettualmente e politicamente asettiche, come se la strage di Piazza Fontana
e l’uccisione di Moro fossero per noi già digerite e trattabili, che so, come la guerra tra Roma e Cartagine o tra Greci e
Persiani. I secondi le vedono invece vicinissime
e ancora capaci di scatenare passioni
partigiane, proprio come ai tempi in cui avvennero e finiscono per trascurare
del tutto l’aspetto inventivo del racconto e trattare il narratore come se
fosse il propagandista di questa o quella ideologia o reclamare da lui quella “verità”,
che dovrebbero reclamare ai politici, alle autorità, ai responsabili di quei
fatti.
Ne ho avuto la riprova durante la presentazione del libro di
Tagliafierro alla Libreria popolare di Via
Tadino a Milano. Da una parte un intervento che elogiava il narratore per la capacità di rappresentazione viva dei
personaggi e, in particolare, di quelli femminili; e non voleva sentir parlare
di valutazione politica o storica o di ideologie o di strategie o di teorie del
complotto.
Dall’altra interventi (come
in parte anche il mio) che insistevano a inquadrare quelle vicende in quadri
morali o politici, valutando accettabilità o inaccettabilità della violenza
nella storia o dell’omicidio politico o il peso del quadro internazionale (scontro tra Usa e Urss, quest’ultima
da lì a poco avviata ad una imprevista implosione) o il valore della scelta del
«compromesso storico» da parte del PCI.
Questa dialettica o
contrasto forse irrisolvibile è inevitabile. Per la semplice ragione che non
c’è e forse non ci sarà mai su quei fatti tragici degli anni Settanta una
«memoria condivisa». (Come del resto non c’è stata e non c’è tuttora su
Fascismo e Resistenza antifascista).
Il contrasto si attenuerà con l’affievolirsi della memoria o l’oblio
della storia da parte delle nuove generazioni. Ma dobbiamo sapere che è un
fenomeno niente affatto “naturale”. Perché
la “leggenda metropolitana” che corre tra i giovani - che la strage di
Piazza Fontana sia stata compiuta dalle Brigate rosse - non è
certo innocente o spontanea o
casuale, ma orientata.
Come mai ai giovani è
arrivata questa visione dei fatti e non il risultato della ricerca storica, che
ha, infatti, portato valide ma purtroppo
poco note documentazioni sul fatto che quella strage fu «di Stato» (e implicò, oltre a formazioni
neofasciste, alti funzionari statali, servizi segreti italiani e Cia); e che fu
una delle ragioni o, se si vuole, uno dei “pretesti” per l’”innalzamento dello scontro” con i tentativi
di formazione del “partito armato” di matrice comunista contro i tentativi, in
parte reali in parte presunti, di colpi di Stato?
Aggiungo che quella stessa memoria non condivisa potrà
in un futuro non prevedibile riaccenderre passioni e scontri simbolici o reali
nelle lotte sociali e politiche venture, come accadde proprio negli anni a ridosso del ’68-’69 con la
Resistenza, oggetto di “revisione” e di scontro fra “tradizionalisti” (la
Resistenza come lotta di popolo contro il nazifascismo) e “innovatori” (“la
Resistenza è rossa e non democristiana”).
Per non bloccarci in una
contrapposizione sterile tra “formalisti” e “contenutisti”, io trovo più produttivo valutare questi
racconti di Tagliafierro su entrambi i
piani e valutare anche se sono coerenti
tra loro e se e cosa aggiungono di più all’arte del narrare o del pensare la
politica e la storia.
Anticipo subito la mia
opinione. Sul piano formale il libro di Tagliafierro è una satira spietata del “terrorismo”.
Sul piano del contenuto si è appoggiato a indagini storiche e giudiziarie che rafforzano
la tesi del complotto: la strategia della tensione è stata pensata e attuata
per impedire al PCI di andare al governo; e il terrorismo (di destra o di
sinistra) era manovrato da un’unica mente (si parlò negli anni Settanta persino di un fantomatico Grande Vecchio).
La volontà di satira contro
i “terroristi” e gli ingenui partecipanti ai “movimenti” (in particolare al
movimento degli studenti del ’68) punteggia con battute ironiche del narratore
tutti i racconti.
Ne I gambizzati troviamo espressioni come «sono presenti i giornalisti
azzoppati fino alla data odierna» (p.72), «Il protomartire della “campagna
contro la stampa» (p.73). Ne Il
sessantottino
il movimento degli studenti è presentato come
«una festa, una kermesse, una giostra da starci sopra finché gira
all’impazzata» (p.39). I “terroristi rossi” vengono descritti come degli
sprovveduti, dei «bambocci», che «amano evangelicamente il popolo dei poveri e
degli oppressi, e vorrebbero redimerlo da povertà e oppressione» e «si sentono piccoli padreterni» perché «rischiano la vita» (p. 66). Mai qualche
incertezza: si tratta forse di «giovani esistenze troncate
dall’idealismo? No, dalla stronzaggine. Perché non sapevano leggere le
istruzioni sull’uso degli esplosivi» (p. 66).
