di Ennio Abate
Continuo in forma di appunti la selezione in ordine cronologico di miei scritti inediti o apparsi su riviste oggi introvabili che siano riconducibili al concetto ‘moltinpoesia’. Da un mio intervento del maggio 2005 al Convegno della rivista di Massimo Parizzi, “Qui. Appunti dal presente”, già pubblicato per intero (qui) estraggo questi 4 punti:
1.
Il presente Il
‘presente’, quello che abbiamo sotto i nostri occhi, è fatto di guerra, di
computer, di denaro, di televisione, di distruzione di uomini e natura. È da
alcuni secoli il presente inaccettabile del Capitale. O qualcuno crede che non
sia più qualificabile in tale modo e vada chiamato e vissuto come ‘presente’ e
basta? Staccato da ogni passato e senza futuro? Un frammento-Tutto?
Scisso per sempre da una storia?
A questa nuova fede non aderisco. Se un’altra visione del tempo – che
comporta un’altra forma di comunicazione (meno frammentata e più ragionata) -,
fosse oggi inconcepibile, penso di dovere sfuggire lo stesso a questo diktat e
al tipo odierno – leggero, veloce, emotivo – di comunicazione sua
propria. O, comunque, finché vivo, cercherò di trattenere memoria del ‘passato’
(della storia) e dell’azzurro respirato in altri tempi dai nostri padri
elettivi dentro ‘presenti’ altrettanto o più tragici di questo. (E un po’ forse
anche da noi).
Se poi, invece di un diktat, questa visione del tempo e della comunicazione
imposte dal Capitale, diventerà un gusto, un’etica, una politica condivisa da
molti (e, dunque, la forma mentale dominante dell’epoca postmoderna a scapito
di forme di pensiero e di comunicazione a più alto tasso di criticità), sarò –
per come posso – ad essa ostile.
2.
Una poesia esodante e finita nel pozzo della guerra in Irak Torno a questo
presente di guerra, di computer, ecc. Dov’è oggi una poesia in grado di
resistere e contrapporsi in quanto poesia al presente del Capitale?
Non la vedo nelle riviste di sola poesia o di sola letteratura e neppure in
“Qui. Appunti dal presente”.
Non è possibile? È forse in gestazione dove “prolifera la poesia
selvaggia: migliaia di libri stampati a pagamento e centinaia di piccole
riviste che pubblicano autori più o meno sconosciuti” (Mazzoni), che molti
disprezzano o rifiutano e altri portano come prova di un “vigoroso ritorno
d’interesse nei confronti della poesia”? O cova fra i giovani, magari quelli
“nati dal 1950 in poi”. O dal 1960 in poi. O dal 1970 in poi. A seconda dei
critici che erigono le ragioni anagrafiche a unico criterio valutativo e, al
posto della storia, si dedicano alle microstorie generazionali?
3.
Sarà davvero possibile
una poesia esodante contro questo presente? Non lo so.
Accenno a tante domande possibili. Verrà fuori dalla nebulosa o moltitudine
poetante che oggi si dà da fare confusamente in poesia? Sarà possibile
una grammatica della moltitudine poetante sulla falsariga di quella
accennata da Paolo Virno? È pensabile un’estetica moltitudinaria (un bello
della moltitudine) capace di non ribadire che le differenze di qualità fra
i testi (bello/brutto, riuscito/non riuscito) o fra le facoltà espressive e comunicative
dei singoli debbano cristallizzarsi in gerarchie estetiche, che, come da secoli
accade, non fanno che confermare e consolidare poteri economici, sociali e
politici fondati sulla violenza del dominio? Potranno mai ‘eccellenza’ e
‘mediocrità’ avere un senso includente e non escludente?
Non lo so, Ma bisogna riproporre a poeti e poetesse (e non solo a loro) il
problema di una qualità e di una bellezza comune, di tutti e per tutti,
che per sorgere e affermarsi deve essere veicolata da un linguaggio comune, sistemato
spero in un De vulgari eloquentia adatto ai tempi che chiamiamo postmoderni.
Un linguaggio comune può venire solo dalla piena espansione delle
potenzialità poetiche presenti nelle esperienze che, come
singoli-moltitudine, riusciamo a fare nel tempo di vita e nel tempo di lavoro,
per una buona parte di noi sempre più interconnessi e, in molti casi, già
indistinguibili.
Una prospettiva
esodante e moltitudinaria in poesia forse può essere solo intravista
allegoricamente. Accostando con la forza dell’immaginazione le ombre oscure che
oggi vediamo agitarsi nelle folle dei migranti, dei lavoratori dell’immateriale
e della nebulosa poetante.
4.
Troverei molto
simpatica una poesia che dichiarasse: sì, il frammento può a volte essere
imposto dalla stessa ‘realtà’, che non si decide, neppure scrollata, a “cacciar
fuori il resto”. Ma, vediamo un po’: è sempre e davvero così? Sempre è
impossibile liberare il dato concreto e quotidiano, il frammento, l’appunto di
diario, me stessa – la poesia – dai rischi di divagazione, di rimozione,
d’intimismo ineffabile, di solipsismo? È sempre da preferire che io mi allinei
elegantemente, conviva senza mai pestare i piedi e farmeli pestare (ma anche
senza dialogare o confrontarmi) con il pensiero di A, la testimonianza di B, il
saggio di C? E non sarebbe il caso di frequentare di più la ‘realtà’ anche se
non si sa più bene cosa indichi questa parola?
