Pubblico il saggio di Marcella Corsi che esplicita i temi presenti nella sua poesia già pubblicata autonomamente qui in un confronto con un Fortini da lei indagato secondo l'ottica dell'ecologia letteraria. [E.A.]
Prove per un
approccio ecocritico ai versi di Fortini:
Una obbedienza
Non di rado scorrendo
versi di Fortini ero stata colpita dalla rilevante presenza in essi del mondo
animale e di quello vegetale[1].
Ho voluto rileggere quei testi alla luce dell'ottica proposta dall'ecologia
letteraria. Forse solo un modo per riproporre versi che mi avevano colpito.
Sicuramente un tentativo di far intravedere un modo diverso di avvicinarsi ad
un'opera già indagata con approcci differenti.
In estrema sintesi
l'ecologia letteraria è un metodo che si situa tra ermeneutica e attivismo, uno
strumento con cui l'etica ambientale si esercita criticamente sui prodotti
letterari, proponendo un'idea di cultura come strategia di sopravvivenza,
motivata da precise esigenze di rifondazione culturale, in continuo esercizio
di creatività. Sul versante storico˗ermeneutico si tratta di un approccio volto ad acquisire consapevolezza dei
valori ecologici – in senso affermativo o negativo – di cui un'opera, e un
autore attraverso le sue opere, si fa portavoce. Da un punto di vista etico˗pedagogico essa vede nel
testo letterario, e più in generale nell'opera d'arte, anche uno strumento di
alfabetizzazione ambientale volto ad orientare positivamente il modo con cui
gli umani si rapportano al mondo non umano[2].
Rimango per ora
nel cerchio ristretto delle poesie raccolte nell'80 sotto il titolo di Una obbedienza, affrontando i testi per
quello che, anche loro malgrado, sembrano dire e cercando di liberarmi dai
condizionamenti che gli scritti di critica e di passione politica potrebbero
esercitare.
Un'ora esiste conosciuta a
molti
nera e rada. Che nella campagna
le bestiole abbandonano la
cerca,
lenta è ogni persona, gli edifici sono chiusi.
Dico della notte di luglio se è tutta muta.
Hanno ripreso a tremare nella loro tana sparuta
le famiglie dei ricci, vittime sotto le stelle
di raggi ultraterreni o feroci veleni,
cieche alle alte cose che a noi paiono belle.
O rive smorte, incanti grigi, ire disseccate.
Capovolto il capo nei sonni ostinati
la generazione dei dormienti precipitando
sente che mai potrà destarsi.
(1975-'77)
Leggendo Una obbedienza, prezioso libretto a cura
di Giorgio Devoto che ripropone 18 poesie del periodo tra il '69 e il '79
prefate da Andrea Zanzotto[3],
alcuni testi colpiscono per l'attenzione partecipe, quasi affettuosa, portata
ai piccoli animali della campagna e per la precisione delle citazioni arboree.
In questo Primo dei Cinque recitativi iniziali, entro l'irriducibile pedagogismo di
taglio etico˗apocalittico
che spesso connota i versi del nostro, s'affacciano bestiole che a sera
terminano la loro ricerca di cibo e materiali utili alla riproduzione della
vita e si ricoverano nelle tane grandi appena quanto basta (ma l'aggettivo
scelto richiama anche la paura che li fa tremare).
Esse sono ‹‹cieche
alle alte cose che a noi paiono belle›› e vittime dell'azione umana
sull'ambiente naturale (a questo mi sembra rimandino i ‹‹raggi ultreterreni›› e
i ‹‹feroci veleni››. Si badi a come l'autore, utilizzando il verbo parere,
lasci aperta la possibilità – la suggerisca quasi – che quel che a noi sembra
bello poi bello in realtà possa non essere. Per quanto affiancata all'immagine
della cecità animale, questa messa in dubbio della percezione umana del reale
mi sembra significativa.
Se quel noi avesse
un riferimento più 'stretto', non all'umanità nel complesso ma agli uomini che
sono in condizione di poter pensare al bello, allora quelle bestiole e quei
ricci rimanderebbero allegoricamente ai molti umani che altro non possono che
lavorare per riprodurre le condizioni della loro esistenza in vita (si
capirebbe allora perché già alla prima lettura quegli animali avessero,
conferito loro dal poeta, odore d'umana famiglia).
