In apparenza queste riflessioni di Salzarulo non hanno molto a che fare con la poesia. Eppure nell' "Inno di Mameli" si insinuano tutti gli equivoci che anche la poesia (un valore) attira su di sé, appena esce dal luogo riservato (sacro pomerio per alcune élite, circolo corporativo per altre). Suggerirei di leggere questo scritto con un occhio alla discussione in corso sul post riguardante Gian Pietro Lucini (qui). [E.A.]
Soffermati
sull’arida sponda
A. Manzoni, Marzo
1821
1. -
Nei cinque anni di scuola elementare non ricordo bene se il maestro ci abbia
mai fatto cantare in coro l’inno di Mameli. Ricordo che ci fu proposto in prima
media dalla prof. di musica. Unii la mia voce a quella dei compagni di classe e
la prof., dopo averla ascoltata tre o quattro volte, mi ordinò coram populo di
farla tacere. Era stonata. Ne ricavai una ferita superficiale, della glottide,
un’umiliazione leggera di Narciso, indimenticabile. Ancora oggi, tutte le volte
che provo ad intonare le parole o il ritornello di una canzone, esito. Ho la
voce di uno stonato.
A
diciannove anni, la direttrice di una colonia estiva, in cui lavoravo come
monitore, tentò di convincermi che non esistono voci stonate, tutt’al più
diseducate. Ci provò e mi rinfrancò per un mese, il tempo necessario, a
sorvegliare il gruppo di ragazzi affidatimi e a intonare con loro qualche
marcetta. Fu rimedio temporaneo, cerotto rimovibile.
Nella mia storia personale, inno di Mameli e
scoperta della mia scarsa capacità nel cantare rimangono associati. Una stonatura che si fece, col passare degli anni,
sintomo di una scelta della mente: poco amante dell’astratta Nazione e poco portata ad accendersi per i “fratelli
d’Italia”. Fratelli coltelli. Perché negarlo? La parola Patria è stata a lungo
buco nero della mia psiche e l’amor patrio sentimento, se non assente,
debolissimo. Parlante dalla nascita un dialetto irpino, già diventare utente
della lingua italiana ha rappresentato per me una conquista. Lasciare il
presepe del paesello natio per inurbarmi nella metropoli torinese
(inizialmente) e milanese (successivamente) è stata inoltre esperienza particolarmente
pungente. Ha significato portare nel mio corpo e scrivere nelle sue pieghe il
segnale delle disparità territoriali e sociali, le storture dello sviluppo
ineguale. Mercato unico nella penisola (e fuori), sviluppo industriale nel
triangolo a Nord-Ovest, disoccupazione a Sud.
2. - Come
molti altri sono stato costretto a ripensare a questa storia in anni più
recenti e a ripormi il problema dell’Unità d’Italia per l’affermazione
elettorale, politica e sociale della Lega Nord. Secessione e/o indipendenza
della Padania mi apparivano parole d’ordine indigeribili e deliranti. Dalla
questione meridionale a quella settentrionale. In epoca di globalizzazione,
temevo una balcanizzazione politico-amministrativa e culturale delle Tre Italie
economiche già esistenti (avevo studiato il libro di Bagnasco). Tra l’altro,
come assessore all’istruzione e alla biblioteca civica, ero stato delegato ad
organizzare le iniziative per il 150° dell’Unità. Quindi, ho dovuto riflettere
sul “bisogno di patria” e fare i conti con l’esigenza di una sorta di
“religione civile” finalizzata a rinsaldare il vincolo costituzionale e il
patto sociale tra i cittadini. Una religione piuttosto assente (non solo per
via della tradizione guicciardiniana, “particolaristica” degli italiani, ma per
la corruzione diffusa, l’evasione fiscale, la presenza e penetrazione estesa e invadente
delle mafie) e che non può essere praticata e vissuta intonando e rintonando a
squarciagola, in ogni occasione pubblica, «Fraaateelliii d’Iitaaalia…»
Per
questo forse mi ha lasciato piuttosto freddo la notizia che, a partire dal
prossimo anno scolastico, l’inno nazionale dovrà essere insegnato obbligatoriamente
nelle scuole di ogni ordine e grado (infanzia, inclusa) e che, nell’ambito
delle attività volte all’acquisizione delle competenze e delle conoscenze
relative a “Cittadinanza e Costituzione”, ogni scuola dovrà organizzare «percorsi didattici, iniziative e incontri celebrativi
finalizzati ad informare e a suscitare riflessione sugli eventi e sul
significato del Risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all'Unità
nazionale, alla scelta dell'inno di Mameli, alla bandiera nazionale e
all'approvazione della Costituzione, anche alla luce dell'evoluzione della
storia europea» (art. 1 Disegno di legge n.3366)
E’
chiaro. Il legislatore vuole che si parli e si rifletta sulla nostra storia.
