sabato 13 marzo 2010

Ennio Abate: Una parola quasi plurale. Sull'antologia di Sossella editore (giugno 2007)

Parola plurale è un’antologia. Presenta testi di 64 poeti italiani contemporanei e il lavoro critico su di essi compiuto in modo collegiale e in cinque anni da otto giovani critici. Il titolo, ripetuto nella variopinta copertina in molte lingue, oltre a sintetizzare questa molteplicità di voci, rimanda al criterio che ha guidato la preparazione dell’opera: la poesia non è più un linguaggio unitario e ampiamente condiviso ma solo una parola plurale, a comunicazione più precaria e limitata. L’introduzione, 1975-2005. Odissea di Forme, motiva la scelta di esplorare «empiricamente», senza pretese di «canonizzare e storicizzare il presente» la produzione poetica italiana dell’ultimo trentennio: attorno al 1975 - anno per gli autori fortemente simbolico (Montale ottenne il Nobel, fu ucciso Pasolini e uscì Il pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli, antologia cult da cui questa prende le mosse) - s’è aperta una «faglia epocale» (causa più lontana e profonda il ’68) che ha separato la Poesia Moderna, dotata di una «Idea della Forma», da quella d’oggi. Questa - novella Ulisse - vive altre peripezie, una «Odissea di Forme» appunto - trattate qui in 4 capitoli (deriva di effetti, ritorno alle forme, rimessa in moto, apertura plurale) dove i poeti selezionati - noti, meno noti, sconosciuti - vengono distribuiti. Un occhio sociologico (alla Bourdieu) nota tra loro una cresta di docenti universitari, una corona di dottorandi e collaboratori dell’editoria, uno spruzzo d’insegnanti di scuole medie e una rara avis “proletaria” (la Grisoni). Uno geografico (alla Dionisotti) s’accorge di preferenze e competizioni tra personalità, dipartimenti e case editrici delle ex-patrie lettere. Lealmente dichiarata, ad esempio, è l’avversione al canone «aziendale» dei “mondadoriani” (Cucchi-Giovanardi) e ai poeti-antologizzatori (Loi-Rondoni, ecc.), che nella «latitanza della critica» ne hanno preso malamente il posto. L’inventario dei testi poetici, presenti in proporzioni diversde per ciascun poeta ma abbondante (il volume è di oltre 1100 pagine a caratteri tipografici spesso minimi e con una sterminata bibliografia), va da quelli tendenti alla prosa o ai «romanzi poetanti» a quelli che recuperano le forme metriche tradizionali o i dialetti, dal taglia e cuci neoavanguardistico allo scandaglio del corporeo post-human. Deriva, corpo, quotidiano, forme, tragico, deformazione, plurale, homo massmediale sono le nozioni ricorrenti nei saggi generali o dedicati ai singoli poeti. L’antologia non smentisce, dunque, il proprio titolo, pur ragionando su una sezione della produzione poetica contemporanea comunque ristretta: quella monitorata da alcune cattedre universitarie (Roma in primis) e da alcuni editori “minori”. La matrice “para-elitaria” è evidente nei tic e vezzi linguistici di molti saggi, nelle preferenze filosofiche heideggeriane e nicciane d’area soprattutto francese (ricorrono i nomi di Deleuze, Nancy, Artaud, ecc.), in certe vischiose complicità generazionali. Si tratta però di un’opera seria, colta e agguerrita e che ha il coraggio di misurarsi con l’odierna nebulosa poetante invece di ignorarla come fa gran parte della critica accademica. Due le obiezioni da muoverle. La prima. Imboccata la via del plurale, del molteplice (di Deleuze insomma e sullo sfondo - pare - della «democrazia assoluta» di Spinoza), non si capisce bene perché i curatori insistano ancora a fare un’antologia, anche se più plurale di altre. In altri termini (politici), sembrano contraddire le loro premesse e adattarsi ad allargare (relativamente) la sfatta «democrazia reale» del Parnaso italiano. E forse per questo nel limaccioso mare magnum della poesia o similpoesia (Raboni) odierna essi gettano, senza un drastico e indispensabile riesame, le medesime reti dello specialismo universitario forgiate sul culto dei Grandi Autori, rischiando di prendere i soliti pesci. Si potrebbe pensare di loro quello che diceva Tocqueville di sé: «Sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla». Aristocratici non sembrano. Ma impressiona la mole di materiale critico e poetico, a volte più che complesso, offerto (o scaricato addosso?) a lettori con tutta probabilità distanti da queste problematiche e che dovranno arrangiarsi ad esplorarlo (anch’essi «empiricamente»?) come potranno. La loro è sì una parola plurale ma senza note. E mancano soprattutto quelle che aiutino a distinguere il plurale che libera da quello che opprime (in lingua mortua pre 1975: del Capitale). La seconda. La poesia - dicono troppo ottimisticamente gli autori dell’antologia - «serve, eccome, serve a tutti appunto senza servire nessuno». L’affermazione è generosa e simpaticamente paradossale. Ma siamo proprio sicuri? Le inquiete interrogazioni di alcuni dimenticati maestri del passato, qua e là omaggiati ma in realtà evitati - ad esempio di un Fortini sui confini della poesia (arte e poesia non saranno «fiori sulle catene»?) - sono bellamente saltate. Si ha insomma l’impressione che gli autori abbiano troppa fretta di celebrare il nòstos della poesia. Ma in quale Itaca essa torna in tempi di globalizzazione (e di guerra globale)? Sarà un nòstos di resistenza o di accomodamento?

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