Nell’ordine in cui mi stanno arrivando dopo la serata del 23
ottobre 2012 alla Palazzina Liberty di Milano, pubblico i riassunti degli interventi che ho sollecitato ai partecipanti
all’incontro. Questi sono i primi. Gli altri li aggiungerò mano mano nei prossimi giorni. Nella logica di scambio reciproco che è del Laboratorio Moltinpoesia, pubblicherò anche il mio, che non ho potuto fare per mancanza di tempo, e tutti quelli di amici e amiche lontani o assenti quella sera, che volessero rispondere brevemente alla (problematica) domanda che apriva la serata. Le considerazioni aggiuntive o
conclusive verranno dopo, tenendo così conto anche degli auspicabili commenti dei lettori del blog. [E.A.]
Interventi finora pervenuti: Pezzaglia, Chiarei, Mannacio, Colnaghi, Mayoor Tosi, Accorsi, Moramarco, Provenzale, Villa, Abate.
Interventi finora pervenuti: Pezzaglia, Chiarei, Mannacio, Colnaghi, Mayoor Tosi, Accorsi, Moramarco, Provenzale, Villa, Abate.
Paolo Pezzaglia ( 9 ott. 2012)
Cari amici, mando queste
mie considerazioni sul tema: mi accorgo – rileggendo - che sono abbastanza
banali e che ne ho già parlato in precedenza. Data l’ora tarda, per
qualcuno di quelli che vanno a lavorare magari può essere considerata “primo
mattino” ve le mando lo stesso.
Anch’io potrei
dire: non ho avuto maestri e che la poesia era innata già dentro di me e mi
animava nel bene e nel male, dapprima in modo poco cosciente. Le delusioni
della vita sono l’acqua e l’energia reattive che la fanno spuntare dal terreno
umano. Io sto con la Bibbia: all’Adamo di fango.
Un primo maestro il
professore delle medie mi umiliò rimandandomi in italiano perché pretendeva che
imparassi a memoria, ricordo, un brano di Omero: io privo di memoria in modo
patologica fin d’allora ero stato respinto addirittura proprio dal primo grande
poeta che recitava il suo poema a memoria.
Lui il B. che era un po’
fascista pensava così di aiutarmi punendomi per quel solo particolare, invece
mi rovinò facendomi deviare sul per me orribile liceo scientifico dove mi
accorsi di essere totalmente impermeabile agli strani concetti di matematica e
scienze. Ho odiato massimamente la chimica. Per forza: ero la ormai spenta
reincarnazione di un alchimista...
Ho dei dubbi anche su
quel “mi rovinò”: tutto serve anche le delusioni e le musate servono da lezione.
A 16 anni cominciai a
scrivere poesia: autonomamente? Potrei dire di sì, non credo di avere mai
imitato coscientemente nessun poeta, ma l’entusiasmo delle mie insegnate di
francese per la poesia mi fece conoscere i francesi, Ronsard e Villon, poi
Baudelaire, di qui partì la mia costante connessione con i classici maestri
della poesia. La mia scarsa attitudine a ricordare i versi (e quindi l’anima)
dei grandi poeti mi ha forse protetto da una dipendenza che forse avrebbe
soffocato quello che poteva nascere dentro di me, anche se assai faticosamente.
Catalano, maestro che ho avuto in comune con Ennio, anche se in due circostanze
diverse (io al liceo, lui all’università) mi ha dato coraggio. Lui mi mandò da
Bitta Rosa e mi fece partecipare al premio Lerici Epa dovei fui finalista a
fianco di Bevilacqua, la Merini e molti altri che poi fecero carriera.
Poi un amico americano
mi mandò a salutare Montale e lì - penso che qualche amico abbia letto la mia
poesia su “Il Malincanto” - e come ho scritto lì, ebbi un’ottima occasione ma
la sprecai non leggendogli la mia poesia “Gradini” che pure avevo in tasca. Non
era quindi che fossi morbosamente alla caccia di un maestro. Tenevo di più
all’ispirazione che sentivo dentro di me e che ho sempre tenuto come segreta,
difesa come si fa con un moccolo di candela tenuto nel cavo della mano.
Poi finalmente il
fulmine di Garcia Lorca e via via altri moderni. Ho spostato la mia attenzione più
che su gli altri poeti, per la mia scarsa attitudine alla critica – non ci
provo nessun gusto – su quei testi che mi indicassero il know-how da loro
suggeriti: sono molti ma dovrei sforzare la memoria che non ho, oppure
ricercare sugli scaffali. Non è il momento. Pur non ricordandoli confesso che
questi testi mi sono stati preziosi per poi intervenire nel mio laboratorio
personale, imparando soprattutto l’arte del togliere (via soprattutto i luoghi
comuni e tutto quello che ritenevo non necessario) e della meditazione critica
sulle mie prime stesure, per arrivare a quella forma – spesso arricchendole di
nuovi elementi derivanti dalla seconda ispirazione – spesso più efficace della
prima, che per istinto mi suonava armonica e significativa. Le parole scelte
come si fa con le pietre o i vetri di un mosaico. La mia poesia è quindi il
risultato di un lavoro interno che quindi non posso dire venga dalla imitazione
frequentazione di altri poeti, anche se una certa osmosi senz’altro c’è stata.