Intento encomiabile. Vuole che si suscitino sentimenti di appartenenza a una
comunità nazionale e si faccia leva su di essi. Perché farlo obbligatoriamente?
Forse perché si pensa che i buoi siano già scappati e che sia profondo il
disincanto nei confronti di un simile discorso pubblico, sempre a rischio di gonfiarsi
di toni bolsi e retorici. Le domande da porsi sono facili; non altrettanto le
risposte. Che significa oggi essere italiano? Quanto è diffuso ed intenso
l’amor patrio? Qual è lo stato della nostra “casa comune” e quanto è unita?...
3. -
Oltre all’inno di Mameli, durante gli anni di scuola media, imparai a memoria i
versi manzoniani di “Marzo 1821” ,
quelli che ad un certo punto recitano: «Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di
memorie, di sangue e di cor.» A quasi due secoli di distanza, si possono usare
come rudimentale griglia di verifica.
“Una
d’arme”. Nel nostro Paese posseggono legittimamente armi soldati, carabinieri,
poliziotti, finanzieri, vigili…e (illegittimamente) le mafie, che presidiano e
controllano interi quartieri e territori. Le nostre Forze armate sono distribuite in vari corpi. In barba
all’art. 11 della Costituzione, alcuni sono impegnate su fronti di guerra per
missioni dette ipocritamente umanitarie. Ogni tanto qualche soldato torna a casa
morto. Parlamenti, Consigli Comunali, Provinciali, Regionali, Scuole e altre
istituzioni osservano il rituale minuto di silenzio. Poi...la guerra continua.
Essendo lontana dalle nostre case, è notizia astratta. Sembra che non ci
riguardi. Bambini ed adolescenti devono imparare a memoria l’inno nazionale per
non dimenticare di cingersi, all’occorrenza, la testa “dell’elmo di Scipio”? Ci
saranno sempre dei Cartaginesi su cui sparare addosso?...
Carabinieri
e poliziotti lavorano a ritmo continuo, impegnati come sono in mille
interventi. Tra questi spiccano la lotta alla criminalità e la difesa dell’ordine pubblico. Per la
prima, tanto di cappello. Molti carabinieri sono morti in servizio, uccisi dalla mafia,
dalla camorra o dalla ‘ndrangheta. Dovendo camminare per le strade di certe
città, vedere le divise infonde senza dubbio un maggior sentimento di
sicurezza. Esempi di "buon impiego" delle forze dell'ordine, quindi,
non mancano. Anche di cattivo, purtroppo. Penso ad alcune recenti
manifestazioni studentesche.
Non sempre è facile tenere a bada studenti che, oltre ad imparare per obbligo Fratelli d’Italia, vorrebbero poter esercitare il loro diritto allo studio in aule non sovraffollate, in edifici scolastici adeguati (magari con laboratori attrezzati e qualche biblioteca scolastica); vorrebbero che il “governo tecnico” mettesse in pratica la fraternità repubblicana, assicurando qualche risorsa in più alle scuole pubbliche. A settembre, tanto per inaugurare l’anno scolastico, sembrava che ogni classe da lì a pochi giorni avrebbe ricevuto i soldi per comperare un computer; ogni scuola avrebbe avuto software telematico per pagelle, registro delle assenze, giustificazioni, ecc; i docenti di Puglia, Campania, Calabria e Sicilia sarebbero stati dotati di un tablet... Insomma, ammesso che sia educativamente efficace, una bella boccata di “modernizzazione” tecnologica. Ma poi i tablet non arrivano. E non arrivano gli insegnanti di sostegno in numero sufficiente, non arrivano quelli d’inglese, si tagliano le assunzioni dei precari e gli orari delle discipline. Si propone un prolungamento dell’orario d’insegnamento dei prof., portandolo da18 a
24 ore settimanali, si cacciano dai
Consigli d’istituto le rappresentanze studentesche. Inno di Mameli, tablet e
manganello. Il bastone e la carota. Che patria è questa? Che patria rappresenta
il ministro Profumo? Quella parolaia del diritto allo studio soltanto
proclamato?...
