sabato 22 luglio 2023

MOLTINPOESIA. APPUNTO 14: La fabbrica delle antologie poetiche (2007)



di Ennio Abate

Ripubblico con alcune ripuliture l’intervento che lessi il 15 marzo 2007 alla Casa della Poesia (Palazzina Liberty, Milano).

  

 

«L’artista non è semplicemente colui che ascolta sé come sorgente di verità… Abbiamo bisogno di specialisti della letteratura e del mondo;  così come abbiamo bisogno di poeti della poesia e del mondo».

(Giancarlo Majorino (Atti del convegno di Letture, 1997)

 

1. Parto da una premessa che dovrebbe chiarire subito il senso di quanto dirò. È stato detto: «Per quanto male si possa dire del genere antologico… non se ne può fare a meno» (Parola plurale, pag. 10) E, in effetti, di antologie della poesia contemporanea se ne fanno e se ne faranno ancora. Ma è difficile occultare che la forma-antologia sia in crisi. E aggiungo: come la forma partito.

2. L’accostamento antologie-partiti, che potrebbe sorprendere, mi pare motivato. In poesia le antologie poetiche hanno avuto una funzione di orientamento simile a quella svolta dai partiti in politica (almeno tra Otto e Novecento). Come i partiti hanno formato delle élites di riferimento per classi o gruppi sociali in ascesa, le antologie l’hanno fatto tra gli studenti, i lettori, gli apprendisti poeti. In entrambi i casi è stata così riaffermata una tradizione elitaria (fortissima specie in Italia) contrastata al massimo da altre élites. Quasi una darwiniana selezione della specie letteraria, insomma. Con conseguenze sulla lettura, l’educazione alla poesia e la sua diffusione sociale che a me paiono negative (ma sulle quali in questa occasione non mi soffermo).

3. Non nego, tuttavia, che in passato la forma antologia abbia avuto dei meriti. Si pensi, ad esempio, alla trasmissione di saperi di base sulla poesia e sui poeti da una generazione a un’altra. Per cui un pubblico - forse non tanto vasto - di lettori e studenti in formazione ha tratto vantaggio dalla lettura di antologie ben meditate, perché posto da subito di fronte ad una sintesi chiara e autorevole della produzione poetica di un’epoca che gli faceva conoscere, malgrado vuoti o esclusioni, un certo numero di autori-monumenti capaci di parlargli della vita e del mondo in modi insoliti, affascinanti. Non sempre e di sicuro “il meglio” (concetto sempre opinabile e variabile), ma almeno i “fondamentali” venivano  assicurati. Il che permetteva d’interrogare – a volte con più libertà, a volte con alcune restrizioni - anche il resto o di spingersi anche verso i margini, i “minori”, gli esclusi; e magari anche verso l’extrapoetico.

4. I limiti dell’antologismo, presenti forse fin dalle origini del genere, sono diventati, però, soprattutto nel secondo Novecento, più evidenti fino a indurre buona parte della critica accademica a non antologizzare più la poesia contemporanea.  Berardinelli ha stilato una certificazione di morte, nel 1984, non solo dell’antologia di poesia ma forse, più in generale, della critica stessa: «Nessun catalogo, nessuna bibliografia, e tanto meno nessuna antologia potrebbe ormai contenere il mare della Nuova Poesia Italiana. Nessun Ercole dell’informazione e della critica potrebbe venire a capo di questa Idra dalle mille teste».

5. Oggi l’antologia di poesia contemporanea, perciò, è in partenza un colino con la rete bucata. Dovrebbe filtrare un oceano eterogeneo, limaccioso: quello della «nebulosa poetante» o dei «moltinpoesia», di cui ho parlato altre volte. Ma ancora più eterogeneo e limaccioso, anzi in ebollizione e in guerra permanente, è proprio il mondo contemporaneo a cui l'antologia poetica dovrebbe richiamarsi. Perché è in esso che critici, poeti, poetanti e lettori - loro malgrado - si trovano, senza riuscire più – come tutti del resto - a spiegare o a spiegarsi. E forse bisognerà aspettare che vengano messi a nostra disposizione strumenti diversi da quelli finora usati. Ormai indispensabili per capire il mondo d’oggi, ma altrettanto e forse più per scrivere una qualsiasi antologia di poesia contemporanea.