Nessuno è un’isola... a proposito mi riviene in mente quella parabola buddista
del maestro ch ti attende per attraversare un fiume con la sua barca, lo
sfrutti magari conversando piacevolmente nella traversata, gli paghi il
passaggio, poi lo saluti e lo lasci sul suo fiume a traghettare altri.
Queste sono le mie
semplici idee sull’argomento. E questo per chiedere a chi se lo ricorda meglio
di fare una lista di maestri al di là di quelli che ricordo io Dylan Thomas
Pound, ecc. ecc. e, scusa Ennio, Fortini.
Un caro saluto a tutti
Luca Chiarei (22 ott.
2012)
Carissimi,
mi spiace molto non
essere presente al prossimo incontro. Il tema l'ho trovato stimolante e per
questo vorrei dare il mio contributo. Innanzitutto per dire che non trovo mal
posta o meritevole d'ironia il tema di condividere i nostri maestri, senza
virgolette. A parte la considerazione che può essere un modo per conoscerci
meglio nei percorsi personali che ci hanno portato a leggere/scrivere poesia, e
forse fare alla luce di ciò che emergerà anche un po' di chiarezza nella vita
interna del laboratorio, penso che nessuno possa ritenere di non
avere maestri, dei punti di riferimento da seguire o da evitare per
andare nella direzione opposta.
Per quanto mi riguarda
per me il punto di svolta che mi ha fatto avvicinare alla poesia è stato, in
tempi relativamente recenti, il libro di Giorgio Caproni "Res
Amissa" . Per me è stato una sorta di testo rivelazione, direi il
testo che per forma e contenuto mi ha avvicinato nuovamente, dopo la
scuola, alla poesia e che continua a tutt'oggi a farmi da guida. Nei versi
di Caproni anche in quelli più liberi si coglie sempre una struttura
formale nitida, pulita, che non si rivela mai essere fine a se stessa. Da essi
emerge il senso di uno scrivere connesso alla propria esperienza di vita senza
scadere mai nell'individualismo poetico o in prospettive teleologiche di
improbabili salvezze.
Altra figura per me
importante, completamente diverso da Caproni, è il poeta americano Gary
Snyder. Gary snyder può essere definito un poeta della relazione tra
la natura umana e la natura più profonda, selvatica che ci ha generato. In
questo senso mi pare importante: non la poesia incentrata sulla natura come
oggetto estetico da guardare e ammirare, ma ente, nel senso letterale, nel
quale calarsi e fondare un diverso paradigma culturale. Se un punto di
incontro esiste tra questi due autori io credo che sia proprio in questo
calarsi in se stessi, essere "minatore" come diceva Caproni, per
andare al fondo della comune esperienza umana, universale, nella quale ognuno
può riconoscersi.
Allego [sotto*] alcuni
testi.
Vorrei infine dire
qualcosa sulle proposte che sono circolate di riorganizzare le
attività del laboratorio dividendo i momenti "critici" dai momenti
"poetici". Non sono d'accordo, penso che lo specifico di questo
laboratorio dovrebbe essere proprio quello di tenere insieme questi due momenti
e non di separarli, cosa che nuocerebbe ad entrambi. I modi e le forme sono da
creare insieme, non saprei quali sono le formule migliori, ma certamente questa
è la direzione da seguire per un percorso di crescita collettiva. Si può anche
essere maestri l'uno dell'altro se in un laboratorio si accetta di essere messi
in discussione, che altri evidenzino i nostri limiti.
*
GIORGIO CAPRONI
Res amissa
Non ne trovo traccia.
…
Venne da me apposta
(di questo sono certo)
Per farmene dono
…
Non ne trovo più traccia.
…
Rivedo nell’abbandono
del giorno l’esile faccia
biancoflautata…
la manica
in trina…
La grazia,
così dolce e alle manica
nel porgere…
…
…
Un vento,
d’urto – un aria
quasi silicea agghiaccia
ora la stanza…
(E’ lama
Di coltello?
Tormento
Oltre il vetro ed il
legno
- serrato- dell’imposta?)
…
…
Non ne scorgo più segno
Più traccia
…
…
Chiedo
alla morgana…
Rivedo
Esile l’esile faccia
Flauto scomparsa…
Schiude
- remota – l’albeggiante
bocca,
ma non parla.
(non può
- niente può – dar
risposta.)
…
…
Non spero più di
trovarla.
…
L’ho troppo gelosamente
(irrecuparabilmente)
riposta.
Versicoli quasi ecologici
Non uccidete il mare
La libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del
lamantino.
Il galagone, ilpino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per
profitto vile
fulmina un pesce, un
fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce
l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più
vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a esser
bella,
scomparso l’uomo, la
terra”.
Giorgio Mannacio (24 ott. 2012)
Ennio ha giustamente distinto
secondo diverse modalità e tipologia il nostro (di noi poeti di oggi) rapporto
con altri poeti ed ha proposto la esemplificazione Maestri, Suggeritori,
Compagni di vita. Ciascuno ha risposto a proprio modo ma sembra che tutti – con
qualche sfumatura – abbiano ritenuto improponibile il richiamo alla categoria
del Maestro.