In genere Tagliafierro ne fa
delle caricature feroci, anche godibili (se si prescinde dalla valutazione
storico-politica), come nel caso della terrorista feticista e vanitosa, che
colleziona cappelli e ama cambiarne continuamente; e che, proprio per
recuperare quello volato via per il
vento, preme con qualche secondo di ritardo il pulsante della bomba a distanza e fallisce l’attentato
(p. 305).
Eppure tutto a m,e pare
troppo e spesso semplicisticamente caricaturato. I personaggi diventano delle macchiette come
in un film di Ridolini, si muovono secondo schemi prestabiliti. E il punto di
vista del narratore è sempre unilateralmente “contro i terroristi”. Non ne
coglie mai un qualche aspetto che rompa lo stereotipo. Dà sempre una visione
prosaica e antieroicista, di abbassamento, di desublimazione delle loro azioni
e dei loro (eventuali) pensieri.
Si ha perciò una sorta di meccanica e continua
iperbole della malvagità. E un conseguente rifiuto di fare i conti della complessità dello scontro. Tra Bene e Male o tra visioni politiche
contrapposte. Il Male sta sempre dalla parte del “terrorista” e i suoi comportamenti non vengono mai motivati da
qualche ragione che non sia disprezzabile. Il Bene poi è sempre connaturato
alla figura femminile.
Prendiamo, ad esempio, Il prescelto. L’attentatore è Stefano,
un giovane del MSI, messo alla prova dai camerati che dirigono le cellule
clandestine. Il dramma sorge quando la sua fidanzata Elda, una giovane
cresciuta in ambiente cattolico veneto, cerca in tutti modi di far fallire l’attentato
di cui è venuta a sapere, anche mentendo e affermando di essere incinta o
portandosi sul posto (lo stand della
fiera Campionaria di Milano), dove l’attentato dovrà avvenire. La vicenda si
conclude con la rottura del fidanzamento. Il punto di vista di Elda, la vera
eroina del racconto, è fatto proprio dal narratore, che ne condivide i valori (e
non casualmente dà spazio ai suoi monologhi interiori, p.29, ben più ampi di
quelli di Stefano). Nello scontro tra i princìpi politici (fedeltà di Stefano alla parola data come militante
politico) e i principi della famiglia, dell’amore e della non violenza di Elda, il narratore parteggia senza riserve
per i secondi. Non è obbligato a porsi per forza dal punto di vista del “mavagio”
o del “traviato”. Ma le argomentazioni dei personaggi a favore della loro
posizione appare meccanica ed elementare e ne risente il vogre del racconto.
Stefano motiva solo astrattamente la sua
scelta affermando: «Quando si è dentro un’organizzazione politica, o si
rispettano le regole e si eseguono le decisioni dei capi, oppure si passa per
vigliacchi. Io semplicemente, non mi sono tirato indietro. Per coerenza con ciò
che ho pensato e fatto finora» (p.28). Ed Elda gli controbatte attenendosi alla
morale comune e quotidiana: «Vigliacco è chi ammazza persone innocenti che non
possono difendersi. E poi che credi? Che non ti scopriranno? Che non finirai in
galera?» (p. 28). Il narratore mantenendo la presentazione del dramma a questo
livello elementare, pragmatico e immediato, evita ogni approfondimento problematico del contesto storico-politico di allora. La dimensione politica entra in quella
quotidiana, la sconvolge, ma resta inspiegata, irrazionale, censurata e
ingiudicata.
Quando la ragazza implora:
«- E a me non pensi?», Stefano non cerca di convincerla del valore della sua
scelta politica, non la esplicita, ma risponde seccamente: «Sì che ci penso, ma
la mia attività di partito non ti riguarda».(p. 28).
