Supplizio fossile
(Del Satiro Marsia che osò sfidare
in gara musicale il
dio Apollo e finì scorticato vivo:
strumento cantante.)
Sotto salasso
l’operazione cominciò dalla cassa
toracica, (disse un
testimone
o perlomeno giunse così la notizia
sui fogli del mito
sui fogli del sogno)
lo scorticamento
non dalle punte del corpo ma dal
centro
ovale della pienezza, là dove si
raccoglie l’alito anzi il
respiro, anzi il suono concentrato
del calmo tamburello cardiaco.
Sebbene l’orecchio di questa specie
nana dei boschi
si palesasse come organo supremo
dell’ascolto,
(ma l’ avete mai vista da vicino
l’appuntita forma dell’orecchio di
un Sileno?)
pronta a scattare ad ogni piuma
vibratoria,
puntuta antenna come quella dei
cani.
Uno allora potrebbe immaginare che
si cominciassero
a strappare le carni
da lì, macché…
Apollo sfoderò un’unghia felina,
un bisturi, lungo uncino corneo
come se si dovesse lacerare la
verginità di un’imene
e alzò in aria la mano
magra aperta nella sfida degli
artigli
contro la faccia del martire.
Bellissimo, la voce piena di
giovinezza,
si aprì in un sorriso a mostrare
tutti i denti:
“L a t o r t u r a s a r à l e n t a
e d o l o r o s a
o r a c a n t a s e n z a a c c o m p
a g n a m e n t o,
c o l m a d i d o l o r e p u r o
l’u n i v e r s o”:
Fu suadente il suo dire.
Il capro umano non riusciva a
sopportare
il pensiero dell’imminente
olocausto, non riusciva a svenire,
levato a testa in giù
nella paralisi della minaccia
chiuse gli occhi strizzando le
palpebre in due rughe
d’inghiottimento.
Però un essere così irsuto, non dico
solo
nelle zampe di animale ma anche nel
petto,
villoso e spinoso
prima di essere spellato in quarti
di pelle
da asciugare al sole,
necessitava di rimanere calvo in
ogni angolo.
Fatti cassa di risonanza animale
del fuoco…
Anche se la frusta esorcistica delle
grida
sembrò esagerata per una semplice
limatura
che strappava i peli a tappeto
dai pettorali dalle braccia dalle
cosce
fino allo zoccolo,
mentre tutto il corpo trascolorando
come
sotto effetto di bruciatura
confondeva,
ma era sangue in risveglio
in uscita all’alba
dalle spugne muscolari.
Quando iniziarono i meravigliosi
tagli
si fece udire la cascata lirica
suprema
dei liquidi e dei vulcani
insieme sulla pelle,
musica degli angeli inascoltabile
che i versi della lotta con la morte
dell’animale
parevano coprire, e coprivano tutto,
fin l’intero universo
di sangue.
Tanti palpiti a disposizione
ma soprattutto pelle
urlante, rantolante, vibrante,
in forti spasmi e scosse.
Si divertiva Apollo nella sua
evasione satanica.
E quanto era dura la cotenna
da staccare lenta e che difficoltà a
tirarla giù tutta intera
quella guaina impregnata di vita in
convulsione
centimetro dopo centimetro
con dolcezza.
Ogni tanto l’uomo capra moriva
e si poteva lavorare meglio
soprattutto tra le dita e i pollici
ma era uno svenimento breve
in flatus voci
tra le labbra che cominciavano a
chiudersi in u
articolato tutto l’alfabeto
platonico
le armoniche della lamentazione
fino alla fine delle forze.
Intorno né uccelli né foglie
ma pelle
pelle eucaristica
stesa per un nuovo e fiammante
corpo-tamburo.
Lenzuola rosa ad asciugare.
* da Letizia Leone da "La disgrazia elementare", Perrone Editore, Roma 2011
*Letizia Leone si laurea in letteratura italiana e consegue il perfezionamento in linguistica.