Anch’io sono tra costoro. Maestro è
nozione difficile ed ambigua che può alludere tanto a colui che ci apre la
porta dell’esperienza poetica quanto a colui che ci conduce attraverso di essa
in virtù – nel primo caso come nell’altro – di una posizione di eccellenza.
Nella stragrande maggioranza dei
casi , e nel mio caso , la porta della poesia mi è stata spalancata da
esperienze familiari ( il contatto con mio padre, finissimo lettore ) e, mi
pare, non attraverso sommi poeti ( Rio Bo di Palazzeschi mi suggerì qualcosa e
poi proseguii per conto mio ). Conosciuti i Sommi ( Omero, Virgilio, Dante, Leopardi
) mi sono accostato a loro con reverenza e il definirli Maestri mi sembrava una
diminuzione per incomparabilità tra Loro e me.
Suggeritore ? Non vi è mai – o
almeno ciò è avvenuto per me – un solo modello cui ci ispira. Volenti o nolenti
è la Tradizione , come complesso interattivo di esperienze poetiche , che ci
penetra e suggerisce contenuti e soluzioni formali complesse e diversificate.
Solo i critici poco attenti o neghittosi si affrettano a inserire un poeta
nuovo in una categoria passata anziché fare il cammino inverso e cioè di
indagarne l’identità e, poi, se necessario, stabilirne le differenze. In fondo
il vocabolario è limitato e si troverà sempre che la mia Luna assomiglia a
quella di Leopardi e il mio Maestrale a
quello di Montale.
L’osservazione di T. S. Eliot
secondo cui i ( mediocri ) poeti imitano e i grandi copiano svela- nella
formulazione paradossale – una verità profonda. La copia integrale di versi
antichi diventa nei grandi “ materiale “ della tradizione e dunque
continuità/innovazione; l’imitazione rivela, invece, una approssimazione che è
segno di debolezza.
Mi rifugio – quindi – nella
categoria del Poeta amico e compagno, quello che si legge e rilegge
periodicamente e con piacere; si ricorda ,più o meno tutto a memoria, ci viene
riproposto dall’esperienza della vita quotidiana oggi e, magari, anche domani (
di qui la necessità di rileggerlo periodicamente ).
Per quanto mi riguarda ho un
Compagno di strada , un amico in G. G. Belli. I suoi sonetti che ho letto sin
da ragazzo rappresentano una esperienza umana indimenticabile. Quasi nessuno,
oso dire, ha saputo dare alla condition humaine ( la situazione
alienante della Morte, la miseria, la prevaricazione dei ricchi, la corruzione
della Chiesa, la violenza, la dolente umanità degli umili e chi più ne ha più
ne metta ) una rappresentazione di così altissimo valore estetico.
Leggere per credere I Sonetti di G.G Belli nell’edizione UE
Feltrinelli 1965, con splendida
introduzione/commento di Muscetta.
Poiché non sono per la prevalenza
assoluta della sostanza sulla forma ci tengo a precisare – un po’ polemicamente
– che molti dei poeti sperimentali di ieri e di oggi potrebbero imparare dal
Belli come si possano caricare parole usuali di sensi molteplici e allusivi.
Dunque anche una lezione critica.
Luisa Colnaghi (24 ott. 2012)
Devo fare una distinzione fra
Maestri e Poeti di Riferimento nel percorso della ricerca poetica.
I poeti di riferimento possono
essere molti. Possono essere i poeti
incontrati fra i libri studiati a scuola oppure leggendo libri di poesia. Alcuni poesie suscitano emozioni vivissime, sollecitando l'interesse per la scrittura,
molte volte per imitazione. Da questi poeti si ricevono sempre delle idee e
delle ispirazioni. Con il passar del tempo gli amori cambiano e lasciano spazio
a nuovi interessi per poesie di nuovi
autori.
I poeti che mi hanno dato emozioni e ispirazioni sono tanti, ma quelli
che hanno coinvolto la mia volontà di scrivere, non per emulazione, ma
certamente influenzando la mia scrittura sono pochi:
Eugenio Montale per le poesie
“Ossi di Seppia”, in particolare le poesie che riguardano il mare e la
Liguria. Ho trovato questa poesia un po'
ermetica ma molto lirica.
Dino Campana- “Canti Orfici” ermetismo ma con
straordinarie invenzioni di situazioni e descrizioni di luoghi. Mi è piaciuta la libertà della sua scrittura.
Emily Dickinson - “Poesie” Una poetessa rimasta
nell'ombra per lungo tempo. Nessuno ha voluto mai pubblicare le sue poesie. È vissuta
sempre isolata nella casa paterna ad Amherst, Massachusset. Si vestiva di
bianco e si comportava come una suora. Silvio Raffo nel suo saggio “Io sono
nessuno” ha detto di lei “una mistica”.