6. Cosa difficile costruirli questi strumenti. Perciò la crisi. Perciò  un dibattito complicato da seguire su moderno/postmoderno. Non si sa che pensare di quanti si dichiarano postmoderni (più o meno critici)  e sono pronti a giurare che siamo su un terreno nuovo rispetto al passato; che non c’è più dialettica che riconduca all’Uno, a una sintesi; che non c’è più misura (e, quindi, canone), ma dismisura; che non si sa se ci sarà  mai più un nuovo canone (della cultura postmoderna) o se debba esserci; che l’innovazione in corso è «mostruosa», ma  starebbe comunque formando la «creta costruttiva di nuovi mondi»; e che comunque, «poesia e speranza sono oggi ravvivate, ma al di fuori di ogni continuità con la poesia e la speranza del moderno». Ma neppure più si ha fiducia piena in quanti si contrappongono al postmodernismo e vi vedono un’ideologia dannosa; e vorrebbero non liquidare il pensiero dialettico, il senso della contraddizione, la tensione che percorre internamente la poesia; e guardano ai suoi limiti, ai «confini della poesia» (Fortini), temendo una sua confusione con il mondo, con la vita,  con una soggettività poetica, libera ma vuota,  che cancella l’alterità del mondo (più piattamente: la realtà) e la riduce a linguaggio, a sistema di segni, a mondo codificato e «già detto», fatto di forme svuotate con le quali la poesia dovrebbe svolgere ormai solo dei giochi decostruttivi.

7. Da qui anche  un interrogarsi scettico su canone sì/canone no. Dopo quello raffigurato nella triade Carducci/Pascoli/ D’Annunzio e dopo quello Ungaretti/Saba/Montale chi canonizziamo?Insomma, di fronte  al «tempo del gremito» (Majorino), dei sempre più invasivi mass media e Internet, , l’antologia non pare possa avere più la funzione storica positiva che in passato ha avuto: quella di antologia-manifesto (futuristi, Sanguineti); quella di antologia-museo (Mengaldo); e neppure quella di ecologia della letteratura o della poesia di cui parlò a suo tempo Fortini. 

8. Nel groviglio confuso di questa crisi collocherei anche le reazioni spicciole, empiriche, quasi mai  teorizzate, di quanti, per generica passione, pur non passando attraverso il colino delle odierne antologie di poesia, si interessano di poesia: «la nebulosa poetante» (o moltitudine), i «moltinpoesia». A prima vista è innegabile che - consapevoli o meno della crisi - cercano altri parnasi o parnasetti, sfogano un desiderio confuso in mille rivoli carsici, in una produzione spasmodica e caotica di testi e di piccole pubblicazioni,  in fondazioni di riviste, piccole case editrici “alternative” o “indipendenti” e ora di siti su Internet. Alcuni, che li osservano con cipiglio e da collocazioni  in apparenza più inattaccabili, li vorrebbero solo come lettori o consumatori paganti e plaudenti. Ma i moltinpoesia non pare vogliano essere più esclusivamente lettori. Sono  perlopiù  - pare - scriventi o lettori/ scriventi, o lettori/critici. E perseguono - in latente, borbottata, mai del tutto dichiarata contrapposizione  con l’elitarismo delle università, delle case editrici maggiori, delle fondazioni - un loro ambiguo elitarismo di massa, frutto indiretto della scolarizzazione della società degli anni 60’-70,  sempre più a disagio e fuori tempo nella società dello spettacolo e dei mass media. 