Ora su questo piano formale
c’è da chiedersi quanto Tagliafierro abbia sacrificato alla legge del genere
letterario in cui il suo lavoro si iscrive, che mi pare il noir satirico. Qui ci vorrebbe un lungo discorso, ma ritengo
che ben si adattino anche al suo libro
alcune critiche che un giovane
studioso, Gianlugi Simonetti, ha mosso ai
romanzieri contemporanei italiani che hanno affrontato il tema del terrorismo
anni Settanta:
Una volta immessa negli schemi del genere, l’energia di fatti tragici realmente accaduti rischia di stemperarsi nell’idea che tutto è fiction, che tutto è riducibile a racconto spettacolare, che tutto obbedisce a scansioni narrative precostituite – le quali per il loro stesso carattere romanzesco rischiano di suonare falsificanti. Il noir sociale insiste molto, ad esempio, sul tema del complotto, cui oppone un antagonismo astratto, depositario di valori morali; e spesso interpreta tutti gli anni di piombo attraverso questo schema. Ma quello del complotto risulta ormai, come è noto, un luogo classico dell”intrigo sensazionale” del feuilleton, e oggi anche dell’immaginario postmoderno, per non dire del senso comune.”
Una volta immessa negli schemi del genere, l’energia di fatti tragici realmente accaduti rischia di stemperarsi nell’idea che tutto è fiction, che tutto è riducibile a racconto spettacolare, che tutto obbedisce a scansioni narrative precostituite – le quali per il loro stesso carattere romanzesco rischiano di suonare falsificanti. Il noir sociale insiste molto, ad esempio, sul tema del complotto, cui oppone un antagonismo astratto, depositario di valori morali; e spesso interpreta tutti gli anni di piombo attraverso questo schema. Ma quello del complotto risulta ormai, come è noto, un luogo classico dell”intrigo sensazionale” del feuilleton, e oggi anche dell’immaginario postmoderno, per non dire del senso comune.”
A me pare che Tagliafierro abbia ceduto troppo
alla forma semplificatrice, che definirei popo fumettistica, nella resa del tema dei suoi
racconti.
Sul piano del contenuto, l’idea
che regge l’interpretazione delle vicende storiche degli anni Settanta è
senz’altro quella del complotto, che però finisce per confermare una inattaccabilità
e onnipotenza del Potere, che per quanto confermata dalle sconfitte storiche
dei movimenti di rivolta e dalla rarità delle vere rivoluzioni, che non si
inventano per volontà di grandi individui o gruppi, che a me pare inaccettabile.
Ne risulta perciò un quadro generale
apparentemente logico ma rigidissimo e che induce a schematismi. Ad es. nella visione che traspare da quanto
Tagliafierro mette in bocca ai personaggi (e che un po’ pensa anche lui, anche
se bisogna sempre evitare di identificare personaggi e autore!) da una parte
c’è il “popolo” o la “gente” che non può
che vivere nell’illusione:
«Purtroppo
gli operai arrabbiati contro il Capitale, contro i padroni, contro i dirigenti
e compagnia bella, credono che i terroristi rossi siano i loro vendicatori.
Credono che a forza di uccidere giudici e poliziotti riusciranno a rovesciare
questo Stato che protegge il Capitale, quindi a istaurare la giustizia e
l’eguaglianza. Come per incanto. Anche i giovani politicizzati lo credono.
Anche i piccolo borghesi a basso reddito lo credono. Anche quelli che sono semplicemente
scoglionati dell’andazzo democristiano, con o senza la maschera del bipartito o
del tripartito o del quadripartito, lo credono» (p. 74)
Dall’altra ci sono i
dirigenti, nel caso quelli del PCI, che capiscono e provvedono:
«En passant che delusione è stato il PCI
per gli americani! Che delusione è stato il suo capo Enrico Berlinguer. Una
volta avviato il terrorismo rosso dopo quello nero delle stragi, si aspettavano
che Berlinguer avrebbe cavalcato la
tigre rossa e si sarebbe buttato nella mischia. Così loro, gli americani intesi
come NATO, avrebbero avuto il pretesto per intervenire militarmente secondo i
piani predisposti fin dal dopoguerra e ristabilire l’ordine e la libertà.
Invece Berlinguer, dopo aver mirato a che cosa mirasse la strategia degli
americani, aveva scomunicato tutti gli iscritti del PCI simpatizzanti per la
lotta armata, ed era partito all’attacco contro la eversione rossa. In pratica
aveva dato il suo nobile sostegno ai governi della Democrazia Cristiana. Roba
da fantapolitica» (p.75).
Questa lettura, sia pur pop
e ironica della politica del compromesso storico, è certo coerente con la forma
satirica scelta dal narratore. Ma essa finisce davvero per semplificare fin
troppo la storia e impedire di scavare e non scandalizzarsi semplicemente
quando, com’è accaduto durante la discussione alla Libreria di Via Tadino, ho,
nell’intento di ripensare la storia degli anni Settanta col “senno di poi” (
siamo nel 2012!) e di non ripetere le interpretazioni di allora ( Brigate rosse= fascisti;
movimento “innocente” e lottarmatisti “cattivi”; democrazia minacciata dagli “opposti
estremismi”), ho fatto la domanda: ma oggi della crisi italiana che viviamo
sono più responsabili i fautori del compromesso storico o del lottarmatismo?