Non sempre è facile tenere a bada studenti che, oltre ad imparare per obbligo Fratelli d’Italia, vorrebbero poter esercitare il loro diritto allo studio in aule non sovraffollate, in edifici scolastici adeguati (magari con laboratori attrezzati e qualche biblioteca scolastica); vorrebbero che il “governo tecnico” mettesse in pratica la fraternità repubblicana, assicurando qualche risorsa in più alle scuole pubbliche. A settembre, tanto per inaugurare l’anno scolastico, sembrava che ogni classe da lì a pochi giorni avrebbe ricevuto i soldi per comperare un computer; ogni scuola avrebbe avuto software telematico per pagelle, registro delle assenze, giustificazioni, ecc; i docenti di Puglia, Campania, Calabria e Sicilia sarebbero stati dotati di un tablet... Insomma, ammesso che sia educativamente efficace, una bella boccata di “modernizzazione” tecnologica. Ma poi i tablet non arrivano. E non arrivano gli insegnanti di sostegno in numero sufficiente, non arrivano quelli d’inglese, si tagliano le assunzioni dei precari e gli orari delle discipline. Si propone un prolungamento dell’orario d’insegnamento dei prof., portandolo da
Nella
crisi che imperversa, assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico è
diventato un imperativo. Come affrontare la questione sociale sembra non sia
problema che riguardi la nostra classe dirigente. La disoccupazione è
drammaticamente in aumento. Migliaia di giovani il lavoro neanche più lo
sognano. I nostri studenti, se non vorranno aumentare l’esercito industriale di
riserva, dovranno probabilmente emigrare e cercare un’occupazione in Europa, in
Cina, in India o Oltreatlantico.
Impareranno l’inno di Mameli per non dimenticare quanto è matrigna la
storia patria? Se lo porteranno nel cuore per difendere lo stivale nel mondo?
I
finanzieri li abbiamo visti impegnati in operazioni di lotta all’evasione. Se
n’è parlato molto alla Tivù. I risultati?... I lavoratori della scuola, come
tutti gli altri, continuano a vedersi le tasse aumentate. Riducono il loro
tenore di vita e continuano a subire minacce: chissà se si riuscirà a pagarvi
la tredicesima, chissà se vi potremo garantire ancora lo stipendio intero,
chissà cosa?!...Se la patria diventa un inferno, cantando l’inno di Mameli si
sta meglio?...
A parte
tutto, l’Italia è “una d’arme”. Peccato che le forze che le posseggono vengono
spesso impiegate per reprimere legittime esigenze dei cittadini. Assicurano
indubbiamente l’unità, ma lo fanno a favore di alcuni gruppi sociali contro
altri. L’ineguaglianza regna sovrana. Taglio con l’accetta, si capisce. Ma
forse un po’ di storia delle nostre Forze armate e del modo in cui sono state
impiegate dai ceti dirigenti del nostro Paese non sarebbe male: dagli eccidi di
Bava Beccaris ai pestaggi di Genova nella scuola Diaz. L’attenzione al “nemico
interno” ha prevalso spesso sul “nemico esterno”. Anche perché, sia detto fra
parentesi, a partire dal secondo dopoguerra,
il “nemico esterno”(chiunque esso fosse e ammesso che lo fosse), è stato
combattuto con il nostro esercito bene inquadrato nei ranghi della Nato.
Sovranità limitata. Siamo un Paese a sovranità limitata da sempre. L’ultimo
nostro governo, quello che ci sta ridando “credibilità e dignità” nel mondo, è
stato voluto (e imposto) dalla troika (BCE, FMI, UE). Pur di toglierci dai
piedi il Grande Comunicatore e l’Amante di barzellette, abbiamo ingoiato un
rospo che più rospo non si può. Domanda ineludibile: come stiamo a democrazia e
a sovranità popolare? Male, molto male.
