sabato 31 dicembre 2011

Moltinpoesia
Dialetto terra del rimorso?

Sul dialetto in poesia oggi
Una discussione del 2009 con un inserto del 2004

Il dialetto - questa è la mia ipotesi - è forse la nostra terra del rimorso, come diceva Ernesto De Martino del mondo contadino che in Italia  verso gli anni Cinquanta si stava avviando alla sua apocalisse (quella indotta dalla modernizzazione industriale). Il post di Giorgio Linguaglossa «Lingua delle maschere» (o lingua delle nacchere?)[qui] ha riproposto la controversa questione della funzione del dialetto nella poesia contemporanea. Ed ha suscitato una vivace discussione. Segno che l’argomento  ha ancora risonanze profonde in quanti  sono legati al dialetto sia da questioni biografiche e storiche e sia da un investimento che potrebbe dirsi mitico. A riprova di quest’attenzione pubblico i documenti di precedenti riflessioni  del 2009 e del 2004. Le faccio precedere da questi due video trovati su You Tube.  Con le loro immagini  in b/n, pulite e drammatiche,  restituiscono una piccola sensazione dello spessore arcaico che si cela  in alcune  pieghe della nostra discussione oscillante tra  nostalgia e  realismo. [E.A.]






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Da: P. 

Inviato: giovedì 5 marzo 2009 10.41

[…]Il dialetto é una lingua che non ha più passaporto, libera da prima da tutte quelle regole, consecutio e diavolerie artificiali che hanno eccitato e autolusingato redattori da Gazzetta ufficiale e - principalmente - fatto perdere agli studenti tanto tempo ad impararle. Una volta imparate, insegnate. Nella lingua di prima tutto é libero; é un unicum di natura storia sentimenti umanità cuore tante altre cose... e nessuna inutilità. Sarebbe interessante fare un bilancio sul perso/guadagnato nel passaggio "dialetto"/italiano e nel salvataggio di quest'ultimo dall'apporto della cultura extra-italiana. Un argomento non fine a se stesso ma per l'acquisizione di una maggiore consapevolezza. […]

2

Da: Ennio Abate
Data: 05/03/2009 11.11.43
Oggetto: tutto è dialettabile?

Caro P.,
[…]  Detto in breve e schematicamente, so che:
1) i dialetti si sono trasformati (più lentamente, magari in modi impercettibili) assieme a tante altre cose;
2) quelli che usiamo in poesia oggi sono tutti “di memoria” o comunque più o meno staccati dall’uso sociale (avevo fatto una discussione con Mario Mastrangelo in proposito alcuni anni fa; e forse la si potrebbe far circolare…)[Cfr. più avanti punto 3];
3) siamo tutti, volenti o nolenti, più o meno bilingue o tri  ecc. ; e, come non abbiamo cancellato i dialetti nativi, non possiamo cancellare ora le ”seconde lingue” imparate a scuola o nei contatti con altri/e; possiamo non sconcertarci per la varietà e pluralità del nostro presente, assecondare le trasformazioni, governarle in parte;
4) non possiamo accontentarci - non dico nella vita pratica, ma neppure in poesia - di una lingua (dialetto, lingua nazionale, lingua d’uso internazionale) ridotta a puro suono (o a significante senza significato o a significante a cui ciascuno attribuisce il significato che meglio crede); non possiamo ridurre interamente la poesia a sonorità o a musicalità;
5)  anche se dall’unificazione linguistica (e politica) dell’Italia ci avessimo perso e non guadagnato (per il nostro Sud e per i paesi ex coloniali propendo per la prima ipotesi), il problema ineludibile è che non possiamo tornare indietro; e perciò  dire che “il dialetto é una lingua che non ha più passaporto, libera da prima da tutte quelle regole, consecutio e diavolerie artificiali che hanno eccitato e auto lusingato” è abbandonarsi alla nostalgia, pensando a un’”età dell’oro” mitizzata e inesistente;
6)  Il meglio dei dialetti e della lingua italiana (il meglio del nostro bi-trilinguismo) va (può essere…) salvato solo gettandolo nella mischia feroce della crisi globale che tutto travolge.
  
3

[Inserto: Stralci di lettere del 2004  Abate-Mastrangelo sul dialetto]
  
Nov 2004

Da Abate a Mastrangelo:

Sul piano linguistico sono curioso di capire come si è regolato per la  grafia di certi termini. Ad es.: 'Roppo' (p.6) io lo scriverei 'Roppe' o ‘Ropp’’; 'micciariello' (30) lo renderei con 'micciariell'', ecc. Forse sono finezze filologiche, ma ogni tanto è bene concedersele.  Lei dice di aver seguito le «regole ortografiche della tradizione letteraria napoletana». Essendomi, per la resa grafica della mia raccolta, affidato esclusivamente alla mia soggettività, vorrei  sapere se ha utilizzato qualche dizionario, di  quale autore e di che epoca. Sono rimasto poi un po’ stupito e perplesso per l'inserzione di parole, che per me sono  italianissime, nel corpo del dialetto (Ad es: 'realtà' (p.9), 'tremore' (26), 'essenza' (36), 'esistenza' (64). 'sbrigliata' (p.67), 'preziosa' (p.68));  oppure di parole astratte dialettizzate (Ad es.: 'sulitudine' (p.13), 'cuncrete' (p.38), ''o guizzo' (p.52), 'rintocche', 'nu senzo' (p.64), ''o bisbiglio' (p.70), 'puisia' (p.74). 

La perplessità nasce da una mia convinzione (non so quanto fondata) che il dialetto è una lingua basilare, elementare e che il rapporto fra dialetto e lingua italiana non è mai stato storicamente un rapporto paritario e pacifico, ma gerarchico e conflittuale. Perciò certi termini astratti, filosofici o moderni, come ‘realtà’, ‘essenza’, ‘senso’, che sono strettamente collegati all’universo della cultura dotta, letteraria,  li considero in attrito e poco conciliabili con il dialetto, lingua locale, pratica, effettivamente  del popolo, almeno finché in Italia sono esistiti un  popolo e un universo culturale e materiale popolare, cioè fino alla prima industrializzazione.  (Tra l’altro ho amari ricordi dello scherno di certi professori della scuola dei miei tempi, che ci hanno  "italianizzati" con una  brutalità simile a quella con cui oggi i loro discendenti globalizzati anglicizzano attraverso informatica e mode varie ragazzi e giovani d’oggi). 