Perché credo, che siamo
arrivato in Italia a un punto che davvero va ripensata tutta la storia dal
dopoguerra ad oggi, uscendo dai facili schemi con cui ancora molti la vedono.
Sia pur attraverso il
travestimento dei personaggi, i punti salienti dell’analisi politica di
Tagliafierro a me paiono quelli del PCI degli anni Settanta e portano
inevitabilmente a:
- svalutare il ’68
studentesco, che viene ridotto a «una
festa, una kermesse, una giostra da starci sopra finché gira all’impazzata»
(pp. 39, 43, 45) o viene letto, alla Pasolini,
come falsamente di sinistra e volto in sostanza contro il PCI («il loro
sinistrismo è un fuoco di paglia», p. 42)
oppure mirante ad una semplice modernizzazione dei costumi (« Ora si
tratta di dare diritti a chi non ce li ha, di modernizzare i costumi, di aprire
le mentalità, mete che si raggiungeranno prima o poi, pp.45-46);
- a enfatizzare il ruolo
degli infiltrati: «Tu certo sai che dentro il Movimento, così come dentro i
gruppuscoli extraparlamentari, e purtroppo
come dentro il Picci, si sono infiltrati
poliziotti, carabinieri e agenti dei servizi segreti» (p. 49), (mentre
andrebbe capito che proprio la potenza di quel movimento aveva “costretto” il
Potere a ricorrere massicciamente agli infiltrati…);
- a sostenere che, sì,
esistono le ingiustizie sociali, che esse sono la molla dei comportamenti
politici di ribellione, ma che ogni ribellione inevitabilmente è destinata ad
essere vana e illusoria proprio perché il Potere tutto prevede e a tutto
provvede, è insomma un Leviatano intoccabile.
Concludo, dicendo che
Tagliafierro è un amico e proprio per questo le critiche che gli muovo, al di
là di quel che potrebbe sembrare,vogliono essere dialoganti e aperte a
possibili correzioni. E che mi aspetto un approfondimento della piccola comedié humaine che egli ha tentato con
questi racconti.
7 ottobre 2012
12 commenti:
Ennio Abate:
Beh, me lo faccio io un commento:
Hai toccato qualcosa che scotta e infastidisce poeti e non poeti. Ma non te l'avevano detto che sui blog di poesia certi temi, sia pur narrati, non tirano?
Ennio devo darti ragione?
:)
scherzo tanto per rompere il ghiaccio, che è poi quello in cui hanno congelato dall'alto affinché il basso si allontanasse dall'inferno dei misteri. Credo che in specifico "i poeti" come "i non poeti" dovrebbero provare profondissima attrazione per i misteri, ma forse hanno fatto in modo, quelli dell'alto, che pure i poeti ne avessero abbastanza addirittura di quelli millenari sulla vita o sulla morte o sulle cosmogonie e zone affini, tu figurati quanta disaffezione a quell' " istinto " verso indagini più terra terra quali la storia...Solo il pericolo " assoluto " dell'oblio, anche da te richiamato, dovrebbe far sgorgare damigiane di poesia, in ogni sua forma. Ma se i poteri economici culturali hanno proceduto alla "liberalizzazione" liberticida degli "istinti", sostituendoli con pseudo-istinti, anche la ricerca dell'homo poeticus nella sua completezza di mosaico è sradicata.
Non credo che occorra moltissimo per sviluppare il corredo naturale all'"investigazione", ma hanno distrutto anche quel poco che bastava a "fiutare" dalla cronaca, ciò che diventando "passato" , e dunque storia, lasciava tracce puzzolenti e nauseabonde rispetto agli odori ufficiali. Richiamrsi inoltre all'ironia, visto come è andata, è fuorviante, perché è andata così diversamente da come l'hanno raccontata, che solo i poeti, se tali vogliono essere chimati, ne avrebbero la capacità di denuncia, tuttalpiu affidandosi al genere grottesco.
Sul genere romanzo non ho letto questo libro, ma sul genere un altro, feroce, di Massimo Carlotto: arrivederci amore ciao..anche se parla di un tipo di terrorismo ( rosso), riassume esattamente anche per quello "nero" perché aveva ragione piena L.Sciascia: né con lo stato né con le br. Credo che nemmno lui si rendeva conto di cosa era il non stato al posto dello stato, tanto come ora del resto.Anche i poeti potrebbero impegnarsi un po' di più a disvelare su quale montagna di m....è nata la mitica repubblica democratica italiana e con quale montagna di strumenti ( neri e rossi, criminali e segreti) hanno dovuto portarla avanti.