L'ipotesi pare
confermata dai versi seguenti, dove natura, mondo culturale e sfera della
bellezza in particolare, ed infine il proprio personale sguardo sulla realtà si
presentano contraddittori o, come spesso in Fortini, in compresenza di contrari
(‹‹rive smorte, incanti grigi, ire disseccate››). E soprattutto pare, negli
ultimi tre versi, che la generazione consapevole della propria incapacità di
destarsi anche in avvenire sia senza dubbio quella degli umani, anch'essi, in
modo diverso da quello degli animali, ostinatamente dormienti.
E' però qui
rilevabile, mi sembra, la percezione di una stretta interrelazione tra natura,
animali e uomini, una compresenza che implica reciproci condizionamenti: non
solo, come espresso nei versi, dall'azione umana al mondo vegetale e animale ma
anche implicitamente all'inverso, dalla natura nel suo complesso sull'uomo, la
sua vita, le sue convinzioni.
Incontriamo uno
sguardo attento e partecipe sugli animali anche nel Quinto recitativo[4], in Il
nido[5],
in La nostra Regione[6].
Perfino in Two-Step, dove non ce lo
aspetteremmo. Invece ecco rospi e altre bestiole che stupefatti vedono
atterrare aerei, e abbài di cani da guardia e alla fine animali che…
contemplano le stelle[7].
Nel Terzo recitativo (e ricordiamo che i
Cinque recitativi[8]
sono nel libretto in posizione preminente, iniziale) colpiscono i due versi in
cui al ‹‹paese delle volpi parlanti›› viene accostata ‹‹l'impossibilità di
capire definitiva››, questa degli umani, giacché pochi versi più sopra ‹‹lo
spazio tra le persone del gruppo›› era diventato ‹‹come una pelliccia››[9].
Nel Quarto, che in prima persona plurale
afferma la necessità di non sfuggire alle responsabilità sociali e soprattutto
alla ricerca della verità, non passano inosservate un paio di domande e una
finale osservazione: ‹‹E non guardate dove le stelle si riproducono? Non
volete/ nemmeno osservare le piccole persone/ che stridono sotto le nostre
scarpe?/ Come l'agonizzante diventa un sasso lo sapete››.
Vi sono coinvolti
stelle, sassi, insetti e umani agonizzanti, in una compresenza tragicamente
interrelata, in una condivisione di condizione che tende significativamente al
meticciato. Le stelle si riproducono come umani ed animali, sotto le scarpe non
insetti stridono ma ‹‹piccole persone››, e l'umano agonizzante diventa sasso.
E' la possibilità della metamorfosi che s'intravede nella mescolanza. E nella
commistione la centralità umana sembra essere messa (finalmente) in
discussione. Certo il poeta si rammarica che possa accadere il 'diventar sasso'
di un uomo ma prende atto della 'verità' che questa ammissione contiene. Il
valore dell'umano può dunque non prevalere sul resto del mondo.
Un'obiezione: e se
quelle piccole persone che stridono sotto le scarpe non fossero minuscoli
viventi animali ma umani indifesi e oppressi? E' probabile che entrambi i
significati siano presenti nei versi. Ma, qualora (cosa che non credo) si
dovesse scegliere una sola tra le due interpretazioni, è improbabile che si
possa escludere quella animale. Credo di poterlo dedurre dalla citazione con
cui la poesia inizia: ‹‹Perché alla fine che cos'è/ tutto il genere umano a
paragone/ della natura e della universalità delle cose?››.
Un cenno merita,
rilevabile nei versi, la precisione nel nominare le essenze arboree, che dice
almeno di frequentazioni, di attenzione e competenza nello specifico. Non si
incontrano alberi in Una obbedienza ma noci e aceri, pini e agrifogli, il
gattice, il cipresso, le ginestre, l'elce, il leccio. E anche, o meglio,
‹‹lecci tenaci›› (in La nostra regione[10]),
‹‹larici spirituali›› (in New England[11]).
E poi ‹‹prati acuti/ dove passa uno che non capisce›› (Per un sarcofago[12]).
Così, mentre gli alberi – come d'altronde qui il mare – nella percezione del
poeta acquistano vicinanza e quasi si umanizzano, viene il dubbio che l'acutezza
di questi prati non possa essere solo questione di punte d'erbe o di steli
spinosi…
Quando fosse
allegoria (come con tutta probabilità è), sarebbe comunque significativa la
scelta dell'immagine naturale. Di ‹‹intelletto delle erbe›› Franco Fortini
parlerà esplicitamente nella prima delle poesie della prima sezione di Composita solvantur, e più avanti (in La notte oppresse…) definirà la
profondità dei fiumi come ‹‹il luogo dell'intelligenza››.
