Pubblico, rivisto dall'autrice, il testo che ha fatto di base all'incontro tenutosi alla Palazzina Liberty di Milano del 13 novembre 2012 (qui). Ci sono evidenti, anche se parziali e provenienti da altri contesto culturale, consonanze con la recente riflessione di G. Linguaglossa appena pubblicata (qui). [E.A.].
Sono qui per esporre un mio
breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in
qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e
debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua
degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere,
quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento
linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si
dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad
altri suoi programmi?
Ecco,
innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile,
iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza
dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto
il resto.
E riguardo agli
svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene,
altrettanto dogmaticamente, che c'è
molta gente a cui piacciono e dunque, proprio in nome della democrazia, del
rispetto di tutte le opinioni, non si possono, anch'essi, toccare.
L'informazione
è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto
perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i
contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.
Ma, ancora una
volta:
perché non si
dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del
telegiornale?
Ecco, prima di
tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di
prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi,
a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc...
Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché,
correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile,
l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i
contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine
ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su
cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono
essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine
specifico, intrinseco al compito del poeta.
Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html
che sono sbagliati linguisticamente:
i singoli
termini;
le frasi;
i contesti in
cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra
le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra
le frasi e le immagini.
Esempi di singoli
nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
“suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
“eminente” al posto di “efferato”;
“immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie
responsabilità”.
Esempio di un
tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di
un fatto:
“Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica
ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per
le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non
singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa
frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di
questa persona a una sola causa, la
causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se
io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate
è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per
andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel
“Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui
avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della
coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la
causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una
scelta.
Allo stesso
modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una
studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente,
ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti
negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del
decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo
brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente
-direi- capire le cause principali,
umane, intellettive.
L'errore si
aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i
discorsi sono inseriti: le notizie
riportate vengono disposte senza
alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle
altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un
nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende
tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente,
anesteticamente normale.
Tanto più che
tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del
viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che
il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla
prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora,
nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l'
espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le
pause con cui si danno le notizie sono
sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose,
tremende.
Le frasi
esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna,
compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni
sono abolite.
Tutti parlano
in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere
trattato allo stesso modo.
Quando si sente
un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per
esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una
truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo
concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino
sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso
rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il
modo di dirla.
Generalmente,
ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di
dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa
velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul
lavoro.
L'ultima
incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini
che accompagnano la notizia.
Infatti, molto
spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano
sostenere.
Ad esempio, si
parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente
si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si
denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e
contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più
brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.
In conclusione,
noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella
ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte
a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della
lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento,
l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel
1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una
conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova
questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più
vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la
sola che affronta, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio
televisivo.
Vale la pena
ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni
prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve
principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel
sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza
generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo
francese).
Tutti questi
intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione
intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come
riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni,
espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire
finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per
promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.
C'è quindi un
intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono
programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane
-come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia
con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e
propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con
i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello,
un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare
pubblicità”.
(Si tratta,
insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con
l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la
RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione
dei prodotti seriali dalla tv
commerciale americana ecc.)1
Eppure
Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia
subito che il linguaggio televisivo in
realtà è, in sé, la cancellazione di
tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto
preveggente era stato il critico Fedele d'Amico,
che ancor prima di Pasolini, nel
1961, in un suo lapidario scritto “La televisione e il professor Battilocchio”://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html
afferma che il linguaggio
televisivo è, in sé, il contrario della
cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre
la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile,
acritico”.
D'Amico perciò,
in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi
si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso
il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non
capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di
qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .
Pasolini chiama
il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in
televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo
vera”.
Dopo il suo
primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in
“Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle
sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al
linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio
televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della
produzione e del consumo” “-e “non la
lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito
tecnologico” “ossia lo spirito della
scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura,
e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando,
oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui
sostiene in definitiva questo:
“prima” -cioè prima della televisione, che è
-lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era,
materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale
unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui
dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri
tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose,
avevano analoghi, autentici valori etici,
condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo
dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso
raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità
linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico
coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica
“mutazione antropologica”.
In sostanza,
quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?
Innanzitutto, c'è una
visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento,
come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro
drastiche posizioni non potevano essere
accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”,
ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);
Poi, c'è la consegna
ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice-
della lingua, non estraniandosi però,
non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì
facendosi carico, in qualche modo, del
nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da
tutti;
già nel 1964,
lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del
letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere
con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.
Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un
prezioso tesoro: l'appassionata
coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che
l'unità linguistica vera non coincide
con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non
è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella
sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la
stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di
autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di
“nobilissimo intendimento, d'Amore, di
gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua
vera,
veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun
luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole,
bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.
Ora,
io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione
della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato
che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone
speculativamente al massimo la profonda
coscienza della lingua.
Riguardo alla
consegna di
combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio
televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto
cambiamento.
-Oggi, questo
è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli
anni '60, bensì
in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale,
ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della
natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare
consenso, appoggio da parte di molti.
-Oggi, il
modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa
è in crisi e
quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del
consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.
-Quindi,
direi, che tutti, oggi, possono con
relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante,
alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si
mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il
lavoro, per la scuola).