Poi per carità i poeti possono fare come altri, trallallerò trallalà, oppure impegnarsi in modo encomiabile nella propria biografia,escludendo quella un po' più plurale, ma sotto questo lato da te richiamato rimarranno solo frammenti dei frammenti di un unico oblio. Oblio che, a chi ha determinato e continua a realizzare il tragico destino del nostro paese, rappresenta più che una vittoria, più che quella inziale, ma una lotteria sempre vincente per cui tenere sempre banco( e banca) nel tabellone truccato della storia.
ps
il film Romanzo di una Strage ( non è il solo) è una chiara operazione di cosmesi per un grande atto collettivo di pseudo riconsegna della storia.
----
ci sono vari film che considero invece fondamentali, oltre il film del romanzo di carlotto, mi vengono in mente di getto Piazza delle cinque lune ( non è un caso se è quasi introvabile) e poi Segreti di Stato, che anche se torna indietro rispetto al periodo in tema al tuo post e lettura, è fondamentale per capire il primo nodo da cui tutti gli altri successivi della storia, fra cui il periodo in cui per gestirla hanno preso al balzo certi movimenti eversivi tanto di destra, quanto di sinistra. I due "prodotti" servivano allo stesso fine, che è poi il fine sempre sempre sempre di chi è al potere: stabilizzare al centro con il classico d tutti i tempi -sistema "paura"- , poter "recitare" alla fine, un po' come per altro tipo di terrorismo ( vedi quello islamico e relativa consegna dei vari trofei, cadavere di bin laden compreso) che le mitiche istituzioni democratiche avevano superato anche questa minaccia ( esempio, uno dei tanti, omicidio di stato in assoluto piu significativo, quello di moro voluto anche per questo).
tutti coloro che anche dal tuo racconto e osservazioni sul libro di Tagliaferro, sono volati dentro questo "strumento" , sono solo stati utilizzati per muoverli come burrattini....già questo è oltre l'ironia e il grottesco.
un 'ultima cosa perchè ci sarebbe tanto da dire, e anche da scriverne poesie...ricordo a chi ci legge, poeta e non poeta, che si dovrebbero scrivere damigiane sugli strumenti di tortura utilizzati per "sconfiggere" gli ultimi burrattini.
Ci vorrebbe una nuova trilogia alla Novecento di Bertolucci, quel Bertolucci che si occupò anche del sessantotto con The Dreamers. Anche Bertolucci si addentrò nel personale, ma credo sia questo il compito degli umanisti, degli artisti. Le analisi logiche saranno conseguenti e chiunque potrà tranne di proprie, liberamente.
Il romanzo degli anni '70 non è mai stato scritto. Nel caso il Terrorismo occuperebbe lo spazio di un capitolo, ma leitmotiv potrebbe essere quello delle minoranze che parlano e agiscono in nome del popolo. Non sarebbe una stramberia perché questo accade anche oggi, su fronti diversi. E vien detta democrazia.
mayoor
... in mancanza di Dostoevskij... e se avessi un milione di euro che m'avanzano, per questo romanzo incaricherei Marquez o, perché no, Ken Follett. Carlotto no, troppo avvincente. Tagliafierro? Scherzo.
mayoor
Scherzi a parte :-) e refusi vari di burattini a parte, non credo ci sia nulla di avvincente nel "succhorror" della tortura molteplice, invisibile, bianca etc etc inflitta a una delle penisole che insieme ad altre, come ad altre isole, ha visto perdere non solo le ricchezze materiali e immateriali che aveva e poteva esprimere, ma per primo il racconto più importante sia a livello io, che a livello noi: da chi sono "nato"(e per quale aborto utile a raccontare figli... mai nati)...Il romanzo dovrebbe essere il più popolare possibile, giusto per dare un certo peso e capillarità di lettura, ma non stile i soliti volo moccia saviani, possibilmente non andrebbe affidato a penne estere, natra vota, anche se di valore, ma finalmente a nuovi pasolini, gramsci et simili, anche in loro stili meno conosciuti di "fiabe". L'incatesimo (stratagemmi compresi) restituirebbero, allo sviluppo del racconto,quel preciso clima di "tensione" (che peraltro è tuttora in vigore anche se attualmentetrasferito ad altri crimini e piazze--pazze affari, e per i quali sono passati ad uccidere in modo diverso,dal compimento della precedente fase A, terrorismo strictu sensu, all'avvio e realizzazione dell'attuale fase B, almeno per paesi come il nostro ed equiparabili al nostro)
Alll'interno di qusta comunità, vedo particoalrmente adatto allo sviluppo dei capitoli in questione, Fabio Villani sul piano letterario del genere romanzo storico, di radice manzoniana ma finalmente laica ...sul piano poetico in versi potrebbe nascere un intreccio di due generi, con poesie che hanno spiccata radice comune, latina, sudamericana (che ha vissuto Storia horror analoga alla nostra colonia, anche se di fattezza estrena marcatamente più violenta). Flavio potrebbe scriverlo a quattromani con qualcuno di voi che sicuramente c'è ( farei torto a chi escluderei, involontariamente, se facessi un nome o un altro escludendo tutti gli altri).