*Letizia Leone si laurea in letteratura italiana e consegue il perfezionamento in linguistica.
Agli studi umanistici affianca lo
studio musicale.
Ha avuto riconoscimenti in vari
premi (Segnalazione Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S.
Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Selezione Miosotìs, Edizioni d'if, 2010-2012; Menzione
d'onore "Lorenzo Montano" ed.
Anterem).
Ha pubblicato: “Pochi centimetri
di luce”, (2000); “L’ora minerale”, (2004); “Carte Sanitarie”, (2008); "La
disgrazia elementare" (2011). Un suo
racconto presente nell'antologia “Sorridimi ancora” a cura di Lidia
Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo “Le invisibili" (Regia
di E.Giordano) al Teatro Valle di Roma.
Attualmente tiene un "Liceo
di poesia" presso l’editore Perrone di Roma.
11 commenti:
Quanto meno il testo è letteralmente marcato, voglio dire situato quale dirimpettaio del referente, tanto più la forma avrà la funzione di indicarlo. Assodato che per forma si intende tanto la composizione testuale quanto lo stile, chiediamoci: è necessario che il testo realizzi la differenza problemato-logica in quanto logos? Meno il problema della letterarizzazione del «reale» è letteralmente detto e più dovrà dirsi figurativamente, più la problematicità sarà il testo stesso come forma discorsiva. Più il testo si de-letteralizza, più il rapporto col reale diventa problematico, e più la problematicità, che è dunque un fatto formale, sarà il testo stesso a fornirlo come prova della propria sopravvivenza. Più il problema è formalizzato, più si scava il fossato tra il letterale e il figurato; voglio dire che meno il testo sarà risolutorio, meno esso sarà consolatorio, più conterrà sempre qualcosa di non-definitivo, di non-ultimato, di infermo, di infirmato, di scoria che eccede, di scabro che sopravvive alla combustione in quanto non c’è più una stazione ultima della formalizzazione data a-priori e una volta per tutte. In sostanza, più si scava il fossato tra il letterale e il figurato più la formalizzazione tenderà ad essere provvisoria, ad assumere la veste dell’abnorme, dell’indistinto, dell’inconsueto, insomma, del problematologico.
Nella poesia di Letizia Leone l’esoterismo va di pari passo con lo psicologismo e con il de-realismo (e, perché no, anche con una nuova forma di realismo!) e con le zattere significazioniste della Storia e del Mito, ma come divelte, scisse dal tutto (e dal lutto del tutto), come tessere schizzate via dal mosaico da una forza eruttiva (interiore-esteriore).
Leggiamo la scena dello scorticamento di Marsia ad opera di Apollo in La disgrazia elementare:
Ed ecco spiegata la ragione della eruzione anorganica e abnorme dei testi di Letizia Leone (Carte sanitarie è del 2008 e La disgrazia elementare del 2011), che chiede al lettore molto più di quanto questi forse sia in grado di offrire, e lo richiede in modo risolutorio, perentorio, accusatorio. Lo stile accusatorio qui va di pari passo con l’opzione della catacresi, dell’immagine sincretica e della indirezione, dello spostare la scena subito in re già all’inizio di ogni composizione. Ma le fratture della linearità temporale e spaziale sono pur sempre la spia dell’eclisse del soggetto legiferante in quanto laddove c’è problematizzazione formale non c’è «Legge» che tenga, in quanto il patto risolutorio tra l’autore e il lettore è rotto e non più aggiustabile con le panacee del riformismo moderato, con i lenitivi del misticismo, né con i ribellismi da scrittoio; addirittura, non si sa ormai neanche più che tipo di riformismo sia ancora in vigore se non quello dell’io finto e posticcio che decreta, illusionisticamente, la propria illusoria soluzione dei conflitti di quella «realtà» che ancora penetra (se penetra) nei testi residui. Non c’è più peso nelle cose. Non c’è più peso nelle parole. E perché dovrebbero averlo le parole? Non hanno più peso le parole all’interno della linearità liberata del verso libero come all’interno della linearità imprigionata del verso non liberato. All’interno della scatola acustica come all’interno della cornice ottica del quadro. Così, le parole e le cose aleggiano leggere e impolverate nell’aria. Vibrano delle vibrazioni dell’io, visibili nel raggio di luce che illumina la polvere.