Riguardo poi
alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al
riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita
linguisticamente, cioè unita nella sostanza
culturale, intellettiva, morale.
Penso che non possano
esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante e
Petrarca.
Da loro, dunque, noi
possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una
cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo
come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al
proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto
direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in
irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero
che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza
per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.
Come ha fatto Petrarca
con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.
Possiamo considerare in
modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo
innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili,
non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio
di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche
lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)
III) Dante è il
primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”.
Perché lo fa?
Perché -dice- vuole
cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come
appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun
altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna
dottrina intorno alla eloquenza volgare”.
E' proprio
quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato,
aggiornato “De vulgari eloquentia”.
Anche noi dobbiamo
cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però,
oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;
al tempo di
Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non
era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo,
parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante
sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che
apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella
letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere
umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano,
poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo,
benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.
Che vuol dire quest'ultimo
punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico
da cui l'uomo non può mai prescindere.
-E' per questo, in definitiva,
che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto
-lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su
quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva,
lo rispettava-
Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare
naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di
quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui
l'uomo è sottoposto”3.
Ora, noi non abbiamo più davanti
a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato
appunto dal non riconoscere più alcuna
reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile,
alcuna norma, alcun oggettivo Logos.
Ma è proprio questa, oggi, la
lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso
apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi
dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta
doveva fare con i dialetti naturali.
E perché devono fare questo,
oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è
nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema
emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi
sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è
quello di essere
“una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.
Ecco, Dante dice questo della
lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo,
che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante
scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche
dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il
Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri
importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda,
rigorosa, meditazione filosofica: il “De
ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto
che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli,
all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi,
prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di
ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se
ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare
quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso,
Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo
definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del
suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il
poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente,
intellettivamente.
Per questo!
Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e
sono profondamente filosofi;
ma la loro
conoscenza della filosofia è dimostrata
non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto
essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale
riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca,
impegno morale, non come un oggetto, che
si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto
questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi),
“l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso
interrogarsi”.
Sì, in questo,
oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché
nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo
scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa
fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso
Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio
discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa
utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma
non nomina la filosofia.
E c'è un grande
critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta
di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962,
“L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di
interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una
condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro
suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che
“sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si
ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a
pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la
propria responsabilità”.
E dice anche:
“L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”
Ecco, io credo
che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca
filosofica”.
E quindi,
cercando di ricercare fino in fondo:
qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del
mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella
del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo
considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da
indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le
scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la
natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola
una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni,
mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi,
provoca;
-e aggiungendo
in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non
crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale,
ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente
dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è
ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando
Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a
questo linguaggio televisivo, su quale
visione filosofica ci basiamo, quale pensiero
sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo
dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le
conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo
da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da
Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento
radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Harendt,
in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei
dice: gli antichi partivano da
un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo
stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal
dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso
comune, l'evidenza più originaria (ma
recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le
cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi
forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo
stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al
mistero, all'essere.
C'è una grande
svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare:
Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka
(con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e
l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono
riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi,
l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della
ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia
considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi,
adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci,
di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile
all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto
questo lavoro, anche noi poeti, con la nostra ricerca, dobbiamo essere parte.
Cfr. Leandro Castellani,“La
TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag.
275-286
2 Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della
lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia
italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio
1995, pag.153-161
3 Ibidem pag. 153
4 Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si
deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op.
cit. pag. 128-131
5 Cfr. Hannah Harendt, “Vita activa”,
Sonzogno, Bompiani 1966, pag. 203
3 commenti:
Grande pensiero quello di Giselda Pontesilli, qui esposto con chiarezza e fervore. Davvero sarebbe bello che i poeti potessero fare qualcosa per cambiare quel linguaggio privo di umanità e di rispetto soprattutto verso chi soffre, ma io sono forse pessimista e non riesco a credere che i poeti possano riuscire ad entrare in questi ambienti per poter cambiare le cose. Attraverso la poesia molto certo si può fare, si può credere e lottare, ma la poesia,per me, ha un significato così alto che potrebbe essere impossibile farla passare in quei meandri. Facciamo allora entrare la poesia nella politica e (forse)non viceversa,utopia? Potrebbe essere la salvezza di un mondo che ci propina solo notizie a scopo pubblicitario e di lucro. Poeti al lavoro!
Grazie a Giselda Pontesilli per il suo impegno che le fa onore e alla sua grande sensibilità.
Emy
Scorrevano parole
al TG dei non udenti
la smorfia sul viso
spegneva il suo sguardo
- Sei uomini violentano
una donna ora in fin di vita
Berlusconi presenta la sua fidanzata-
Non le restò che mettere la mano sugli occhi.
Emy
gentile Giselda Pontesilli, apprezzando molto il tuo articolo vorrei inoltrarlo a qualche amico (anche giornalista) che non legge il nostro blog Moltinpoesia
Ti sarei grato se tu volessi mandarmelo in pdf (si dice cosi? non sono molto tecnologico...)perchè io possa inoltrarlo, ovviamente col tuo nome.
Con cordialità e auguri per l'imminente Natale
Paolo Pezzaglia
ppezzaglia@gmail.com
www.paolopezzaglia.altervista.org
Grazie! Emy e Buon Natale
Giselda
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