Flavio
Aldo Giobbio:
Intorno alle “storie” di Franco Tagliafierro
Sulle colonne di Moltinpoesia Ennio Abate ha pubblicato certe sue considerazioni sull’ultimo libro di Franco Tagliafierro, Storie del terrorismo, esprimendo opinioni – e anche qualche riserva – che del resto aveva anticipato nella presentazione del libro stesso, avvenuta a Milano il 2 ottobre scorso. Tralasciando i giudizi positivi sulla qualità letteraria del testo (che del resto ognuno può leggere direttamente nello scritto di Abate), le critiche toccano sostanzialmente due punti di merito. Il primo sarebbe una certa unilateralità nell’approccio di Tagliafierro. Il secondo è che la propensione dell’Autore a vedere ciò che avvenne come frutto di un complotto di servizi segreti o comunque di poteri più o meno occulti finisce col diventare una specie di assoluzione generale per chi si trovò ad agire (tanto erano tutti burattini, “strumenti ciechi d’occhiuta rapina”, potremmo dire con il poeta di Sant’Ambrogio). C’è del vero in tutto questo, però vorrei fare alcune osservazioni.
La prima nasce dallo stile peculiare dello scrittore, che, come si è già osservato in altri suoi lavori, si può lato sensu definire grottesco, o almeno incline a diverse sue componenti, un po’ sul tipo di certe opere di Heinrich Mann (Piccola città, Pippo Spano) o, se volete risalire più indietro, il Gil Blas di Santillana di Lesage. Questo approccio è necessariamente unilaterale. Per esempio, è probabile che il conte di Lerma non sia stato solo un trafficante di cariche pubbliche, dedito al peculato, ma tale doveva apparire a Gil Blas, quando era al suo servizio, perché solo questo lato della sua personalità era visibile dalla posizione che Gil Blas ricopriva, che era appunto quella di delegato a simili traffici. E tanto deve bastare. Il lettore chiede a Gil Blas di raccontare ciò che ha visto, non uno studio storico globale su quell’uomo di stato. Non per nulla il libro di Tagliafierro si intitola “storie” – e non storia – del terrorismo. È vero che le situazioni rappresentate sono viste quasi sempre dal punto di vista dell’interlocutore del terrorista, più che da quello del terrorista stesso, ma questo rientra nell’assunto che si tratta di “storie”, che riguardano persone in qualche modo coinvolte, e non di un saggio sul terrorismo, e alla fin fine un autore ha il diritto di scegliere i soggetti che a lui sembrano più interessanti. E poi, persino nel Nibelungenlied, il personaggio di Hagen, eroe tutto d’un pezzo della fedeltà germanica, non è quello del quale si parla di più.
In questo tipo di critica c’è una componente ideologica. Poiché i fascisti non ci piacciono comunque, non si sente un grande bisogno di approfondire le loro ragioni. I terroristi di sinistra sono invece visti ancora da alcuni come “compagni che hanno sbagliato” e quindi si pretenderebbe che uno scrittore attribuibile alla sinistra avesse per loro un po’ più d’attenzione. Qui, a mio parere, c’è un equivoco. Il tema del libro non sono i fini per i quali quelle persone hanno scelto di combattere, ma i mezzi (nella fattispecie il terrorismo) che esse hanno scelto ritenendoli coerenti con quei fini. Quindi la discussione sui massimi sistemi è fuori testo. Ci potrebbe rientrare, a maggior ragione, una disamina sulla coerenza tra fini e mezzi, ma l’Autore prende l’azione nella sua fase terminale, quando anche quella fase intermedia è stata dai suoi personaggi bene o male superata (non è I giusti di Camus).
[Continua]
Aldo Giobbio ( continua):
Questo non significa che non si tratti di questioni importanti, ma questa è un’opera letteraria il cui scopo non è di approfondire le motivazioni ideologiche e le giustificazioni ai comportamenti che da queste si possono eventualmente derivare, ma solo di rappresentare il dramma umano di persone che si sono trovate coinvolte in situazioni critiche, in linea di massima (come sembra di poter capire dalla loro caratterizzazione) senza nemmeno averci mai riflettuto molto in precedenza. Certo, non sono grandi pensatori, e perciò capisco benissimo che ad alcuni – o anche molti – possano non interessare. Non è stato certo per caso che gli autori della tragedia greca abbiano messo in scena soltanto i re. Ma in fondo anche gli altri, poveri diavoli, meritano un po’ d’attenzione. La vogliamo chiamare pietas?