Per lei, invece, questo contrasto pare non esistere. Scrive nelle Annotazioni di aver fatto ricorso al «dialetto campano dei giorni nostri». E subito dopo aggiunge di averlo modificato per esigenze poetiche e che quindi  si tratta di un «dialetto parlato..., in realtà, solo dalle voci affondate nella mia memoria e dalle chimere della mia fantasia». E aggiunge: «ho attinto - come già nelle precedenti raccolte - di frequente alla lingua italiana». Per me tutto ciò non è cosa ovvia. Di più. Quando dice: «Ho anche coniato qualche termine nuovo, attraverso la fusione di due o più parole, spesso di significato opposto (Chisaraddo...)», l’attrito mi pare ancora più forte, perché certi sperimentalismi linguistici - tipicamente moderni credo o del Novecento -  davvero urtano (sempre per me...) con una certa staticità o lentezza nel mutamento del dialetto e del mondo popolare.  

Detto più brutalmente: il dialetto che noi usiamo, specie in poesia, è  lingua morta (io dico: carbonizzata). L’italiano no, anche se lo vogliamo considerare  in declino, subordinato a lingue più diffuse, ecc.  Certe mescolanze mi sono parse  sempre sterili e cervellotiche. Come quei tentativi, che vagamente ricordo furono fatti, di ampliare il lessico circoscritto del latino antico (lingua più che defunta) per nominare strumenti o oggetti moderni, che so: l’aereo o la motocicletta. Mi pare più corretto tenere  separate (magari anche graficamente) le parti in dialetto da quelle in italiano. E così ho fatto, in verità, in Salernitudine, dove ho usato il dialetto per immagini e sentimenti arcaici, infantili, intrisi di angoscia magica o fiabesca e l’italiano per quelle di riflessione, di ripensamento distanziato o per “incorniciare” la memoria carbonizzata, diciamo pure col senno di poi o di adulto.

            Infine […] le dico che trovo imbarazzante considerarmi poeta dialettale. Non per superbia di parvenu alla lingua nazionale che vorrebbe in qualche modo cancellare le sue origini “plebee”. Ma per quanto dicevo sopra: dialetto e italiano (e gli universi materiali, economici culturali che gli stanno dietro) restano differenti e non possono, per me, conciliarsi. C’è una frattura, una discontinuità. E credo che vada ricordata ed evidenziata. (Non ho studiato la questione, ma so che oggi molti scrittori di paesi colonizzati da inglesi o francesi e che si esprimono  in inglese e in francese so hanno da misurarsi con un problema simile).

Il mio ricorso al dialetto è stato scelta personale, circoscritta e suggeritami dalla necessità di rendere in una forma linguistica adeguata il contenuto infantile-materno affrontato in Salernitudine. Solo in dialetto mi è parso di afferrarlo nelle sue profondità. E questo è avvenuto molto tardi e ad un certo punto della mia vita. S’immagini che la base di partenza di queste poesie risale al ’60-’61 ed era in italiano. La rielaborazione in dialetto (non dunque una “traduzione”) è avvenuta solo attorno al ‘90-’91 e con arricchimenti insospettati rispetto al precedente in italiano. Segno, dunque, che il dialetto ha funzionato, mi ha fatto muovere con più libertà su temi che pur avevo già appuntato da giovane. Ma la parte in italiano (so che anche altri la trovano meno interessante) mi pare altrettanto necessaria. Accanto al sentimento e al lirismo io ci metto riflessione e  distanziamento critico. Non li escludo dalla poesia (con buona pace di nonno Croce). Mi paiono della stessa importanza. Riflessione e critica, però, hanno bisogno di una lingua più elaborata. Dialetto e lingua italiana per me sono perciò due diversi strumenti (ma dovrei aggiungere il disegno e la pittura) da usare per operazioni diverse. Con questo non dico che il dialetto, essendo più elementare, permette solo di esprimere sentimenti e non riflessioni. O che l’italiano letterario si presti solo per temi intellettuali.

Userò ancora, credo, il dialetto, ma vorrei però tenermi alla larga dagli equivoci e dai vicoli ciechi a cui la scelta esclusiva e"totalitaria" o modaiola del dialetto  può condurre. Non credo che sia il suo caso né so cosa lei pensi in merito o che dibattito ci sia nell'Associazione Nazionale Poeti e Scrittori Dialettali, di cui lei è socio. Ma le anticipo la mia posizione per poterne poi discutere. La  persistenza  del dialetto in poesia l’accetto. La sua tardiva valorizzazione da parte di alcuni accademici (mi riferisco alla ben nota antologia di Brevini, ma anche a varie aggregazioni letterarie) meno. Mi puzza di protezione burocratica. O peggio di tentativi fatti da cultori del dialetto alquanto isolati di conservarlo sotto teca. Non esiste più nessuna comunità dialettale veramente viva e omogenea […]. E, malgrado la nostalgia di singoli o  gruppi anche consistenti, non potrà più tornare.

Gli attuali parlanti in dialetto sono contemporaneamente anche parlanti in italiano (il bilinguismo su cui ci ha intrattenuto De Mauro); e oggi, soprattutto coi processi di globalizzazione,  sono in misura crescente più o meno anche anglofoni.  I poeti dialettali e i lettori di poesia in dialetto - schiera ancora più ridotta dei lettori di poesia - sono necessariamente colti (anzi a volte ipercolti).  E allora, non è un po’ paradossale una coltivazione “in serra” del dialetto da parte di scrittori e lettori che vivono in tutt’altro contesto economico-sociale-culturale rispetto alle comunità veramente dialettali del passato? Anzi, io credo che in certe situazioni – ad esempio qui al Nord dove sono sorti movimenti politici leghisti per me reazionari – il desiderio di un “ritorno alle radici”,  che nasce oggi da chiusure localistiche e dalla paura delle (pesanti e non entusiasmanti) trasformazioni in corso,  appare non solo illusorio ma si presta alla strumentalizzazione da parte di queste correnti politiche.