Per lungo tempo ho studiato la
poesia della Dickinson, mi sono ispirata alle sue poesie sulla natura, una
natura non descritta solo dal punto di vista estetico, ma con riferimento alla
vita, alle persone che con la natura, nel bene e nel male, sono sempre in contatto. Mi ha molto interessato la semplicità della
sua scrittura, una semplicità che ha profondità di espressione e parla di
sentimenti, di amore e della morte. Tutte cose che coinvolgono la vita
dell'uomo.
W. Szymborska “La gioia di scrivere”. Quando ho letto questa poesia mi è sembrato
straordinario il modo semplice e ironico di parlare delle cose, dei problemi di
tutti i giorni e per esprimere pensieri e concetti su problemi civili, sociali
e politici.
I versi a volte semplici, corti un
poco ermetici, a volte lunghi e prosastici, quasi elementari, ma se si
approfondisce si trova il pensiero di un grande poeta che con parole
semplici esprime un pensiero condiviso
sui problemi della vita e umanitari.
Per Maestro intendo un poeta con il
quale si possa parlare, avere idee e
insegnamento. Non è facile, i poeti non sono mai generosi, sono poco
loquaci e non disponibili a parlare sinceramente di poesia specialmente della
propria. Sono in genere vanitosi e si aspettano
apprezzamenti. Tuttavia si può essere fortunati.
Lucio Mayoor Tosi (25 ott. 2012)
Mi sono diplomato all'Accademia di
belle arti, perciò la mia cultura classica è fatta di capitelli, statue e
frontoni, più che di tragedie. Ho
imparato molto dalle poesie del '900. Il '900 è iniziato con il Futurismo che
ha dato un taglio netto alle tradizioni ed ha avviato il percorso che da Marinetti,
passando da McLuhan, arriva a Bill Gates. Ho amato quindi le poesie che
parlavano del mio tempo: da ragazzo Bob Dylan e i poeti della Beat Generation,
poi le poesie dello sperimentalismo anni '70. A ritroso Marinetti, Dino Campana
e Vincenzo Calogero (che trovai per caso in un chiosco di libri usati). Non
m'interessava tanto che le poesie fossero esteticamente interessanti, Calogero
fu un'eccezione, m'importava il coinvolgimento esistenziale, il ritmo,
l'intensità. Mi opponevo dalla noia che sentivo leggendo i poeti italiani
legati alla tradizione, quelle poesie a me sembravano soltanto ben scritte e
non mi bastava.
A vent'anni ho incontrato una
poetessa, Chandravimala Candiani, che aveva iniziato presto un percorso che
capivo, sentivo, andava oltre la ritmica del dire alla quale ero affezionato.
Chandra, scavando creativamente nel linguaggio approfondiva la conoscenza di sé.
La nostra frequentazione e l'amicizia è durata una decina d'anni. Abbiamo fatto
un percorso insieme, in qualche modo mi è stata anche maestra, ma non ho mai
scritto alla maniera di qualcun altro. Ancora oggi non posso dire di avere un
poeta di riferimento, un maestro. Quand'ero ancora studente ebbi modo di
frequentare Roberto Sanesi ( teneva un corso di letteratura inglese
all'Accademia). Era un ottimo insegnante e mi piacquero le sue poesie. Come Marinetti aveva uno sguardo europeo,
come Amelia Rosselli del resto, e come gli altri poeti che ascoltavo nei
reading di quegli anni ( Corrado Costa e i poeti del Gruppo '63). Sanesi non
era ben visto da tutti, anche se aveva pubblicato con Feltrinelli e Guanda, era
e si comportava da poeta isolato. Non era nella tradizione e forse dava
fastidio ai potentati di allora, Raboni su tutti. L'averlo frequentato, certe
sere, nell'immancabile compagnia dei suoi giovani discepoli, mi divertì e
m'aiutò a togliermi dalla marginalità della periferia milanese dov'ero
cresciuto. Ho conosciuto presto anche Giancarlo Majorino e Franco Fortini,
apprezzai molto il loro modo di comportarsi con i giovani poeti.
Poi un maestro vero l'ho incontrato,
un maestro di vita e di meditazione, ma è un'altra storia. Quella noia
giovanile non se n'è andata, è solo scesa di qualche gradino nella scala dei
miei valori. Ho rivalutato Montale, Quasimodo, riesco a leggere poeti come
Caproni, Pagliarani, Giudici, Penna, Sereni … e questa
estate ho pianto leggendo i Canti di
Leopardi.
Alberto Accorsi (25 ott. 2012)
Un
discorso sui maestri ne implicherebbe anche uno sugli allievi, essendo logicamente due facce della stessa medaglia,figure
complementari, opposti logici.
Subito appare ardua la strada per assurgere allo
status di allievo. Chi infatti è oppure
sarebbe disposto a fare veramente da
maestro? Questo implicherebbe
l’esistenza di una comunità il cui
modello più ortodosso
sarebbe scuola.
Possiamo a questo proposito
accennare alla funzione che la poesia
potrebbe avere nella scuola e viceversa cosa potrebbe fare questa per educare
alla poesia.
Pier Paolo Pasolini proponeva una funzione atta a stimolare l”inventio”
(dopo aver assimilato l’”inventum”).