Dinanzi alla scontrosità di certi testi della poesia moderna il lettore non può che ritornare timidamente sui propri passi, accucciarsi dietro lo schermo delle parole incompiute, inadempiute ed abnormi. E dormire. È il sonno della ragione che genera mostri.
E, analogamente, Letizia Leone non può che accompagnare con l’ambulanza dello stile il feretro delle parole come al proprio funerale. Res tua agitur. Il giocattolo s’è rotto. E ciò fa sì che il testo non si concluda alla propria fine, per così dire fisica, ma debba totalizzarsi attraverso il ritiro fisico dell’autore e del lettore, e che prosegua nella pagina seguente ma come un nuovo tentativo del medesimo inizio piuttosto che un nuovo inizio. C’è sempre un nuovo inizio che non riesce più a totalizzare un finale. Aleatorio e abnorme, attraverso l’esercizio della catacresi, il testo si sottrae a se stesso, abbandona l’enigma che non c’è. Di qui il ricorso al mito non più inteso come nei mitomodernisti come una suppellettile, una pertinenza della forma-poesia ma come una necessità di lettura del contemporaneo, come una guida.
Stavo spolverando la mia libreria e mi è capitato sotto gli occhi un numero di Quaderni Piacentini del 1978. Contiene uno scritto di Hans Magnus Enzensberger. Comincia così:
«Sono passato poco fa nella macelleria qui all’angolo per comprare una bistecca. Il negozio è strapieno di gente, ma la moglie del macellaio, appena mi vede, posa il coltello sul bancone, va alla cassa, tira fuori un foglio di carta e mi chiede se è roba mia. Io do un’occhiata al testo e confesso immediatamente la mia colpevolezza.
È la prima volta che la signora della macelleria mi lancia uno sguardo per così dire di fuoco. Fra i mormorii degli altri clienti viene in chiaro quanto segue.
Senza averne avuto il minimo sospetto, io sono intervenuto nella vita della figlia del macellaio che si sta preparando all’esame di maturità. L’insegnante di tedesco le ha messo davanti una poesia che avevo scritto molti anni fa con l’invito a mettere nero su bianco qualcosa in proposito. Risultato: un bel quattro, pianti e scenate a casa del macellaio, questi sguardi accusatori che mi trapassano letteralmente da parte a parte e, per concludere, una bistecca più dura del solito nel mio piatto».
(Hans Magnus Enzensberger, Una modesta proposta per difendere la gioventù dalle opere di poesia, in “Quaderni piacentini”, 1978, 66-67, 140)
Ciao Donato
Sempre a proposito dell’articolo di Enzensberger:
«L'articolo di Enzensberger venne tradotto da Alfonso Berardinelli in piena vague logotecnocratica; l'italiano, in un saggio uscito nei defunti "Quaderni piacentini", rincarò la dose e, dopo aver evocato epifonemi di maestri come Auden ("In letteratura la volgarità è preferibile al nulla totale…", "Il piacere è ben lungi dall'essere un criterio critico infallibile: è però il meno ingannevole"), invitò chi insegna a ricercare e verificare le condizioni minime di una lettura come esperienza (Erlebnis) (Chirurgia estetica, in Il critico senza mestiere, Il Saggiatore 1983). Dibattiti d'altri tempi: è rimasto un residuo secco di gentili truismi, indorati da un linguaggio colto-libertario, proprio di studiosi forse elettrizzati dalla certezza di essere seduti sui banchi dei Cordiglieri e non della Palude. Invece nella Palude ci siamo tutti, lo spiritato Enzensberger, l'indocile Berardinelli, l'umoroso Cases e anche la mitica Susan Sontag di Against Interpretation (elogiata da Enzensberger per aver condannato l'apparato filisteo-culturale che si rifiutava di "lasciare in pace le opere d'arte"), sbertucciata - proprio lei - da Kevin Costner in Bill Durham e contrapposta, luttuosa istigatrice di masturbazioni mentali, a tutto ciò che è vivido e piacevole, baci passionali e baseball compresi.