Non potrei accettare che il mio recupero di un dialetto carbonizzato e di memoria possa confondersi con ambigui discorsi sul dialetto come linguaggio più autentico dell’italiano. O con le pratiche clientelari delle Pro loco. O con l’illusoria riproposizione di comunità omogenee. Perché veniamo da secoli di mescolanze e di conflitti. E la mia è stata un’operazione di pietas familiare e storica: il mio libretto l’ho dedicato a mia madre, che ha vissuto quasi in pieno in quell’universo dialettale e culturale; e il titolo della mia raccolta contiene, sì, un riferimento a Salerno, ma anche un rimando - non certo localistico -  a un sentimento di solitudine o di inquietudine prodottosi in me e in molti altri proprio in seguito ai processi storici  che hanno portato alla morte del mondo comunitario contadino, da cui provenivano i nostri genitori e parenti.

            C’è poi un’altra ragione, su cui ha insistito molto Franco Fortini nel 1986 in un suo breve scritto (complicato magari dai troppi riferimenti storico-letterari): Il filologo e l’allodola, ora nel secondo  volume di Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano, 1987.  Il dialetto - egli sosteneva - è quasi sempre oggi ripreso solo come  lingua lirica, per esprimere «aree del sentimento e della esperienza... dal “basso” al dimesso-sublime o al quotidiano-patetico e, per questo...”concrete” e “dense”». E fin qua non ci vedo nulla di malvagio. Un «revival dialettale» attento alla lingua materna potrebbe controbilanciare secoli di patrie lettere o certi futurismi viriloidi e guerrafondai alla Marinetti. Ma da noi è stata forte  anche una tradizione di «liricità pura» (crociana, ermetica o giù di lì); e il timore di Fortini che il neodialetto possa  diventare «una forma più sofisticata, più elitaria, più tradizionalmente corporativa e conservatrice di altre, oggi come in altri secoli» non mi sembra campato in aria. Fortini in quel suo saggio, sfidava i neodialettali a «un confronto con la prosa; con la prosa ideologica, storica, filosofica, scientifica, con tutta la prosa – con la sua irrespingibile “paternità”». Forse pretendeva troppo. Forse davvero lo scarto fra dialetto e lingua nazionale è incolmabile. Forse davvero i poeti non dovrebbero fermarsi alla lirica pura (dialettale o in lingua nazionale) ma fare i conti con le trasformazioni di quella benedetta o maledetta «realtà», che – qui dissento da lei – non solo «esiste» ma si trasforma e ci trasforma.

Questo non significa che non si possano avere esiti poetici altissimi in dialetto: da Noventa a Pierro ai Zanzotto e Loi; e che proprio e solo in dialetto certi contenuti di realtà, che vanno appunto scomparendo o trasformandosi, possano forse essere ancora detti e parzialmente salvati. Ma, credo, a patto d’inserirli nelle lingue vive, in trasformazione. Ci sono altri contenuti che, detti in dialetto, stonano o non raggiungono quel grado di necessità che ne giustificano la scelta o  – peggio ancora – il dialetto non può proprio accoglierli. Ad esempio, non avrebbe senso che uno  traducesse un trattato di chimica in dialetto, quando migliaia di studenti lo leggono già a scuola in italiano.  Mi dirà la sua opinione.

Da Mastrangelo ad Abate:

 Rimane da ribattere qualcosa sulla concretezza del dialetto. Io vedo che lei in proposito ha le idee molto chiare. E forse ha ragione. Nel rispetto della sua concezione del dialetto, ha scritto cose interessanti e nuove, sono sicuro che ne scriverà altre.
Io penso invece di dover avere, nello scrivere poesie in dialetto, più libertà, meno divieti, meno steccati. Fermarmi solo dove la mia sensibilità mi dice che sono in agguato contrasti incomponibili,  cattivo gusto, cervelloticità, banalità: nemici coi quali combatto, non so se riesco sempre a vincere.
E questo pare richiamare un’altra questione che lei solleva, quella del mio linguaggio dialettale, dei miei asporti dall’italiano (realtà, essenza) della dialettizzazione di parole (puisia, sulitudine), del conio sperimentale di neologismi (Chisaraddò, campamurì, cielonfierno).
Quello che lei osserva è vero, ma tali operazioni sono praticate da tanti poeti (della nostra e di altre aree linguistiche), antichi (senzo, puisia, non li ho coniati io) e moderni. Nel mio caso posso dire che non sono operazioni pianificate a tavolino. Portano a presenze linguistiche che sono – ma questo è un mio parere e gusto personale, qualunque lettore mi può smentire – fastidiose nel dialetto se sono eccessive, armoniche o comunque dissimulate. Non lo sono se sono misurate: faccio di tutto perché questo sia il mio caso, ma ripeto non sono il miglior giudice, se lei le ha trovate  presenze sgradevoli, forse ha ragione.