Così
l'affermazione finale (‹‹quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di
molti››) non sembra contenere paura o tristezza ma, entro un'idea di
compresenza nel reale, recare conforto e
pacificazione[13].
Torna in mente
l'augurio finale del Terzo recitativo
(‹‹Il mancato piacere definitivo/ si mutasse in acquisita intelligenza./ E
l'acquisita intelligenza si mutasse/ in lode della creazione.››) e la già
citata citazione posta all'inizio del Quarto. Il fatto che quest'ultima sia,
per esplicita dichiarazione dell'autore[14],
una citazione immaginaria la rende, credo, ancora più significativa.
Concluderei questa
breve prova di lettura ecocritica preliminare con i versi iniziali e finali del
Quinto recitativo, che per primi
scorrendo il volumetto mi hanno affascinato.
La luce del gran
nuvolo stupefacente
e gli agrifogli e
i ghirigori! Ormai
anche i visitatori
più assorti avranno compreso
quanto la sera è
inevitabile.
L'uccello piangeva
dalla vetta del gattice
i rapiti dal nido
inconsolabile
[…]
visitatori
pellegrini ospiti!
Infilate le
maglie, perdete le ricche ginestre,
scendete verso le
auto, non vogliate sostare
dove lo stagno
detto delle libellule
è discarica assoluta,
non chiedete
il doloroso
segreto
del serpe mozzo,
dell'opaca salamandra.
Furono, sì, sono,
saranno; ma fiera la luna
è rapidissima
lassù e possiamo, addio,
tra elce e leccio,
tra cipresso e leccio
senza suono
toglierci, senza pena
dalla complessiva
immagine.
Nessun tentativo
di rifugiarsi nella natura, nessun riposo dello sguardo. Stupore ammirato di
fronte alla magnificenza e all'inevitabilità dei fenomeni naturali,
consapevolezza delle contraddizioni che anche qui si mostrano più pesantemente
umane che animali (pesantissimo quell'aggettivo assoluta attribuito alla
discarica che lo stagno delle libellule è diventato, mentre lo sguardo accoglie
partecipe il dolore inconsolabile dell'uccello privato dei piccoli), una
residua possibilità di comprensione per chi sia disposto a guardare.
E nell'invito ai
visitatori mi colpisce il verbo perdere riferito alle ginestre, ricche – credo
– solo dei molti fiori e tuttavia chiaramente preziose.
Erbe e animali
nella loro partecipe, sapiente, preziosa (apparente) immobilità rimangono
fermi, a sera, dove sono. Ci sono, ora come nel passato, ora come nel futuro.
Nei secoli dei secoli, verrebbe di dire se non avessimo ora una consapevolezza
diversa della fragilità degli ecosistemi. Al di la della differente percezione delle
fragilità naturali propiziata da trent'anni di distanza tra i versi di Fortini
e l'oggi, questo rimanere di piante,
acque e animali dolenti promana forza, induce fascinazione. Si collega
fermamente alla già sottolineata ‹‹tenacia dei lecci››, alla ‹‹spiritualità dei larici››.
Ma visitatori,
ospiti o pellegrini possono approfittare del movimento rapidissimo della luna
per muovere anch'essi, e perdere, non sostare, non chiedere.
‹‹Possiamo –
ricompare il noi ad infiltrare (o forse ad attestare) l'autore tra i visitatori
– senza suono toglierci, senza pena dalla complessiva immagine››. Non sarà
così, non più, a mio parere, in Composita
solvantur[15].
E' probabile che
una lettura intertestuale porterebbe anche qui ulteriori suggestioni. E certo
sarebbe assai utile seguire alcuni temi della poesia del nostro autore (quello
del sonno per esempio) presenti anche nei versi sopra riportati. A me però ora
preme sottolineare una diversa possibilità di leggere il Fortini poeta, quella
operata alla luce di un importante strumento interpretativo e 'formativo' quale
mi sembra sia l'ecologia letteraria. E insieme segnalare l'interesse che i
versi di Fortini possono avere per chi tale strumento padroneggi meglio di me.
Con tutta evidenza
sarebbe opportuno concentrare l'attenzione su Composita solvantur, giacché, come notò Roversi[16],
‹‹è quando si fa giusta attesa "la vergogna di vecchiezza" che il
pubblico fustigatore, il sapiente senza livrea arriva a disporre dopo la lunga
macerazione e per intero della propria parola poetica››.