Oggi
non mi risulta si vada oltre una lettura critica delle opere poetiche degli autori classici. A questo proposito,
così come per la storia, i programmi scolastici si svolgono secondo un ordine
inverso, dovrebbero partire dal livello dei discenti, dal loro mondo (Descartes:
dal più noto…) e invece partono da ciò che è loro più estraneo.
Per comprendere e apprezzare un
autore antico come per esempio Leopardi, occorre veramente una grande cultura.
Perché? Perché occorre in primo luogo superare l’ostacolo di una lingua
estranea e a tratti incomprensibile rispetto al parlato odierno.
Se il perno della poesia è la parola,
essa dovrebbe attrarre come un sirena, non suscitare reazioni di smarrimento o
peggio di rifiuto o dileggio. La parola poetica, polisemica, dovrebbe esserlo
all’interno di un gruppo di significati
decodificabili dal fruitore in sintonia con le intenzioni dell’autore o
per lo meno con il suo mondo.
A me pare di essere stato catturato
da alcune immagini contenute in alcune poesie.
Come fu, come successe che da
ragazzino mi arrivò tra le mani il fantasmagorico Dylan Thomas non saprei
raccontarlo.
Quasi sicuramente invece mi catturò l’immagine finale
del Bateau Ivre
di Arthur Rimbaud, quella del bambino che gioca solitario con una
barchetta in una pozzanghera.
Da adolescente mi innamorai di
Cesare Pavese, forse per quei quadri in
cui compaiono uomini soli in attesa disperata di una compagna, uomini soli in una piazza dechirichiana come in Lavorare stanca.
Ultimo venne Charles Bukowski il postino, l’operaio poeta.
Dunque immagini costruite attraverso parole comprensibili,
letture fatte in traduzione in un
italiano medio e moderno, l’ unico da me fruibile. E in queste immagini a volte
mi immersi come se fossero state inquadrature di un film. Se il fine è l’immagine emblematica,
la parola deve innanzitutto comunicare,
rivestire una funzione ancillare, a costo di essere solo limitatamente
espressiva.
In effetti se dovessi rintracciare
un filo conduttore all’evolversi (un
evolversi statico in fondo,un ossimoro) dei miei innamoramenti poetici, forse
non potrei pensare ad altro che ad un racconto di immagini intessute di una
assai comune malinconia.
Anna Maria Moramarco (25 ott. 2012)
Non ho avuto né ho maestri. La mia
“vena poetica”si è manifestata naturalmente nella prima giovinezza per
radicarsi con più continuità negli ultimi anni. La mia formazione culturale
classica mi ha fornito gli strumenti per conoscere vari poeti, fra i quali
Leopardi, che ho prediletto fra tutti per una sorta di comunanza del sentire la
vita, ed Ungaretti, sommo nella sintesi dell’essenzialità. Oggi leggo con
piacere e partecipazione Vivian Lamarque. Un posto a parte ha per me la
poesia/preghiera di S. Francesco d’Assisi, per un percorso spirituale che ultimamente
sto approfondendo.
Ogni modo di comunicare poesia mi va
bene, il come, lo stile, non è per me una discriminante; l’importante è che la
parola si faccia “veicolo”, mezzo di trasmissione del messaggio poetico, che
per me non attiene alla sfera intellettiva, ma al cuore. Nel leggere ad amici le mie poesie, ho verificato
che la poesia, quando è capace di evocare sentimenti condivisi, comuni,
raggiunge la sua essenza, realizza la sua vocazione comunicativa.
Dopo aver riletto, a distanza di
tempo dalla redazione, alcune mie poesie ho scoperto che anch’io posso essere
“maestro”, ed allo stesso modo, rileggendo alcune poesie degli amici di
Moltinpoesia mi sono resa conto che, per il contenuto ed il messaggio
universale, più possono essere, attraverso lo scritto, “maestri”.
Beppe Provenzale (26 ott. 2012)
Il tema dei 'maestri' è sbagliato.
I maestri presuppongono allievi e il rapporto non è mai stato chiarito
e approfondito, forse perché non necessario.
Maestro è chi insegna, allievo chi impara. Oggi è così? Tra il bianco e il
nero vi sono milioni di colori ed è riduttivo ho già scritto sbagliato parlare
di maestri.
Pensare addirittura ad una lista!
'Una lista di maestri' sembra un tema 'per casa', da svolgere aspettando il
giudizio del Sig. Professore che - con le sue letture e la corsa al
programma da finire - ha già pronti setacci di tutte le dimensioni e colori.
Naturalmente i più nuovi e aggiornati, ma a scadenza.
Per farli scadere ci sono i demolitori che almeno una volta ogni dieci anni
cambiano ottica ed etichette, promuovono o bocciano questo e quello. Annoiano
anche profondamente con tonnellate di parole. Alla fine dopo dieci volte dieci
anni si scopre che cento anni fa la poesia era una cosa che... completate a
piacere.
Ognuno di noi nei suoi percorsi personali si è soffermato su uno un
altro autore, addirittura approfondendone la conoscenza e ponendosi come
'vaso vuoto' da colmare con parole altrui. Esistono Autori e autori, ma
quelli che sono sempre validi sono coloro che hanno toccato il permanente segno
dell'universalità dell'Uomo. Coloro che hanno trovato il glifo della
propria eternità e non hanno inseguito mode e modi, etichette, definizioni
storiche o ideologie.