(Continua)
Chi si candida a una cattedra di Grammatica della Devianza o di Istituzioni di Rivoluzione Comparata fa questa fine: c'è sempre un puro più puro che ti epura … Il co-autore di uno dei più terrificanti manuali di letteratura per le scuole superiori mi scroccò tempo fa una sigaretta su un verone del palazzo dell'Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, durante la pausa di un convegno a Venezia. Giacca grigia perfettamente intonata ai baffi e all'umore, non mostrò alcuna reazione a un mio motteggio sulla statua di Tommaseo che troneggia in Campo S. Stefano, chiamata «cagalibri» a causa dell'infelice decisione dello scultore di far colare dal retro della redingote del lessicografo una cascatella di volumi.
Probabilmente aveva ragione. Noi possiamo ridere con la poesia La scuola più strana del mondo, inclusa nella gradevole raccolta Ballate, o grazie ai titoli escogitati da Benni per ipotetici temi della maturità ("Parlate di un libro che avete letto senza che fosse compreso nel programma scolastico e spiegate perché esso è notevolmente inferiore a quelli compresi nel programma, nonchè i motivi dell'inutilità di un suo eventuale inserimento nel programma"). In realtà siamo tenuti a indossare la redingote d'ordinanza: altrimenti gli studenti non capiranno, per esempio, la filastrocca sullo Psicanalista selvaggio, altroché:
Dottore, dottore
ho sognato un leone.
"Sarà una proiezione
dell'aggressività."
Dottore dottore
ho sognato un serpente.
"È un simbolo fallico
di eros latente".
Dottore dottore
ho sognato una gazzella.
"Di certo è un transfert
Forse di sua sorella…"
Dottore dottore
Ho sognato i caimani
"Lei invero fa sogni
Fantastici e strani."
Ma che strani, dottore
Lo vuole capire
Che sono nato in Zaire?
Ciao
Donato
Isolo e sottolineo alcune proposizioni:
1."In letteratura la volgarità è preferibile al nulla totale…",
2."Il piacere è ben lungi dall'essere un criterio critico infallibile: è però il meno ingannevole"
3. Ricercare e verificare le condizioni minime di una lettura come esperienza
4. Evitare le masturbazioni mentali, meglio tutto ciò che è vivido e piacevole, baci passionali e baseball compresi.
5. Nelle cattedre di Grammatica della devianza o della Rivoluzione comparata c’è sempre un puro più puro che ti epura…
6. Attenzione alle “interpretazioni selvagge” si rischia di finire come lo psicanalista della filastrocca di Benni…
Ciao
Donato
Detto questo, la poesia di Leone mi piace. Mi sono subito venuti in mente i versi di Dante, del primo canto del Paradiso:
O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro.
[…]
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue.
Il senso dell’invocazione dantesca è chiaro. Per andare in Paradiso ha bisogno dell’armonia e della luce apollinea; deve abbandonare l’oscurità terrestre, rinascere abbandonando la pelle, la sua condizione mortale.
Dante ha alle spalle l’Ovidio delle Metamorfosi. Scorticato, il satiro subì la metamorfosi: «Il fertile terreno si bagnò delle lacrime cadenti, le accolse, le assorbì nelle sue viscere; e poi le mutò in acqua e le mandò fuori all’aperto. Di là, volgendo per ripe declivi verso il mare irrequieto, serbò il nome di Marsia, divenuto un limpido fiume di Frigia».