Forte stimolo in
questa direzione deriva da poesie come Qualcuno
è fermo…, Le piccole piante…, Sono nella stanza, Stanotte…, Saba, Compiendo settantacinque anni,
Sopra questa pietra…, Ruotare su se
stessi…, La notte oppresse…[17].
Noto qui parenteticamente che sette di nove delle poesie di Composita solvantur che mi sono sembrate
le più significative ai fini di una lettura ecocritica sono state titolate con
lo stesso criterio adottato per gli Otto
recitativi, cioè non hanno titolo (condizione riservata in Una obbedienza ai soli Cinque recitativi).
Ritornando ai
testi di Una obbedienza vorrei
riprendere qui, per concludere, alcune
delle deduzioni man mano emerse dalla lettura dei versi ed esplicitarne
brevemente la rilevanza in termini ecocritici.
Significativa è
sembrata nel Primo recitativo la
messa in dubbio del valore assoluto della percezione del reale operata dal noi
fortiniano, confermata dalla connotazione positiva attribuita a piante e
animali riscontrabile in diverse delle poesie riportate.
Ancora di più
forse rileva quella condivisione di condizione quasi meticcia di astri, sassi,
animali e umani notata nel Quarto
recitativo (ma, a ben vedere, anche nel Primo),
una compresenza interrelata che ha in sé la possibilità della metamorfosi e
sembra mettere in crisi la centralità dell'umano entro il complesso della
realtà dei viventi: il modello antropocentrico avviato a decostruzione.
Potevamo
aspettarcelo fin dall'inizio che lo sguardo poetico di Fortini transitasse
senza intoppi dall'attenzione convinta ai problemi dei deboli entro la società
ad una considerazione partecipe anche della condizione dei deboli entro il
mondo naturale. L'approccio etico ve lo predisponeva. La messa in discussione
dell'io lirico per un noi civile da declinare nei più ampi modi non poteva non
estendersi anche al complesso dei (nei più vari modi[18])
viventi entro l'ambiente naturale.
Proprio però la
messa in discussione, qui forse solo iniziale, della centralità dell'uomo entro
le differenze presenti nell'universo dei viventi è insieme premessa
indispensabile e sintomo importante di un atteggiamento ecologico, che fa cioè
prevalere un discorso sull'oikos (casa, ambiente nel quale si vive) rispetto ad
uno centrato sull'ego. D'altronde la consapevolezza delle contraddizioni
dell'azione umana sulla natura è più d'una volta espressa nei versi citati in
questo scritto. Ma qui mi sembra ci sia qualcosa che va oltre una generica
denuncia dei guasti provocati dalla presunzione degli umani.
Quello che qui
avvertiamo in modo non del tutto implicito in Fortini è un ‹‹umanesimo non
antropocentrico››[19],
capace di immaginare (o comunque cercare) strategie di sopravvivenza culturale in praesentia naturae: senza trascurare
il legame stretto tra cultura degli uomini e sapienza della natura.
Anche la virile,
quasi serena consapevolezza del finire ‹‹cibo e bevanda di molti›› assume una
diversa sfumatura entro questa cornice. C'è, certo, ad aiutare la fiducia che
solo quanto di sé si consuma debba finire a quel modo, ma c'è pure quella
particolare sdrammatizzazione della morte che si guadagna spazio nella mente di
chi si pone in una prospettiva ecologica.
Sentire la cultura
come un percorso etico finalizzato alla creazione di un patrimonio comune,
inclusivo, in continua autorevisone. Essere 'fedeli' ai figli più, od oltre,
che ai padri. In alcune caratteristiche dell'umanesimo non antropocentrico che
connota la cultura ambientale come strategia di sopravvivenza mi sembrano
riconoscibili intenzioni e pratiche del poeta e dell'uomo Fortini. Riletta in
quest'ottica, la sua poesia trova nuove direzioni di attualità.
[1] Sembra d'altronde che erba e
animale siano tra i lemmi a più alta occorrenza in Fortini (Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini Gadda
Pagliarani Vittorini Zanzotto, Roma, Quodlibet, 2007, p.105.
[2] Serenella
Jovino, Ecologia letteraria. Una
strategia di sopravvivenza, Milano, Edizioni Ambiente, 2006. L'ecolologia
letteraria può definirsi anche ecocritica (dall' inglese ecocriticism).
[3] Franco Fortini, Una obbedienza, Genova, S. Marco dei
Giustiniani, 2005 (I ed. 1980). In copertina il sottotitolo indica 18 poesie
1969–1997, ma è evidentemente un refuso per 1969–1979 (Fortini essendo morto
nel '94). Lo conferma anche la lettera dell'autore al curatore riportata a
premessa della pubblicazione, la cui prima edizione è appunto del 1980.