Due parole sulla parte attribuita ai servizi segreti (si veda soprattutto l’ultima delle storie). Personalmente non credo alla visione complottistica della storia, nonostante essa abbia una lunga tradizione. Per esempio, una certa storiografia di destra francese è arrivata a sostenere che la Rivoluzione francese sia stata opera di agenti segreti inglesi (oltre che della Massoneria, che del resto era anch’essa un’invenzione britannica). Naturalmente non nego che certi governi – o i loro servizi più o meno deviati – possano aver avuto parte nell’eliminazione di certe persone o nell’organizzazione di certi disordini e cose del genere. Sono cose vecchie come il mondo. Quello che non credo è che attraverso manovre più o meno astute e a sfondo criminale si possano pilotare a lungo movimenti importanti, non perché scrupoli morali lo impediscono, ma perché il gioco delle variabili è di tale complessità e varietà che dopo le prime mosse sfugge al controllo. È la nota storia che il battito d’ali di una farfalla nel Canada possa provocare un uragano nei Tropici. In filosofia si chiama eterogenesi dei fini. Chi avrebbe detto che il terrorismo degli anni di piombo avrebbe in definitiva rafforzato il potere mentre appena qualche anno dopo la scoperta che un amministratore di un istituto di beneficenza faceva la cresta sulla spesa avrebbe portato in brevissimo tempo alla fine della cosiddetta Prima Repubblica? Nessun servizio segreto sarebbe stato capace di architettare e gestire un simile capolavoro. Però non si può nemmeno negare che avessero le mani in pasta dappertutto.
[continua 2]
Aldo Giobbio (continua):
Un’ultima riflessione. Già nell’incontro del 2 ottobre, Ennio aveva posto la domanda provocatoria se il cosiddetto compromesso storico (che di storico non aveva poi molto) non avesse in ultima analisi ucciso più italiani delle Brigate Rosse. Domanda affascinante. Personalmente mi ha fatto venire in mente un episodio di mezzo secolo fa, il 1961, quando un oppositore del regime di Salazar, Enrique Galvão, si impadronì a titolo dimostrativo di un transatlantico portoghese e da lì, sotto l’occhio della stampa di tutto il mondo, rese nota la sua denuncia delle malefatte del regime. Il regime salazarista, fra l’altro, benché fosse chiaramente una dittatura, usava addurre a proprio merito di non essere un regime sanguinario, e questo era forse vero, ma Galvão fece osservare che le condizioni di vita del popolo, indotte dalla politica economica del regime, avevano dato al Portogallo il record della tubercolosi polmonare, e che anche questo era omicidio. Anzi, genocidio, si potrebbe aggiungere. Così, a carico dei governi italiani che il Pci sosteneva, si potrebbe forse dire che alla tolleranza verso i comportamenti di aziende che non rispettavano le norme di sicurezza ambientale dentro e fuori della fabbrica si possono imputare parecchie migliaia di morti per intossicazioni varie, tumori etc. Non si regna impunemente, diceva Saint-Just. Certo, nemmeno disponendo della bilancia “esquisita et aurea” menzionata da Galileo è possibile calcolare la quota di responsabilità eventualmente attribuibile ad una delle singole parti, nei loro diversi ruoli. Per altro, se fosse vero che l’assassinio di Aldo Moro sia stato architettato allo scopo di evitare la partecipazione al potere del Pci, bisognerebbe osservare che quel gesto efferato avrebbe avuto proprio l’effetto contrario (a prescindere dal giudizio che ciascuno può dare a proposito di tale partecipazione). E allora su chi ricadono quei poveri morti? La mia opinione personale è che, specialmente in situazioni incerte (praticamente quasi tutte), ognuno ha l’obbligo morale di fare ciò che crede giusto. Come poi andrà a finire sul piano operativo dipende dalle interdipendenze. Non diamo sempre la colpa alla povera farfalla. (Aldo Giobbio)
[Fine]
Ennio Abate:
Caro Aldo,
permettimi solo alcune precisazioni:
1. Non mi è sfuggito lo stile grottesco adottato da Tagliafierro nel trattare il tema. Anzi ho parlato esplicitamente di satira («Sul piano formale il libro di Tagliafierro è una satira spietata del “terrorismo”»). Ammetto, dunque, che la satira abbia una sua unilateralità (ma non necessariamente e ci sono vari gradi anche nell’essere unilaterali). Né credo che la mia critica alla unilateralità del narratore io l’abbia motivata in modo ideologico, come se avessi preteso un trattamento particolare per i brigatisti rossi in quanto filiazione della sinistra. (Del PCI avevo una pessima idea già allora e sono oggi del tutto critico di certi valori della sinistra… qui il discorso sarebbe lungo e per ora lo salto). No, è la meccanicità eccessiva della satira di Franco che io ho messo in discussione («Eppure tutto a me pare troppo e spesso semplicisticamente caricaturato. I personaggi diventano delle macchiette come in un film di Ridolini, si muovono secondo schemi prestabiliti.»).