Intorno né uccelli né foglie
ma pelle
pelle eucaristica
stesa per un nuovo e fiammante corpo-tamburo.
Lenzuola rosa ad asciugare.
Pelle eucaristica. Mi pare che Leone interpreti correttamente il mito come un sacrificio rituale e anticipazione figurale di un’altra “pelle eucaristica”: l’ostia cristiana. Tutti potremmo imparare a suonare un flauto (o a scrivere così bene poesie), da essere, insomma, dei Marsia in gara con la divinità. Se non sappiamo essere umili e decisi come Dante, ci attende il sacrificio rituale, lo scorticamento!...
Ciao
Donato
Sei forte Donato, è un piacere davvero un piacere conoscerti! Emy
Dovendo scegliere, tra vittima e carnefice sceglierei me stesso per intero. Fossi solo carnefice, fossi solo come un dio, non avrei pietà nemmeno per me stesso. Quanto ad essere vittima chi lo vorrebbe? Abbia pazienza, bravissima Leone, ma son cresciuto coi racconti del martirio dei poveracci reclusi nei lager nazisti, e ora mi trovo a stare nel nazismo pulito del pareggio dei bilanci. Ne ho fin sopra i capelli di scimuniti.
mayoor
Mentre l'abusatissimo Mito di Giuseppe Conte risuona come coazione all'ascolto , enunciato del Verbo trattato con la noiosissima temperie fideistica e salvifica che conosciamo , il Mito di Letizia funziona semplicemente da invito , da mano sulla spalla . Con il suo retrogusto favoloso e insieme quotidiano dà del tu alla cordialità e all'acribia . Bene !
leopoldo attolico -
Uno scrittore, prima o poi, cade sempre nella tentazione di voler spiegare i propri libri. E se vi resiste, omettendo la nota d'autore come una lettera di consegna del libro al suo destino di carta, concentra intenzioni e significati nel titolo; così ne “La disgrazia elementare”, titolo del libro da cui è tratto il brano pubblicato, è racchiuso il senso dell'ispirazione, per usare una parola logora ma efficace, che mi ha guidato ad attraversare la condizione di incoscienza dell'uomo contemporaneo di fronte alla catastrofe. In questo senso l' “elementare” è riferito ai quattro elementi pitagorici di alchimistica memoria, acqua, terra, fuoco e aria, e alla febbre che li consuma.
Dunque il libro è puntellato dalla realtà dei fatti di cronaca che ci parlano quotidianamente della distruzione scellerata del pianeta, spia di un'alienazione interiore e psichica che attanaglia l'anima negata e scissa di quest'uomo che dovrebbe cominciare la sua cura dalla riscoperta della bellezza (in senso etico), quasi una ri-cucitura armonica con tutte le materie del regno infuse di anima e vita.
Il classificatore che si muove in queste pagine è uno scrittore allo stremo delle forze che ammassa pile di fogli dove riporta elenchi di oggetti, o prodotti “che hanno trattenuto tutta l'eccitazione che accompagna ogni strumento nel suo uso”. Il mito di Marsia e Apollo ad apertura del percorso, (sempre nelle intenzioni di chi ha scritto), è quasi un rito di iniziazione al canto, che deve ricominciare dal mutismo (in cui forse è ridotta oggi la poesia?), o forse una voce che deve ritrovare i suoni dispersi dalle perpetue agonie di un "io" lirico che ancor oggi non cessa mai di morire e si lamenta in eterno... Il mito, infine, si è rivelato chiave di lettura (o archetipo prezioso di comprensione) di situazioni storiche e interiori assolutamente recenti.
Ringrazio gli amici delle acute e approfondite riflessioni ed Ennio Abate per l'opportunità di arricchire l'interpretazione e fornire nuovi spunti.Un caro augurio per l'anno che verrà e un cordiale saluto.
Letizia Leone
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