[4] Del Quinto recitativo si tratta più avanti nel testo.
[5] A metà marzo fra il il muro e il tetto/ certi uccelli di becco ostile
giallo/ nervosi miseri fanno di stecchi un nido./ Quando è notte molto alta e
non dormo/ so che stanno dietro il muro i loro nati./ […] Dentro il nido
ignoranti esserini/ alla frenesia della madre tremeranno./ Griderà la fame e
tutto insegnerà la madre./ Nell'aria inorridita voleranno/ e non sapranno nulla
di più mai./ […]. La chiamata in luce che degli uccelli viene fatta in Il nido mi sembra davvero si configuri
come una trasposizione allegorica di umane contraddizioni.
[6] Lo spazio della nostra
regione basta alle volpi/ che sono scarse e si cibano di piccoli uccelli/ dove
al sole la discarica esprime/ della politica invernale i residui e si scorge/
il puntiglio dei passeri e l'incertezza dei gatti/ lo spazio prescritto
percorrere./ […].
[7] […] e fuor della sala fra
poco/ saltellare lampadine/ perché presto disfatti/ i globi solenni dell'ovest/
e il canotto del guardiacoste a sussulti/ di lampi bianchi viola e i
quadrigetti/ ansiosi sulla direttrice/ d'atterraggio a stupefare rospi/ e altre
bestiole tra l'erbe./ […] Sera del sabato cena del sabato./ Tutto qui e i
canili dei recinti e gli abbai dai depositi./ […] Ah ma noi vivremo/ creature
umidi corpi vivremo sempre/ la polizia scherzava amore vivranno sempre/ gli
aliti con noi dei motori verso i motel./ E il tic tac bianco viola del
guardiacoste/ e le croci dei cieli che i nostri animali contemplano/ e
dormiremo insieme/ nella notte del sabato sempre nella pia notte.
[8] I Cinque recitativi con cui si apre il libretto diventano otto (vi si
aggiungono La nostra Regione
rinominata Lo spazio…, New England e un testo nuovo) e si
posizionano al centro della raccolta quando vengono inseriti in Paesaggio con serpente (Torino, Einaudi
1984), che riprende tra le altre 16 delle 18 poesie di Una obbedienza. L'ordine dei cinque recitativi iniziali entro gli
otto di Paesaggio con serpente è
leggermente diverso (lo specifico nel caso qualcuno possedesse Paesaggio con serpente e non Una obbedienza): al primo posto viene
posizionata quella che era La nostra
Regione; al secondo e al terzo rispettivamente il Primo e il Secondo
recitativo, rititolati a partire dalle prime parole del primo verso (operazione
che viene effettuata su tutti i testi di questa sezione); Quello che era il Quarto recitativo occupa, con diverso
titolo, il quarto posto degli otto; al quinto troviamo quello che era il Terzo di Una obbedienza; al sesto troviamo La luce del gran nuvolo…, che era in origine il Quinto recitativo; viene interposta una
poesia non inclusa nel libretto del 1980, intitolata Come mai le foglie…; e da ultimo ritroviamo New England. Il titolo del librino del 1980 andrà a connotare
l'ultima sezione della pubblicazione del 1984.
[9] [..] Camminiamo fra i noci
tutti gialli/ e gli aceri rossissimi./ Conoscendo i nostri vizi/ lo spazio tra
le persone del gruppo/ diventa come una pelliccia./ [..] Verso Heathrow
palpitazioni e luccichii,/ verso nord il paese delle volpi parlanti/ e
l'impossibilità di capire definitiva./ [..].
[10] [..] C'è chi dentro la mente
si sente straziato/ perché è grave che il mare fiero, i lecci tenaci,/ il
cigolio delle auto, il ragionare delle persone,/ tutto racconti di cose
sparite/ che nessuno più attende./ C'è chi ne soffre sebbene soffrire non serva.
I versi di La nostra regione
finiscono sul tema del rapporto con il passato, o meglio con quanto del passato
non è riuscito a diventare tradizione. Che fiero sia l'aggettivo scelto per
definire il mare è però anch'esso particolare significativo nell'ottica che
orienta questo scritto. Fierezza del mare, tenacia dei lecci.