Per farle un esempio, il poeta trentino Renzo Francescotti (75 anni, uno dei più autorevoli poeti dialettali italiani, tradotto in varie lingue, del quale ho recensito la sua più recente raccolta di versi Iris, pubblicata due mesi dopo il mio ultimo libro) accanto a poesie che evocano rugiade, erbe montane, buoi, fate, masi, ha scritto una poesia intitolata Celulare (Cellulare), un’altra, Letera da Bankok, un’altra ancora nella quale parla del Chiapas e del subcomandante Marcos, ma non mancano nei suoi versi i termini aborigeni, laser, dienneà, karma, né il ‘conio’ di parole nuove (paesdelnebion, che traduce con paesedinebbia,  nomenòmen, vedovazòvena = vedova giovane).
Questo mi ha un po’ sorpreso, ma non più di tanto: nelle poesie di Raffaele Viviani ho trovato creditori, cuccetta, flusso, salubre, cataratta, drammi…
Io forse non sarei arrivato a tanto, avrei considerato ‘distonici’ buona parte dei termini suddetti, soprattutto quelli usati da Francescotti, sarei stato più misurato e cauto, come cerco, come ho cercato di fare nella mia scrittura.
 Per quanto riguarda la sperimentazione di fusioni di parole, mi sono ispirato a qualche esempio offerto da scrittori napoletani, più che da poeti. Ad esempio Domenico Starnone nel suo libro Via Gemito, scrive ogni tanto brani di parlato dialettale, usato dai suoi familiari. Per dare incisività a certe espressioni, scrive caggiafà (anziche c’aggi’ ‘a fà), chiavechemmerda e addirittura un cionchetellocomomò (paralìzzati lì adesso).
Questa fusione che dà alle predette espressioni  un suono più forte e improvviso, come di schioppettata. In qualche mio testo poetico è venuto spontaneo adottarla: per rendere ad esempio la domanda Chi sa r’addò come un grido che esprima l’impellenza di una risposta, l’ho scritta chisaraddò
 È chiaro che per l’operazione poetica da lei compiuta, di pietas familiare e storica, che intendeva recuperare sentimenti arcaici, infantili, intrisi di angoscia magica o fiabesca, il dialetto concreto da lei usato è il più adatto - sarebbe stato poco adatto il mio - e io nella prima lettera che le scrissi lo notai subito, parlando di senso del magico, di evocazione favolistica…
Le dirò di più, il prelievo che lei fa attingendo a frammenti di antiche nenie dialettali (Maruzza, maruzzelle,… e ntane, ntane, ntane…) arricchisce e dà un ulteriore strato di arcaicità al tutto. E ancora: il suo dialetto, scritto in maniera grafica molto ‘difforme’ da quella della tradizione, delle grammatiche e dei dizionari (tornerò su questo punto) contribuisce, a mio parere, a creare un’aura di primitività pre-letteraria, di recupero di una pura oralità.

E veniamo a spendere due parole sulla scrittura del dialetto. Io mi sono regolato così. Ho progressivamente imparato (leggendo i poeti napoletani, consultando grammatiche e dizionari) a scriverlo secondo segni, criteri e regole ‘codificate’ da un uso letterario plurisecolare e da dizionari e grammatiche, appunto. È stata un’adesione all’ottanta per cento, non totale. Scrivo ad esempio roppo e non doppo, r’ ‘a e non d’ ‘a come dizionari e grammatiche imporrebero.
Leggendo il suo dialetto, che di tali regole non tiene conto, ho trovato una iniziale difficoltà, ma poi  sono andato al di là di tale problema, infatti nella mia lettera non ho fatto alcun cenno in proposito.

Ho pensato, per esempio, a qualcosa di simile al dialetto napoletano di Tommaso Pignatelli, uno dei più apprezzati autori dialettali campani, pseudonimo di un autore ignoto, forse un politico, si è fatto il nome di Giorgio Napolitano... Nel suo libro Pe’ cupià  ‘o chiarfo (Per imitare l’acquazzone), 1995, edizioni dell’Oleandro, Roma, scrive ad esempio: ‘nte frécule do iuorno (nelle molliche della giornata), ‘o sciato do mare, l’azzurro do cielo… i passi mei…e m’adduormo…Io avrei scritto ‘nt’ ê  frécule d’ ‘o juorno (ê = e ‘e: si fondono le due e in una e col suono più prolungato), ‘o sciato d’ ‘o mare, l’azzurro d’ ‘o cielo… ‘e passe mieje, e m’addormo.

Visto che lei garbatamente mi richiama alle finezze filologiche, le rispondo su tale punto.
Io penso che quello che lei propone, ad es. micciariell’ o ropp’ o roppe, anziché micciariello e roppo, è probabilmente da lei preferito per dare il suono di vocale muta alla o finale.

Le grammatiche però ci dicono, a proposito della vocale atona in posizioni finali, che mentre piena e distinta appare la pronunzia dei pochi casi in cui le vocali atone finali sono i e u (stu ppane, chesti pparole), il suono risulta labile e fievole… quando le vocali sono –a, -e, -o (cfr. C.Iandolo, ‘A lengua ‘e Pulecenella, 2000, Franco di Mauro Editore, Sorrento, pag 70).
E l’autore fa l’esempio di mamma, père e nonno, parole delle quali la pronunzia della vocale finale –a, -e, -o è sempre la stessa, rappresentata dal simbolo API della a capovolta.
Insomma scrivendo micciariello, micciarielle o micciariell’ il suono non cambierebbe. Scrivendo micciariello si ha il vantaggio, però, di chiarire che è singolare e si è conformi come hanno scritto un termine simile tutti gli autori.

Per le altre due questioni che lei pone, il mio parere personale è questo.
La contraddizione di una poesia dialettale colta, non compresa da chi parla il dialetto (strato sociale ben definito), ma compresa dalle persone colte non parlanti il dialetto (altro strato ben definito) poteva essere stridente e incomponibile cinquant’anni fa. Oggi tutti parlano un linguaggio televisivo, c’è un maggiore livellamento linguistico e culturale. Per limitarci alla nostra regione, molti sono quelli che parlano e capiscono il nostro dialetto. Quelli di essi che hanno strumenti per comprendere e decodificare il linguaggio della poesia, possono comprendere la poesia dialettale moderna e non solo ‘A livella di Totò.

La questione sollevata da Franco Fortini è – a mio parere – fondata. La poesia dialettale, che già adesso ha – in alcuni autori – troppa complessità ed autoreferenzialità, potrà divenire in futuro (c’è, a mio avviso, questo rischio) elitaria, snobistica, circolante solo tra addetti ai lavori.
Ma di questo, come di altri temi ai quali ho dato risposte insufficienti, discuteremo un’altra volta. 