E poi aggiungesse: cari redattori di riviste, io che ci faccio qui in mezzo a
voi – frammentata fra frammentati, monade in versi fra monadi in prosa – mentre
ci spostiamo (o ci spostano) da un presente all’altro, in una sorta di danza
immobile planetaria. Non vi sembra che qualcosa non vada?
E finisse il suo discorsetto, scusandosi così: criticare è uno sport che
nel presente del Capitale si esercita sempre più a fatica. È fuori
moda. Ma io devo reimparare tale esercizio: mi pare che sia venuta meno
qualcosa di importante in questa scelta “epocale” di ficcare il naso così
addosso al presente da vedere solo i nei, i peli, i pori della sua pelle e di
riferire in scrittura solo di nei, peli e pori. Potremmo ridiscuterne?
1 commento:
Per commentare questi punti, utilizzo il secondo, che in un certo senso – almeno dal mio punto di vista – riassume un po’ tutto il problema di cui si è scritto.
Secondo me, di “poesia in grado di resistere, ecc.” ce n’è e ce ne sarà sempre; con quali risultati non si può sapere, perché non è suo compito risolvere i problemi, però ce n’è sempre. Potrei anzi dire che far poesia nel senso professionale (e quindi in modo qualitativamente alto) del termine è già porsi contro chi ci governa, a prescindere dai temi toccati; e se si vuol chiamare costoro “il Capitale”, va bene lo stesso, anche se trovo il termine riduttivo.
Certo c’è della provocazione in quanto scritto: perché se poi l’autore si prostra alle leggi di mercato, svilisce assolutamente il suo lavoro di contrapposizione; però, considerando quanto il Potere spinge al degrado culturale e perciò tifa per tutta la “cultura(?) da social” che si è manifestata negli ultimi decenni, almeno potenzialmente la tesi secondo me sta in piedi.
E potremmo anche dire che, stante la mancanza di memoria del popolo italiano, tutta la “poesia civile” che nel passato s’è occupata delle vicende italiane, è tuttora valida.
Quindi preferisco puntare l’attenzione di chi mi legge su due punti: la metodologia che sta alla base di detta poesia e la distribuzione.
Ecco, se per “metodologia” (sempre che, nella mia ignoranza critica abbia usato il termine giusto), la “poesia in grado di resistere” s’intende debba essere “poesia militante”, credo proprio che non ci siamo. Le ideologie stanno cessando il loro scopo di “manipolatori di masse” e si sta tornando a una visione irrazionale delle cose: quindi, continueranno ad esserci senz’altro degli epigoni dei grandi Maestri ideologicizzati della metà del secolo scorso, che magari tenteranno di attualizzare il genere; ma avranno sempre meno peso.
Si potrà tornare quindi a una nuova forma di poesia “nazionalpopolare”, che cioè con cognizione di causa e sufficiente bagaglio tecnico (come già accadde col Rinascimento) cerchi di cooptare le energie di una fascia della popolazione in una certa direzione. Su questo ho i miei dubbi: perché vediamo come il Potere abbia degradato tutto il sistema culturale dell’odierna società, dunque avrebbe semmai bisogno di una poesia che campi di slogan, piuttosto che di qualcosa di complesso, che abbia bisogno di capacità altrettanto complesse per la decifrazione. Senza dire che una poesia del genere sarebbe comunque funzionale al Potere. Però non mi sento di escludere che qualche autore tenti un’operazione del genere, con contenuti “alternativi”.
Rimarrà quindi, come antagonista, quella poesia che solo occasionalmente si serva dei canali ufficiali, per essere veicolata. E con questo tocchiamo il punto della distribuzione.
Non mi stancherò mai di dire e scrivere, che solo la creazione di un sistema di distribuzione alternativo a quello del mercato, potrà avere qualche possibilità di successo nella trasmissione di tutto ciò che culturalmente e artisticamente è “non embedded”.
Come dire che, a prescindere dal contenuto (e dall’Arte di cui si parla, perché la sudditanza al “pensiero unico” riguarda tutte le Arti), l’etichetta di “antagonista al sistema” verrà data proprio dal servirsi di questi canali e solo occasionalmente di quelli ufficiali.
Ovvio che finché la maggioranza sarà convinta che siamo in una sana democrazia e che basti cambiare (col voto) i vertici, per veder cambiare le cose, non ci si possono fare troppe illusioni che nasca un sistema distributivo del genere. Che dovrebbe essere gestito in sintonia dalle tre branche della cultura: autori, fruitori e distributori in senso lato; cioè editori, critici, gestori di spazi, ecc.. Non a caso, parecchi anni fa circolò in rete un mio scritto, nel quale teorizzavo la costituzione di “cooperative di lettori”; appello ovviamente caduto nel vuoto, per quanto ne so.
Ma ribadisco che questa è l’unica strada, se non altro per assicurare un minimo di ossigeno a qualunque artista si ponga seriamente contro l’attuale gestione del Potere.
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