La Nobel polacca credo è stata premiata per la sua 'seconda'
produzione poetica e non per la prima scritta sotto stipendio statale pre-Muro
di Berlino.
Augusto Villa (26 ott. 2012)
Non ho
avuto la fortuna di avere maestri in poesia.
Ho avuto,
come già detto da altri partecipanti al laboratorio, poeti che hanno fatto da
riferimento e sicuramente influenzato il mio modo di scrivere.
Penso che
la lettura di questo o quel poeta sia un poco come sostare davanti a certi
stand gastronomici. I loro profumi impregnano i nostri vestiti, i nostri
capelli.
Nel caso
della poesia, ad essere impregnata è la nostra anima.
Il primo
poeta che mi ha fatto apprezzare la poesia è stato Ungaretti, così fulmineo,
allergico ai fronzoli che secondo me altro non fanno che appesantire il testo
diluendone l’intensità.
Foscolo,
Montale e Luciano Erba sono i poeti che in un modo o nell’altro, m’hanno dato
quel qualcosa in più rispetto ad altri.
Alda Merini
mi ha incantato per l’intensa sua liricità, scritta col cuore e che arriva al
cuore. (al mio sicuramente). Le sue poesie hanno un “considerevole e
particolare peso specifico”
Ho letto
anche altri autori che sicuramente mi hanno lasciato il segno ma essendo anch’io
colpito dalla “sindrome Pezzaglia”…fatico a ricordarne sia i nomi che i titoli
delle opere.
La cosa mi
succede anche con i dischi (amo la musica e non poco) ma ormai sono rassegnato
e mi accetto così.
Ennio Abate (26 ott. 2012)
Si può
avere la fortuna di avere un maestro (in poesia, come in altra disciplina o
“nella vita”), ma si può anche sceglierselo. O, in casi estremi, farsi maestri
di se stessi.
Avere o
scegliersi un maestro significa avere (o scegliersi) un’autorità (e una
tradizione, e un passato), a cui - chiariamolo bene dati i tempi “liberisti” e
“nuovisti” in cui viviamo - non si tratta di inchinarsi, obbedire, allinearsi
come dei cagnolini.
Un maestro
è, semmai, un’autorità da interrogare. Per raddoppiare (possibilmente)
l’acutezza del nostro sguardo sul mondo. Oppure, semplicemente, per avere
un altro punto di vista da tener presente al momento di fare inevitabili scelte.
Messa in
questi termini specifici la questione della lista dei maestri, aggiungo la mia
testimonianza.
Posso
dividere la mia vita in due parti:
- una
giovanile, in cui questo problema (di avere o scegliersi un maestro) non si
poneva o rimaneva sullo sfondo. Allora era piuttosto in primo piano un altro
problema: come accaparrarsi “esperienze”, tra le quali la lettura aveva
un peso rilevante. E, senza maestri, la praticai con la voracità e l’ansia di
chi cercava di leggere il più possibile tutto quello che entrava nel raggio
(invero limitato e provinciale allora) del desiderabile;
- una, che
potrei chiamare della “maturità” (e ha coinciso con la sconfitta dei moti
politici partiti dal ’68 a cui ho partecipato), in cui un maestro me lo
sono voluto e scelto. Preciso: al di là del riconoscimento da parte
sua di questa mia scelta. E si è trattato di Franco Fortini, della cui
opera (più che la sua persona, incrociata come ho spiegato in «Un filo tra
Milano e Cologno Monzese: Fortini e gli intellettuali periferici» (http://www.backupoli.altervista.org/article.php3?id_article=404&var_recherche=un+filo+tra+milano) negli
ultimi suoi anni di vita e, tutto sommato, marginalmente) mi sono servito a
partire dal 1977 come bussola per orientare una mia individuale verifica
dei poteri dei singoli scrittori o critici e delle comunità o aggregazioni
letterarie e politiche, con cui sono venuto man mano in contatto. Credo con
sufficiente libertà; e non senza attriti, delimitazioni e persino “deviazioni”
dalle posizioni di Fortini, che ho sempre vissuto, non a caso, come un «maestro
a distanza» (nel senso sia di distante da me per età, cultura, condizione
sociale e sia da tenere a distanza per non farsi schiacciare dalla sua
personalità).
Di
maestri in senso classico, dunque, come penso sia accaduto per tutti i
“moltinpoesia”) neppure io posso dire di averne avuti. Se ne trovavano in altre
epoche. Ed oggi forse solo in alcuni circuiti riservati.
Si potrebbe
allora parlare, nel mio caso, di un “surrogato di maestro”? Può darsi. E a me
pare inevitabile che sia andata così. Perché - e qui posso fare anche un
discorso generazionale - noi (e intendo quelli tra i 50 e i 70 anni) siamo
stati in genere “prodotti” della scuola di massa; e, dunque, di fatto
tagliati fuori da un rapporto maestro-discepolo vero e proprio, classico, che
aveva ed ha i suoi rituali, le sue ferree regole, delle condizioni anche
materiali e di affinità di ceto sociale per poter avvenire.