Dicembre 2004

Da Abate a Mastrangelo

E vengo alla questione della scelta del dialetto, riallacciandomi a quanto già ti ho scritto sul mio atteggiamento in proposito.
Nelle risposte all’inchiesta sulla Moltitudine poetante, che ho riletto in questi giorni, dichiari che il dialetto è diventato per te «un mezzo linguistico più congeniale» per «recuperare la memoria». È, direi, quello che è accaduto anche a me, che ho trattato - credo - il tema del materno e dell’infanzia più a fondo ricorrendo al dialetto. 
È una scelta per entrambi pienamente giustificata: per un certo periodo della nostra vita (tu più a lungo...) abbiamo parlato in dialetto in tante occasioni, con  persone vive, in determinati luoghi. Esso ha funzionato  a distanza di tempo un po’ come la madeleine di Proust: ha agevolato la memoria involontaria.
È una scelta di apertura o di chiusura? Questo problema me lo sono posto e ancora più me lo pongo, dopo che sempre in questi giorni, stimolato dall’arrivo del tuo libretto, ho cercato di approfondire la questione della poesia in dialetto andandomi a leggere l’introduzione di Franco Brevini al suo La poesia in dialetto, Mondadori, Milano 1999 e, in particolare, quella riguardante il Novecento.
La risposta per me non è facile e mi sento combattuto. Nella mia precedente lettera mi accorgo di aver messo le mani avanti, scrivendo «il mio ricorso al dialetto è stato scelta personale, circoscritta e suggeritami dalla necessità di rendere in una forma linguistica adeguata il contenuto infantile-materno di Salernitudine» e subito dopo «ma la parte in italiano... mi pare altrettanto necessaria» e mi sono dilungato sui rischi dell’attuale ripresa «neodialettale», sollecitando un tuo parere.
Da quel che mi scrivi credo di capire che, pur muovendoti in una cornice «neodialettale», tu lo faccia con sufficiente equilibrio e prudenza. Ma trovo un po’ ottimistico che tu veda il rischio di «troppa complessità ed autoreferenzialità» soltanto in un lontano futuro.
Il quadro che ne dà Brevini, ragionando su un piano storico  molto ampio, è più allarmante. (La sua antologia va dalle origini della lingua italiana fino al Novecento, risistema studi precedenti e gli è costata sei anni di lavoro: un’opera di tutto rispetto e guidata da criteri che ho trovato condivisibili – devo anzi correggere il giudizio frettoloso che ho dato su di lui, confondendolo con gli accademici valorizzatori del revival dialettale, mentre egli ne mette in luce le ambiguità su cui io pure insistevo),
Brevini  mi ha confermato la prevalenza fra i neodialettali del registro lirico (anche a te caro) rispetto ad uno più narrativo. Egli sottolinea l’uso straniante del dialetto, ormai staccato (come tu stesso confermavi)  dal quotidiano sociale, e trasformato in  una lingua privata, evocatrice, intimistica.
Più che «neodialettali» - dice polemicamente  - dovrebbero chiamarsi «postdialettali», cioè poeti posteriori al declino del dialetto come mezzo abituale di comunicazione quotidiana e che  immettono in lingue desuete i loro sentimenti moderni, e parlano della  stessa realtà dei colleghi che usano la lingua italiana (parlano de vivis in lingua mortua, p. 3213), ricorrendo spesso a forme più arcaiche di quelle dell’uso corrente (è il caso di Loi, Marè e  Giannoni).
La ripresa del dialetto, aggiunge, ha portato ad una corsa verso l’alto, ad una ricerca di nobiltà e squisitezza che ne ha fatto uno strumento più prezioso della lingua italiana. Da  tradizionale codice antiletterario si è trasformato in codice iperletterario, in una lingua selettiva e anacronistica che si oppone all’italiano standard: «una specie di nuovo latino con cui lo scrittore fugge il poco attraente “volgare” d’uso comune».
 Quest’analisi, che non posso avallare del tutto, mancando io di una conoscenza approfondita della poesia in dialetto, mi pare però abbastanza condivisibile; e rafforza una certa mia diffidenza di fondo verso un certo tipo di ripresa del dialetto.
Brevini, al termine del suo lavoro  pone anche una questione di sostanza, ineludile per tutti: cosa accadrà con la scomparsa degli ultimi parlanti con una competenza almeno passiva del dialetto (p. 3224)  e in un’epoca in cui anche l’italiano sembra inclinare verso lo statuto di un dialetto? (Preoccupazione anche mia, quando ti accennavo ai processi di «globalizzazione» e ai loro effetti sulle giovani generazioni).
La lettura di Brevini mi ha posto sul chi va là anche su un altro punto: fino a che punto sono strettamente legati al dialetto i temi che io e te trattiamo in poesia?
 Nel mio caso ho creduto che lo fossero; e, infatti, ti ho scritto che il dialetto mi aveva fatto muovere con più libertà su quei temi, che pur avevo fissato da giovane in italiano.  Invece Brevini sostiene in maniera documentata che «non esistono temi dialettali ma modi dialettali di trattare ogni tema». 
Non c’è, insomma, come sembri credere anche tu, un tema che si adatta di più al dialetto e meno alla lingua italiana o viceversa (cosa che anch’io in parte sostenevo, dicendo che «riflessione e critica hanno bisogno di una lingua più elaborata», anche se aggiungevo: «questo non vuol dire che il dialetto, essendo più elementare permette solo di esprimere sentimenti e non riflessioni». Eco un punto da approfondire dopo questa rilettura del libro di Brevini. Più «elementare», in effetti,  è stato effetti il dialetto che io ho conosciuto, sia perché ero ragazzo, sia perché i parlanti da me conosciuti erano prevalentemente contadini e gente dei ceti più bassi.
In proposito Brevini chiarisce a sufficienza, ad es., che in dialetto è stata scritta anche poesia d’impegno sociale, e documenta – cosa cui non facevo attenzione - che in passato, ai tempi delle repubbliche marinare a Genova e a Venezia, in tribunale si dibattevano i processi in dialetto.
Oggi poi, soprattutto in poesia, la tradizionale gerarchia, che aveva messo a lungo ai margini il dialetto facendone uno strumento di opposizione “dal basso” al sublime della tradizione colta in lingua italiana, non esiste più; e si è addirittura ribaltata. E riporta il giudizio allarmato di Mengaldo: in dialetto oggi si scrive di tutto, il che, «non è certo una prova della sua salute (XCVI- XCVII).
Non ci sono, dunque temi (o termini, come io ti scrivevo) che stonano con il dialetto?  
Direi  ancora di sì, se si guardano le cose da un’angolazione storica: sicuramente fino ad una certa epoca, quando l’attrito fra italiano e dialetti era forte e temi e termini già affinati  in italiano o meglio nella cultura dei ceti alti (che poteva essere anche in dialetto – vedi ancora l’esempio di Genova  e Venezia) cozzavano con quelli dei dialetti, rimasti confinati a esperienze locali o regionali popolari e, dunque, con un repertorio più limitato.
Devo ammettere invece di no, se guardo al presente. Gli esempi che mi fai di Francescotti con i suoi intarsi di  termini d’attualità rientrano in pieno in  questo uso «postmoderno» dei dialetti, che non tiene più conto della loro storicità e quindi li può mescolare con parole italiane o straniere, in modi più o meno arbitrari o “sperimentali”.
Inserita nella cornice «neodialettale», la tua ricerca poetica direi che  si trova in autorevole compagnia. La mia invece se ne tiene alla larga. Questo non significa che non possiamo confrontarci e capire meglio.  Ci salverà il neodialetto dall’usura dell’italiano standard pompato dai mass media? Non impedisce di  affrontare contenuti e problemi che hanno una loro importanza e urgenza? Discutiamone.
La mia posizione “di principio” (ma rivedibile) al momento è questa: se so che in una lingua (o in un dialetto) si scrivono cose interessanti, cerco di farmele tradurre e, se possibile, mi studio quella lingua (o quel dialetto) per essere più autonomo nella conoscenza.  Se poi  scrivo, so di essere legato  alla lingua o alle lingue in cui mi sono formato e me ne servo come strumenti per arrivare a conoscere quel di più che per me ha un valore. Cerco insomma di non feticizzare lo strumento linguistico, di non tramutarlo da mezzo in scopo. Tutto qua.]