“Una di lingua”. Sotto questo
profilo l’unità merita una bella sufficienza. Tutto sommato oggi un siciliano o
un sardo riescono a parlare e a capirsi con un piemontese o un valdostano. La
generalizzazione della scuola dell’obbligo è servita. Un po’ gli italiani
linguisticamente sono stati fatti.
All’alfabetizzazione e istruzione scolastica, bisognerebbe aggiungere il
ruolo prezioso svolto della Rai Televisione italiana. Che italiano parliamo
oggi? Il divario tra la lingua letteraria (quella dell’alma e della beltà, del core e della speme…la lingua, voglio dire, dell’Inno) e quella d’uso quotidiano
si è indubbiamente ridotto. Costringendoli ad imparare a memoria l’Inno
cosa vogliamo ottenere dai nostri
studenti? Che ricordino quale fosse la lingua dei trisavoli letterari?...Sia
pure. E allora come la mettiamo con quelle Università italiane che hanno
deliberato l’uso obbligatorio della lingua inglese per lezioni, corsi, esami,
seminari? Da un lato la lingua dell’Inno
per conservare l’identità italiana, dall’altro quella delle attuali élite. E’
vero che siamo una “provincia dell’impero”, ma tutto ciò non ci rende più
servi? Ha scritto Claudio Magris: «La proposta di rendere obbligatorio l'insegnamento universitario in inglese
rivela una mentalità servile, un complesso di servi che considerano degno di
stima solo lo stile dei padroni, simile a quella smania di “sbiancamento” (blanchissement)
che grandi scrittori neri quali Glissant e Fanon hanno denunciato in molti
discendenti di schiavi nei loro Paesi, le Antille francesi» (Corriere della
Sera, 25 luglio 2012)
Forse questo “complesso di servi” è attivo anche
nell’obbligatorietà dell’insegnamento dell’inno nazionale: invidiamo il
patriottismo americano, inglese, francese, tedesco…
“Una
d’altare”. La nostra “fabbrica dell’obbedienza” ha lavorato notoriamente contro
l’Unità del Paese. Anche nelle frazioni più sperdute d’Italia un campanile non
manca. E l’unità che avrebbe preferito è quella sua. Coi rappresentanti del
nostro Stato ha concordato un po’ di privilegi. Ma quante volte la Chiesa cattolica continua a
farsi portatrice di contrasti e divisioni? I politici cattolici, anche quelli
più maturi, quelli che rispettano la sovranità e indipendenza delle due sfere,
non si esimono dalle genuflessioni e dal versare l’obolo. L’ultima era sui
giornali di domenica 25 novembre: “Il governo aiuta la Chiesa. Mini Imu per scuole e
cliniche”. Il tutto, disattendendo le richieste UE e il doppio parere del
Consiglio di Stato. Commenta Gianluigi Pellegrino: «Il rigore economico si
scioglie come neve al sole se a chiedere sono le gerarchie cattoliche. La
credibilità europea può pure andare in cantina se a pretendere favori è quel
mondo ben visibile che proprio alla convention per il Monti bis della settimana
scorsa non ha lesinato partecipazione entusiasta» (La Repubblica , 25 novembre
2012).
La
situazione religiosa del nostro Paese si è fatta, comunque, più complicata.
Quella cattolica non ha più l’esclusività. E, tuttavia, ogni volta che un’amministrazione
e un Sindaco autorizzano la costruzione di una moschea, l’islamofobia prende
quota. Possiamo dire che non siamo ancora maturi per rispettare realmente l’articolo
19 della Costituzione e la “libertà religiosa” di tutti? «Ché schiaaaava di Roooma / Iiiddio la creò.» Non è la Roma dei papi, lo so.
Sulle
memorie, il sangue e il cor, lasciamo stare. Le memorie sono divise. Sono
divise quelle risorgimentali e quelle post-risorgimentali, quelle resistenziali
e quelle post-resistenziali. La guerra civile ancora infuria tra unitari e
neoborbonici, anticlericali e sanfedisti, fascisti e antifascisti…Ogni tanto
qualcuno conciona sulla necessità di una memoria condivisa. Per questo forse si
ritiene opportuno l’insegnamento obbligatorio dell’inno. Ma per quanto ci si
dica fratelli, se uno è vittima e l’altro carnefice, difficile credere ad una
simile fraternità.