Abbiamo per
lo più incontrato episodicamente qualcuno dei maestri di altri (nostri
coetanei o più giovani di noi). Oppure li abbiamo incontrati sui libri
scolastici o su riviste e libri. E li abbiamo scelti come “punti di
riferimento” mediante una scelta a volte del tutto segreta e soggettiva.
In assenza, cioè, di quel contesto materiale e psichico che rende
davvero vivo un rapporto maestro-discepolo e fa “rivivere” una Tradizione.
Il contesto
in cui noi abbiamo fatto questi incontri - dal vivo o “in spirito” - con i maestri
di altri era ormai tutto un altro.
La
Tradizione (italiana nel nostro caso) era già declinante o erosa o parzialmente
accessibile a noi che venivamo dalla piccola o piccolissima borghesia. E, di
conseguenza, non possiam dire (o almeno io non mi sento di dirlo per me) di
avere una Tradizione, di aver “preso possesso” di una Tradizione (nazionale).
Al massimo
potrei dire mi hanno permesso di conoscerla, di visitarla di corsa (quasi come
avviene per una visita a un museo del pubblico di massa).
Non
possono - ammettiamolo - costituire Tradizione gli spezzoni di testi o di
“autori di riferimento”, che abbiamo incontrato casualmente nelle nostre
frenetiche ricerche di “piccolo borghesi” consumatori di cultura
selezionata e impostaci dal mercato editoriale.
Anche
perché, se ci pensiamo bene, i Maestri e la Tradizione c’erano davvero,
quando esisteva una comunità “forte” (lasciamo stare se fosse cosa
buona o cattiva), quando esistevano le “patrie lettere”.
Quella
comunità condivideva al suo interno un canone istituzionalizzato, capiva e
usava un medesimo linguaggio, s’intendeva tra i suoi membri, gerarchicamente
ordinati. E quel canone veniva accostato e assorbito quasi
naturalmente da quanti (borghesi o piccolo borghesi) ad essa appartenevano di
fatto (per condizioni sociali e materiali) o per aspirazione.
C’è ancora
memoria (non solo in chi ha fatto il liceo, credo) della triade Carducci,
Pascoli, D’Annunzio. Ci veniva presentata come canonica ancora nel secondo
dopoguerra. Come se fosse incrollabile e assodata “gloria nazionale”
dell’Italia letteraria.
Era un
canone quello, da cui non allontanarsi e da non oltrepassare, pena censura e
riprovazioni (per cui le prime cose dei futuristi o di Montale a me toccò
arraffarle fuori dalla scuola, quasi in clandestinità).
Solo dopo
Croce, la cui influenza in Italia durò fino agli anni Sessanta del Novecento,
come ha ricordato Emanuele Zinato nel suo «Le idee e le forme». La critica
letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni», tutto diventò più mosso e
caotico.
Specie -
non lo si dimentichi - per l’intervento “esterno” dell’ industria culturale,
che ci ha inondato di tanti e svariati autori da rendere appunto oziosa o
indecidibile la questione dei Maestri e della Tradizione almeno per il 98% di
quanti si sono occupati da allora in poi di letteratura.
Riassumendo.
Se rivedo, da vecchio, il mio percorso formativo (contorto, spezzettato
e interrotto più di quello di altri), mi vedo intento, nel
periodo giovanile, a spiccare grandi salti come la volpe di Esopo
per assaggiare (a scuola o con letture individuali e occasionali)
un po’ d’uva (sia della Tradizione Italiana sia di altre Tradizioni: la
francese e limitatamente l’anglosassone, la tedesca e la russa); e, dalla fine
degli anni Cinquanta in poi, impelagato in una sorta di convulso gioco
dei quattro cantoni per “aggiornarmi” inseguendo le mosse e gli
spostamenti degli esponenti delle maggiori e concorrenziali tradizioni
del moderno ( storicista, marxista, strutturalista, neoavanguardista,
psicanalitica), senza mai riuscire a trovare un posto in cui sedermi e
dal quale autodefinirmi in un gruppo o una tendenza.
Posso anche
aggiungere che, solo conclusa (dolorosamente) l’esperienza di militanza
politica e quindi alla fine degli anni Settanta, ho conosciuto da vicino
scrittori o critici autorevoli (Majorino, Fortini, Neri, Ranchetti, Briosi,
Luperini, Cataldi, ecc.). Ma mai il mio soggettivo desiderio di averli
come “maestri” o collaboratori ad una impresa comune si è realizzato. E vedo
questa impossibilità come un segno dei tempi mutati e di una insuperabilità
(politica) della gerarchia tra intellettuali accademici e intellettuale massa,
ribadita dopo le illusioni sessantottine di superamento.
Per ultimo.
Mi viene da chiedere: cosa ha fatto la volpe d’Esopo dopo che non riuscì a
cogliere l’uva della Tradizione?
E
vedo due risposte possibili: - quella di quanti, più o meno consapevolmente,
hanno risposto alla crisi in modo drastico: basta con la Tradizione, via con il
Nuovo; - quella di altri (tra cui mi metto) che non hanno voluto rinunciare
ancora a saltare per assaggiare l’uva della Tradizione, pur sapendo
che, dalla condizione di intellettuali di massa è una continua scommessa.