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Da: Mario Mastrangelo 

Inviato: venerdì 6 marzo 2009 16.09
Oggetto: Re: un altro punto di vista

Sono lieto di aver contribuito - con l'invio delle mie poesie in dialetto salernitano - ad animare la discussione […]. Sul dialetto ci sarebbero da dire tante cose. Dovremmo tutti essere un po' glottologi per discuterne con rigore scientifico. Meglio - a mio avviso - restringere il discorso al dialetto in poesia. A mio parere è il dialetto un mezzo espressivo validissimo, un legno col quale si può costruire qualsiasi cosa. Riferendomi alla mia attività di autore, affermo che preferisco scrivere in dialetto perché:
1. Il dialetto in poesia è per me un'area di maggiore libertà, anche se è una libertà relativa, dovendo l'autore impadronirsi di un nuovo bagaglio di regole (grafiche, grammaticali...);
2. E' un linguaggio meno "consumato" della lingua, cioè sembra che in esso il già detto, l'ovvio, lo scontato, sia meno facile da trovare. E questo vale anche per il mio dialetto campano, che avendo alle spalle secoli di canzoni, poesie, detti, proverbi... sembra alquanto usurato, avendo al suo interno cliché, luoghi comuni, oleografia, modi di dire proverbiali, che occorre evitare come campi minati (sicuramente Pasolini, Pierro, Marin non avevano questo problema con i loro dialetti...vergini);
3. E' un linguaggio meno ricco lessicalmente, ma più sonoro. La povertà lessicale (soprattutto nell'area delle cose astratte, cosa importante per una poesia meditativa come la mia) è compensata da una ricchezza di termini e locuzioni corpose e sonore.

Con Ennio Abate abbiamo a lungo discusso se col dialetto si può scrivere qualunque poesia. Lui sostiene che il dialetto è valido soprattutto come poesia di memoria e - forte di questa convinzione - ha scritto un libro, Salernitudine, dove s'immerge nel suo passato con stupore e candore infantile, giungendo ad evocazioni favolistiche, alla celebrazione delle figure genitoriali ed a riflessioni esistenziali, sempre guidato da uno scavo nei suoi ricordi per una operazione di pietas familiare.
Io ho utilizzato il dialetto della sua stessa area geografica per costruire poesie di ispirazione diversa, dalla vena narrativa allo slancio lirico-sentimentale, dalla meditazione all'ironia, all'eros, alla tensione verso l'oltre. Ennio dice che, dove ho affrontato alcuni temi, per i quali il dialetto non è adatto, gli esiti  poetici sono meno buoni.
[…]

6

Da: G.
Inviato: sabato 7 marzo 2009 14.35
Oggetto: DIALETTO

Caro Ennio, poiché io sono uno a cui la penna pesa, non intervengo spesso nei dibattiti del gruppo, ed anche stavolta lo faccio a fatica e solo per mettere in comune la mia esperienza a tal proposito. Come tu sai, d'estate io torno sempre al mio paese d'origine, da cui ogni anno mi sento più estraneo perché ogni anno trovo sempre più cambiate la cultura e la lingua che mi facevano partecipe di quella società, che ormai non è più quella società frutto di un sistema economico quasi autosufficiente legato agli scambi tra i contadini della campagna e gli artigiani del paese. Esisteva allora in ogni paese una lingua fondata sull'esperienza della propria cultura materiale, con una sintassi molto evoluta e non sempre coincidente con quella della lingua ufficiale (per il mio paese penso alla formazione del superlativo non mediante un suffisso, ma mediante il raddoppio dell'aggettivo, e alla costruzione particolare della proposizione finale in dipendenza da verbo di moto) e con un vocabolario ricchissimo di sostantivi indicanti oggetti concreti, ma povero di parole derivate o astratte. Esisteva in questa società anche una produzione poetica che era però limitata alla poesia gnomica e a quella satirica. Ora il sistema economico locale è completamente collassato e la lingua ha cessato di essere vitale e si è totalmente adeguata alla lingua sintatticamente rozza e lessicalmente impoverita imposta dalla televisione, mantenendo di locale solo qualche caratteristica fonologica: è perciò diventata un dialetto, cioè il risultato dell'impoverimento di una lingua, che rimane creativa solo ai livelli superiori, perché portatrice di una cultura solo vagamente orecchiata a livello popolare. Ma allora i poeti che oggi scrivono in dialetto - i Marin, i Cergoly, i Loi, i Pierro - in realtà non scrivono più in una lingua popolare (che volgarmente chiamiamo dialetto) ma in una lingua che ogni poeta si crea a partire dalla memoria delle lingue locali, di cui però altera sia la sintassi che il lessico originario.
E un'operazione legittima? Senz'altro e non è priva di una suggestione di immediatezza e di verità, anche se si rivolge al pubblico limitato di quelli che conservano memoria delle lingue locali.