Il
sangue è da molti decenni meticcio. E “nuovi italiani” provenienti da ogni
parte del mondo ci chiedono l’applicazione di quei diritti di cittadinanza che
finora abbiamo loro negato. Che facciamo? Seguiamo le parole dell’Inno? «Uniamoci, amiamoci, / l'Unione, e l'amore / Rivelano ai
Popoli /Le vie del Signore…». Capisco. Le vie del Signore sono infinite. Mameli
invitava i giovani italiani di allora ad unirsi per “far libero / il suolo
natìo”; ma , dal momento che oggi non ci sono suoli da liberare, ci potremmo
unire coi “nuovi italiani” per liberare il mondo dall’oppressione finanziaria e
dallo sfruttamento che ci intossicano la vita.
Il
cuore è debole, ferito, scompensato. Quale amor patrio può suscitare nei
giovani una classe dirigente che sta togliendo futuro al nostro Paese? Che
toglie dignità ed umilia? Incertezza, inquietudine, precarietà, paura,
smarrimento…Ecco, il pane quotidiano.
Forse per questo si intende far cantare obbligatoriamente l’inno nazionale. Chi
sta consapevolmente distruggendo la “coesione
sociale”, introducendo continuamente elementi di divisione e di discordia
piuttosto che connettivi ed inclusivi, spera che la si possa riconquistare,
almeno a livello simbolico, con una marcetta. I simboli sono importanti. Ma non
assicurano il lavoro, l’istruzione, la salute.
Una
patria è una casa comune, un luogo familiare, un territorio conosciuto. E’ un
insieme di risorse climatiche, naturali (monti, pianure, fiumi, laghi, mare),
paesaggistiche, culturali, relazionali. L’Italia oggi, se non fosse quel paese
mal diretto che è, potrebbe fermare il suo declino. Ci aiuterà questo
insegnamento obbligatorio?...
4. – Ho
tre nipoti. Il più piccolo frequenta l’ultimo anno di scuola dell’infanzia.
Conosce a memoria quasi tutta la prima strofa dell’inno e la canta (abbastanza
bene, devo dire). Non gliel’hanno insegnata le maestre. L’ha sentita alla
televisione in occasione dei mondiali e del 150°. La canta volentieri, perché
“gli piace cantare”. Non so quanto conosca il significato del testo. Il livello
è sicuramente molto superficiale. E’ attratto dal ritmo, dalla musica, dal
canto…E va bene così. A cinque anni i bambini seguono le marcette. Le seguono
in sé, intendo, come materiale sonoro. Il testo lo capiranno dopo. Certo,
quando lo capirà, magari, si farà una bella risata. Chissà. O, magari, penserà
al giovane che l’ha scritto, al suo romanticismo patriottico.
La
seconda, invece, è più grande ed è in seconda media. Lei è andata un po’ oltre
la prima strofa, che imparò in quinta elementare da una maestra. Gliela insegnò
per il 150°. Molto recentemente, invece, lunedì scorso, la prof. di educazione
motoria ha fatto una vera e propria lezione sull’Inno: il testo, chi l’ha
scritto, chi l’ha musicato…
«Cosa
vuol dire “stringiamoci a coorte”?»
«Mettiamoci
insieme»
«Risposta
generica. La coorte era una unità militare dell’esercito romano. Inventata, tra
l’altro, da Scipione l’Africano, quello “dell’elmo”…»
La
fanciulla annuisce. Non ricorda se la prof. glielo abbia spiegato. Comunque,
non se ne fa un cruccio.
La
terza è la più grande. Frequenta il secondo anno del liceo scientifico. Conosce
il testo e lo sa cantare.
«Che ne
pensi dell’obbligo di doverlo imparare?»
Esita e
fa spallucce: «Ma sì, tanto…»
Poi ci
ripensa e aggiunge: «Le persone non possono essere unite soltanto da un canto.
Non basta sventolare coccarde e bandiere come fanno gli americani. L’unione
vera nasce dalla condivisione e realizzazione di certi valori: la fraternità,
l’eguaglianza, il rispetto delle persone, la costruzione di un futuro comune…»
27
Novembre 2012
2 commenti:
C'è molta poesia in queste pagine. Suggerimenti di buona vita. Di cittadinanza attiva.
Una scrittura completa.
Grazie Donato
Un saluto da Giulia
Grande Donato! Un post intelligente nel quale trovo anche, permettimelo, tenerezza. Grazie . Emy
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