[11] Beninteso posso ancora
guardare./ La finestra ha qualche lacrima. Il lume d'occidente/è alla vernice
della parete. La sera/è la vertigine dei larici spirituali./ Dalla collina dei
padri i pensieri già pensati/ mi guardano.// [..]. Aggiungo: certe volte non mi
riesce di terminare la citazione dove sarebbe sufficiente: il verso successivo
è così bello che non riesco a non copiarlo. Così qui. Dite: pur nella pochezza
della mia analisi, non valeva la pena di rileggere questi versi?
[12] [..] Ho l'età di mio padre e
i sogni che rammento/ sono di errori rimediabili, consulti nei dizionari/ sono
di dispute cavernose, di prati acuti/ dove passa uno che non capisce/ [..].
Devo dire che il seguito dei versi (…..), che ora rileggo, mi fa decisamente
propendere per l'ipotesi della 'spinosità' di quei prati, ma ugualmente
lascerei aperto uno spiraglio di possibilità all'altra…
[13] Riporto i versi finali nella
loro interezza: [..] Qualcosa mi è stato detto/ che debbo ricordare meglio:
che/ quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di molti./ Non so se mette
conto ritrovare tra le mie carte/ le precise parole della promessa.
[14] Cfr. Franco Fortini, Versi scelti 1939–1989, Torino, Einaudi
1990, p. 448.
[15] Questo scritto era, nelle
intenzioni, premessa a un tentativo di lettura ecocritica dei testi di Composita solvantur. La chiusura in
redazione del numero lo ha forzatamente autonomizzato.
[16] Lo scritto di Roberto
Roversi cui faccio riferimento, del 1998, è riportato in questo numero della
rivista, a conclusione della rubrica Letture
d'autore.
[17] In Composita solvantur, rispettivamente alla pagine 7, 8, 10, 13, 17,
26, 54, 58, 59.
[18] L'accenno alla vita delle
stelle nel Quarto recitativo non mi
sembra trascurabile nella direzione di ipotizzare nel nostro una percezione
della "vita inanimata" niente affatto inanimata e irrispettabile.
5 commenti:
Cara Marcella,
Ho letto e condiviso le tue poesie che mi sono piaciute. Per la parte auto-critica invece, per il mio solito difetto - mi cala quasi subito l'attenzione - ho letto qua e là, perdona.
Perchè - se credi - non sintetizzi per i disabili come me?
Paolo Pezzaglia
Impegnativa lettura, ma scorrevole, fatta per essere compresa al volo. Grazie Marcella.
Sì, è comprensibile e trovo interessante la chiave di lettura offerta da Marcella Corsi. Tuttavia non leggo versi espliciti di Fortini volti in questa direzione, la natura e gli elementi sono allegorie che sembrano volte ad indicare altri significati. E' un vezzo dei poeti quello di chiamare per nome, una ad una le foglie, gli alberi, uno ad uno gli animali e le cose. In poesia non si può essere tanto generici, tutto ha un nome. Altri poeti, penso a Neruda, usavano minerali, pietre preziose, e con queste componevano i loro percorsi. Gli esempi sono infiniti, lo stesso Montale è stato inizialmente un ottimo paesaggista... ma trovo interessante "l'umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia" che diviene nuova ed altra, per la vita come anche per la morte. Serve perché dietro la natura si nasconde quasi sempre la funivia che porterebbe a dio, e ho l'impressione che anche Fortini l'abbia notata. E' in quella direzione che un piccolo stop potrebbe servire, a vedere senza immaginare.
mayoor
A Marcella:
Grazie alla tua sensibilità ho potuto apprezzare e conoscere anche questo aspetto , così ben descritto, del poeta Fortini. Complimenti. Emy
Certo l'allegoria è molto presente nella poesia di Fortini e la precisione nel nominare le essenze arboree gli deriva anche dal fatto di essere poeta. Ma non ti pare, Mayoor, che nei versi che nello scritto vengono sottolineati ci sia quell'umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia? Questo volevo cominciare a mostrare, che il suo modo di considerare la natura e gli esseri in essa viventi è di compresenza e condivisione, e di stretta parentela nel suo sentire è il legame tra cultura umana e sapienza naturale. Questo modo di considerare la natura si avverte anche (forse di più) in Composita solvantur, e lì volevo arrivare con questo scritto, che invece si è di necessità (per motivi di tempo) autonomizzato. Approfitto, tra parentesi, per segnalare che le note sono parte essenziale del testo, giacché tra l'altro riportano i versi di Fortini, e che dove in nota si parla di rivista ci si riferisce al numero in preparazione di "Poliscritture".
ciao a tutti
Marcella
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