12 commenti:
Ho avuto pessimi maestri. È stata una buona scuola.
Elsa Morante ci lascia nello stesso anno in cui ci lascia Italo Calvino, era il 1985. Due anni dopo se ne va Primo Levi. Poi, ci lasciano Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Franco Fortini, Anna Maria Ortese, più tardi a Bobbio e alcuni grandi poeti come Amelia Rosselli, Giovanni Giudici,Helle Busacca, Angelo Maria Ripellino. Dieci anni prima di Elsa e di Calvino erano morti Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini. È scomparsa una grande generazione. Quelli venuti dopo, a confronto, sembrano dei pigmei, si vive tutti nella superficialità della situazione italiana fatta di questioni di potere e di beghe condominiali. Per quanto riguarda la poesia italiana delle generazioni venute dopo quella dei grandi, si tratta di cose di secondaria importanza, che possiamo archiviare con tranquillità.
Laura Canciani
...beati i tempi in cui non avremo più bisogno di maestri, in cui andando a passeggio per villa Borghese puoi incontrare il filosofo e discutere con lui dei problemi che tu ritieni importanti, ma su un piano di parità, tra interlocutori che stanno alla pari, tra cittadini.
Beati i tempi in cui non ci saranno più allievi, né Scuole né Accademie, né Parlamenti dove si parlamenta sulla differenza tra Maestri e allievi.
Beati i tempi in cui non ci saranno né poeti né lettori di poesie...
Beati i tempi in cui un semplice calzolaio puotrà andare a fare il Presidente del Consiglio (e viceversa)...
Beati i tempi in cui non ci saranno più angeli né diavoli, Beati i tempi in cui tra il Papa dell'Urbe e il calzolaio non ci saranno più differenze...
Beati i tempi in cui...
Luciana Sanguigni
No, un momento...Un semplice Presidente del Consiglio potrà andare a fare il Calzolaio. Emy
Grande Emy! mayoor
Maestro è anche Ennio: segue, ascolta, parla, incoraggia, bacchetta (e viene bacchettato), uno ad uno i poeti dei Molti. Bravissimo.
mayoor
Vedo in giro replicanti di Magrelli e De Angelis a profusione , non so se individuati come "maestri"; certamente ispiratori di una misura,di un "respiro" ben precisi , riconoscibili .
Stesso discorso per le poetesse , stregate dalla Plath e dalla Sexton, quando non dalla Rosselli . Sparito anche Achille Serrao credo che di "grandi" maestri non ci sia rimasto più nessuno .
Aspettiamo quindi con ansia che gli uffici stampa delle grandi (?) case editrici pubblichino i nuovi Maestri , meglio ancora se sponsorizzati da Comunione e Liberazione .
leopoldo attolico -
Quello che si dice ora sulla mancanza di eredi e di grandi maestri, lo si dice sempre della propria contemporaneità perché manca la prospettiva storica necessaria; inoltre, è proprio dalla critica e dal distaccoo rispetto al proprio contemporaneo che nascono coloro i quali tra 50 anni saranno ritenui Maestri.
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Sono Maria, anziana lettrice, siciliana e girovaga. Ho conosciuto i maggiori poeti italiani. Ho trovato Giudici mediocre e avaro, un impiegato, ho trovato Raboni uomo di puro potere, Fortini vanitoso e pieno di rancori, Spaziani ottocentesca, Zanzotto cervellotico. E invece sono stata conquistata dall'insegnamento di Milo De Angelis - drammatico e autentico sempre, a volte geniale - ma anche da Alessandro Ceni a Firenze - solitario e impetuoso, grande visionario- e da Antonella Anedda a Roma, la migliore poetessa, italiana, a mio parere, ben più della confusa e sopravvalutata Rosselli. Questi sono per me tre poeti assoluti e ben superiori ai suddetti della precedente generazione. Mi è capitato insomma di trovare tra i più giovani di allora i veri maestri. Li rngrazio pubblicamente, se mai mi leggeranno!
Maria
Sarei venuta volentieri giovedì scorso all'incontro sui maestri, ma non abito più a Milano. Volevo parlare - e lo faccio ora - di un maestro per me fondamentale: Milo de Angelis. L'ho incontrato alla fine degli anni settanta alle riunioni di "Niebo" ed è stato un incontro che mi ha davvero cambiata. Ho imparato cosa significa leggere una poesia - verso per verso, parola per parola - e soprattutto ho capito cosa significa dedicare una vita alla poesia. Avrei tante cose da dire, ma mi limito a esprimere la mia riconoscenza!
Stefania Baldini
Non esistono certezze sui valori letterari ma esistono prove sul valore umano, sull’apertura intellettuale, sull’impegno civile, sugli approfondimenti estetici, ecc., di uno scrittore. I maestri sono primariamente uomini tutto d’un pezzo.
Sono d’accordo con Linguaglossa: tanti piccoli e finti maestri.
E sono d’accordo con D’Errico: nessun vero maestro è ammesso ad essere ‘profeta’ in patria e tra i contemporanei.
Roberto Bertoldo
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