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G. Mannacio, Sul carteggio Abate-Mastrangelo

Mi stupisce – nell’approfondito e interessantissimo carteggio Abate/Mastrangelo – la totale assenza di richiami a quello che io ritengo il massimo poeta dialettale italiano: G.G Belli. L’introduzione che Belli ha scritto ai suoi Sonetti - accompagnata dalla lettura del magistrale saggio di Muscetta (G.G. Belli, I Sonetti,  U.F 1965 ) è – a mio giudizio – fondamentale per capire qualcosa del dialetto. Perché G.G. Belli ha scritto poesie di così grande valore nonostante il dialetto (si fa per dire e stare al gioco) ?
Belli afferma di aver voluto erigere un monumento alla plebe di Roma ( si badi bene: non romana ).
Nella sua introduzione tale enunciazione è lucidamente argomentata. Si tratta , a ben vedere , di una presa di posizione non politica in senso stretto ( si stenta a capire leggendo Belli se egli è – parlando in termini contemporanei e mistificanti – di destra o di sinistra )  ma culturale. Egli si è immerso totalmente  ( uso per il momento un termine che allude ad una volontarietà dell’opzione ) nella realtà di un territorio abitato ( ecco l’importanza della mia sottolineatura pignolesca sul termine Roma al posto dell’aggettivo romana : Roma designa una realtà geo-politica ben precisa ; romana è una qualificazione valutativa ed approssimativa ) assumendone su di sé tutti gli aspetti
dell’esperienza che gli abitanti hanno fatto – ad ogni possibile livello – in una comunità, in un certo tempo, in un luogo determinato e in una situazione socio-politico-economica determinata ed esattamente individuabile. Data questa scelta di argomento e contenuto ( passatemi l’approssimazione dei termini ) si è portati a dire che Belli non poteva scegliere se non l’idioma di quella comunità. E assumerlo , nella funzione comunicativa che quella comunità ad esso
assegnava  a tutti i possibili livelli dell’esperienza di quel tempo e di quella popolazione ( eros, politica, morale, scienza, religione, superstizione, etc ). Vi è in lui una  perfetta adaequatio argumenti ad rem  che rende le sue poesie vere e fantastiche , realistiche e allucinate e via dicendo: insomma esteticamente impeccabili.
Quale lezione critica si può trarre da tale esperienza? Proverò ad indicare alcune linee di ricerca , partendo da un primo interrogativo . E’ stato Belli a scegliere i suoi soggetti o sono stati tali soggetti a scegliere lui ? Forse il dilemma è mal posto . Più prudentemente bisogna forse dire che Belli si è trovato , per un fortunato incontro tra tempo e genio del tempo, nella situazione ideale per effettuare la scelta per così dire migliore. Perché migliore ? Se vogliamo prescindere da giudizi di tipo moralistico o politico ( del tipo : era per gli umili contro i superbi; era per i poveri contro i ricchi etc ) possiamo dire che egli aveva – poeticamente parlando ( ma anche socialmente parlando ) – due opzioni possibili ( anche in Belli vi è traccia  di quel bilinguismo di cui il carteggio Abate/Mastrangelo parla, ma del Belli accademico tiberino nulla resta ) , la lingua accademica e la lingua popolare vive in parallelo . Rispettivamente : un ambiente demograficamente ristretto , poco dinamico, non attento alle novità sociali etc e un ambiente demograficamente prevalente, socialmente tumultuante , vagamente consapevole della sua condizione etc. Sembra possibile dire, ragionevolmente , che la scelta fatta era , in un certo senso, obbligata come passaggio ineludibile di un certo risultato estetico.
Se volessimo tradurre questo approssimativo e abborracciato discorso nella sue dimensioni sociali e vagliare in esse la distinzione tra lingua e dialetto ( quale idioma più ristretto) si potrebbe addirittura e paradossalmente dire che nella Roma dei tempi di Belli, dialetto era l’accademia e lingua il dialetto utilizzato dal poeta . E’ una conclusione/ escamotage o una provocazione con qualche legittimità?