9. Come reagiscono, invece,  gli addetti ai lavori nelle università, nelle case editrici, nei giornali? Hanno fissato - mi pare -  i loro valli difensivi.  Hic sunt leones. Insistono a farsi antologie alla vecchia maniera elitaria, arrivando a volte alla loro parodia.  (Come Daniele Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi: un esempio di individualismo poetico fuori stagione e alla ennesima potenza). Altri, come Enrico Testa (Dopo la lirica) - serio, pensante - chiudono alla sperimentazione  e puntano sullo “specifico letterario”. O accettano la cancellazione di ogni categoria letteraria: corrente, gruppo o tradizione. O ripropongono una qualche triade del presente (Ceni, Mussapi e Rondoni)  nostalgica imitazione di quelle dei bravi liceali di un tempo che fu.   Oppur inventano l’antologia “espansa”, una sorta di pesca più o meno accorta e ragionata nei bacini più limpidi (per loro) della nebulosa poetante. Come le antologie di Loi –Rondoni o di Cucchi-Giovanardi. O come – un ibrido che, però,  fa eccezione e di cui [ho già detto], Parola plurale (qui e qui).

10. Concludendo . Il vero rischio per me oggi è che più che ad una scoperta del plurale ci si rassegni ad una ideologia soporifera del pluralismo, che sostituisce il vituperato monismo di una volta. Vorrei, invece, ragionare sul plurale come problema da cui partire e non come punto d’arrivo assodato e indiscutibile. E porre domande: come sviluppare il plurale nel campo della poesia e della critica? cosa tentare  al posto dell’antologia? e per mirare a cosa? Come punto di partenza  in un’ottica pienamente plurale, al posto dell'antologismo, vedrei con favore la stesura di dizionarietti della moltitudine poetante e di annuari ben pensati. Meglio mappare tutto il plurale possibile.  Anche quello che fa arricciare il naso a qualcuno. Meglio mantenere fluidi, come in vasi comunicanti, livelli alti, medi, bassi che moltiplicare monadi, gruppetti, cordate amicali incomunicanti. Certo, un semplice inventario di testi e di nomi non dirà  se e cosa la poesia d’oggi covi in sé di liberatorio o se non si riduca - come molti  insinuano o sospettano - a semplice sfogo psichico che produce forme espressive epigoniche o velleitarie.  Ciò detto, non mi sento neppure di scartare del tutto l’antologismo. Forse lo si può anche rinnovare. Vorrei evitare, cioè, un aut-aut: o l’antologismo (più o meno elitario) o l’anarchismo delle  migliaia di pubblicazioni autoreferenziali. Non approvo, però,  l’antologismo elitario. Penserei a una futura antologia della moltitudine  poetante, di cui Parola plurale potrebbe essere stato un assaggio. E, se siamo nella postmodernità (cosa su cui non giuro), sarebbe un bene che  la moltitudine - anche quella poetante - tenti di costruirsi  una propria grammatica (Virno), una propria sintassi, magari imparando qualcosa dal moderno, invece di cancellarlo con una riverenza o uno sberleffo. Far incontrare la critica (un Virgilio  collegiale?) con la moltitudine poetante (un Dante fatto di molti?) è un’idea forse utopica, ma stuzzicante. Penso perciò che i moltinpoesia debbano costruirsi i loro luoghi, i loro laboratori (uno lo stiamo provando qui…) e tentare il passaggio all’espressione piena del plurale, alla cooperazione, all’individuazione di un “noi” comune , che ci potrebbe tenere insieme senza farci smettere di essere singoli. Si dice che la poesia contemporaniea sia stata  stravolta perché avrebbe surrogato per molti il vuoto lasciato dal tramonto della politica (Tronti) e che le esistenze dei singoli saranno sempre più chiuse; o che essa sia  il surrogato a buon mercato di un’analisi, comunque costosa e non a tutti permessa. Facciamo la tara sul disprezzo o lo snobismo presenti in certe diagnosi e andiamo a verificare  se in questi laboratori di poesia/sulla poesia  si possa imparare o meno a distinguere le spinte estetiche e politiche capaci di generare una buona poesia dei molti. Avendo chiaro che non siamo semplicemente ad una Odissea di Forme poetiche ma anche ad una Odissea delle forme di vita e ciascuno deve farci i conti.  

 

15 marzo 07
Casa della poesia Palazzina Liberty - Milano

 

 


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