2. Ho anche scritto che non cercavo nelle storie di Tagliafierro la storia (al singolare) e neppure la storia che fanno gli storici. Ho concesso subito che un narratore non deve rispondere alle stesse regole che gli storici devono rispettare. Ho cercato solo di tener conto che in racconti intesi come “misto di storia e d’invenzione” si assiste a uno strano balletto tra “formalisti” e “contenutisti”; e che bisognerebbe una volta tanto tagliare la testa al toro e chiedere un rendiconto a questa ambivalente figura del narratore-storico, in modo che egli risponda sia del suo rigore inventivo sia di un “certo” (almeno…) rigore storico, sia pur non da professionista, non dovendo essere i racconti passati al setaccio dalla comunità degli storici. Detta in breve, la mia ipotesi è che maggior rigore formale e maggior rigore storico (ad. es una minore accoglienza da parte di Franco della teoria del complotto) avrebbero giovato a una rappresentazione più alta del «dramma umano di persone che si sono trovate coinvolte in situazioni critiche». (Vedi ad es. quanto ho scritto sui personaggi del primo racconto, Il prescelto. Non mi disturba che si tratti di personaggi comuni e non di grandi pensatori, semmai la rappresentazione stereotipata e rigida della gente comune. Tra l’altro il fatto stesso che abbiano vissuto drammi grossi non me li fa considerare più gente comune).
3. Mi pare di aver chiarito già nell’incontro del 2 ottobre che la mia valutazione politica del brigatismo rosso è negativa. Nessun discorso sui massimi sistemi. Se un progetto politico fallisce, non vado a valutare la coerenza tra fini e mezzi, constato il suo fallimento politico. E, non avendo nei confronti della violenza nella storia un atteggiamento di rifiuto assoluto, non mi metto a criticare i brigatisti rossi perché hanno usato lo strumento della violenza “inquinando” il fine (il comunismo), ma li critico perché il loro progetto politico è fallito; ed essi da politici non sono riusciti a tener conto della situazione reale e delle possibilità reali di incidere con quel progetto. E la stessa critica mi sento di fare alla politica del compromesso storico del PCI. In questo caso con l’aggravante che si trattava di un grande partito con una storia alle spalle niente da ridere e non di breve periodo come invece le BR.
[continua]
Ennio Abate (continua):
4. Sul ruolo dei servizi segreti credo che concordiamo. Si tratta di non minimizzare, ma neppure di enfatizzare. Io stesso ho detto che se il movimento non era così forte, non ci sarebbe stata l’esigenza di muovere tanti agenti e spie e non so quant’altro.
5. Tengo a precisare che la mia domanda provocatoria o affascinante («oggi della crisi italiana che viviamo sono più responsabili i fautori del compromesso storico o del lottarmatismo?») non riguardava tanto o solo l’aritmetica dei morti, ma comporta una valutazione politica. Non mi limito a pensare che - direttamente o indirettamente - di persone negli anni Settanta ne hanno uccisi più la DC o il compromesso storico che i lottarmatisti, ma che le possibilità di far politica e di sperare in cambiamenti più favorevoli per i ceti medio-bassi (per essere generici) sono state stracciate, secondo me, più dai primi che dai secondi, data la potenza politica e l’influenza sulla nazione di cui disponevano. Non credo neppure che l’assassinio di Moro sia stato architettato solo per evitare la partecipazione al potere del PCI. Il Pci allora già partecipava ad un ampia fetta di poteri reali sia pur senza il crisma dell’ufficialità. Sono più propenso ad indagare questa liquidazione di Moro nella cornice dei mutamenti internazionali che di lì a poco avrebbero portato all’implosione dell’Urss.
Ti ringrazio di questa tua riflessione. Fammi sapere se vuoi che la renda pubblica come commento sul blog sotto il post dedicato al libro di Tagliafierro. E anche se è il caso ( se non l’hai già fatto) di farla avere assieme a questa mia risposta a Franco.
Ciao
Ennio
[Fine]
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