Se la conclusione fosse fondata dovremmo suonare il de profundis per il dialetto posto che i rapporti quantitativi ( di forza ) tra popolazione /idioma e popolazione/ lingua si sono invertiti ed ormai è solo una comunità sempre più ristretta ( se ancora esiste ) a identificarsi in una lingua ristretta della quale però deve riconoscersi la legittimità.
Posta in questi termini , la questione presenta notevoli connessioni con i problemi della poesia in generale. Provo ad indicare alcuni punti degni di riflessione.
Se è vero quanto ho detto, si dovrebbe concludere che il tasso di arbitrarietà (o di volontarietà ) della scelta del dialetto si presenta, oggi, maggiore che in passato. Si parli di dialetto di memoria o di dialetto artificiale , il concetto di fondo è chiaro.
Tuttavia anche questi termini, come ho accennato nel mio intervento precedente, vanno un po’ chiariti. Presi così alla lettera sembrano lievemente spregiativi o limitativi . Non è detto che non debbano esserlo , ma a quali condizioni ?
Non ho idee definitive in proposito, ma ricordo che vi sono esperienze estetiche che assegnano alla poesia proprio ed esclusivamente una funzione mnemonica ( degli archetipi, del nulla, della lingua del paradiso e via dicendo ) . In questo filone il dialetto, quale lingua di un passato sepolto e irrecuperabile , riavrebbe una sua funzione altamente nobile e, nel contempo, correrebbe il pericolo ( su questo condivido il pensiero di Ennio e Mario ) di diventare , oltre che non comunicativa in senso assoluto, anche pericolosamente elitaria .
Vi è certamente – nell’esperienza odierna – un filone di dialetto artificiale. Non faccio nomi. Si tratta di operazioni filologiche brillanti e interessanti, anche se non hanno nulla a che vedere con l’esperienza totalizzante di una lingua vivente di un corpo vivente. Se si potesse richiamare dall’al di  là  la massa di quelli che hanno parlato quel dialetto oggi ripescato, i resuscitati non lo capirebbero e direbbero : ma che lingua parla costui?
Poiché credo – moderatamente – ai cerchi concentrici delle società (mi fa piacere come giurista che si siano ricordati i processi celebrati in dialetto ) , non mi rassegno a negare al dialetto non solo il diritto di esistere ( che è un diritto di libertà ) ma anche a negare il suo valore estetico.
Le condizioni per tale esito felice sembrano essere – se seguiamo l’esperienza del Belli – l’esistenza di una comunità sufficientemente ampia ed autonoma che si riconosca in un idioma comune sufficientemente compiuto. Si assiste – a questo proposito – ad un fenomeno abbastanza curioso  ( ambiguo e contraddittorio come tutto ciò che riguarda gli uomini ). Da un lato la globalizzazione sembra imporre – con l’eliminazione della distanze e la concentrazione dei poteri – una riduzione dei centri locali , dall’altro sembra esaltare scelte particolaristiche che – al momento –  sono  solo valutazioni politiche di opportunità non collegabili ad una scelta autenticamente culturale. Chi vivrà vedrà.
Vorrei terminare riprendendo alcuni tenui spunti già svolti. Il primo riguarda la paventata marginalità e invisibilità dei dialetti , argomento al quale replico – provocatoriamente – come ho già detto: ma perché , i poeti in lingua nazionale sono forse centrali e visibili ?
C’è forse , nell’attuale possibile, uno spazio privilegiato nella poesia dialettale che io vedrei sia nella direzione della satira sia in quello – forse più nobile- della poesia drammatica ,direzioni che esaltano la funzione contestava degli idiomi particolari.


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E. Abate a Mannacio

8 marzo 2009
Caro Giorgio,
[…] entro subito nel merito delle tue ultime osservazioni sul dialetto:

1)     Mi pare che l’assenza del nome di Belli dal carteggio tra me e Mastrangelo sia motivata: parlavamo dell’uso poetico del dialetto oggi, se vuoi della sua ambigua rinascita elitaria e del suo ruolo obbligatoriamente “marginale”; mentre Belli operava in tutt’altra situazione, come tu stesso ricordi ( « si potrebbe addirittura e paradossalmente dire che nella Roma dei tempi di B., dialetto era l’accademia e lingua il dialetto utilizzato dal poeta»; egli  era immerso pienamente « in una comunità, in un certo tempo, in un luogo determinato e in una situazione socio-politico-economica determinata ed esattamente individuabile» );

2)     Non mi  convince l’esaltazione che fai della scelta “populistica” di Belli: - «Belli afferma di aver voluto erigere un monumento alla plebe di Roma»: - Oh bella, ma quella plebe era abbastanza “reazionaria” o ricca di spinte contrastanti, se non sbaglio ( e non basta precisare che era plebe «di Roma» e «non romana»), per cui il suo essere per certi versi (c’era in lui, come fanno notare gli studiosi, anche il «probo cittadino») “carta assorbente” degli umori di quella, lasciando da parte la criticità propria di un altro tipo di poesia (penso a Leopardi, suo contemporaneo) non lo digerscio facilmente. ( Come non mi pare digeribile, che so, l’adesione al nazismo di Heidegger, etc; il che non significa negare l’importanza della poesia di Belli né della filosofia di Heidegger);

3)     Non mi convince neppure la “necessità” di quella scelta del dialetto («Data questa scelta di argomento e contenuto […] si è portati a dire che Belli non poteva scegliere se non l’idioma di quella comunità.[…]. Vi è in lui una  perfetta adaequatio argumenti ad rem  che rende le sue poesie vere e fantastiche , realistiche e allucinate e via dicendo: insomma esteticamente impeccabili.»; «la scelta fatta era , in un certo senso, obbligata come passaggio ineludibile di un certo risultato estetico».). Noi viventi e poetanti a Novecento finito siamo molto più avvertiti che tra cosa e lingua la corrispondenza (l’adaequatio) non può essere mai perfetta (cosa di cui il Belli poteva disinteressarsi, ma di cui si disinteressano ancora oggi in troppi…). E poi chi se la sente di dire che «l’idioma di quella comunità» era il semplice riflesso della realtà da essa vissuta o che le fantasie e le allucinazioni del poeta coincidessero pienamente con  quelle della «plebe di Roma»? Io diffido pure di quello che tu definisci «un fortunato incontro tra tempo e genio del tempo». Incontri analoghi tra tempo e “geni” (e tra questi ultimi ce ne sono di ben più loschi  e sanguinari del poeta romano), dovrebbero  renderci guardinghi. Inoltre, perché mai la scelta da parte del Belli del dialetto va considerata di per sé e dunque a priori « passaggio ineludibile di un certo risultato estetico»? ( Sarebbe come dire che il merito del risultato poetico dipenda necessariamente dalla lingua che uno “sceglie”…).

4)     Quale lezione critica si può trarre dall’esperienza del Belli?  Io direi una lezione anti-Belli. Non abbiamo una curia romana corrotta a cui contrapporre una plebe ( o un “popolo di sinistra”) genuina, depositaria di una verità «nuda» e «sfacciata», come Belli diceva. Non abbiamo un dialetto-lingua (diffuso socialmente e potenzialmente capace di svilupparsi in lingua più generale se non universale..).  Abbiamo – e qui concordiamo – un  «dialetto di memoria o  dialetto artificiale»: una lingua ristretta “per poeti” (meglio: per minoranze poetiche). Pienamente legittima, non ci piove, anche se con un «tasso di arbitrarietà» che è tipico di tutti i linguaggi usati dai poeti. Ma anche nel campo dei dialettali (come in quello della poesia in generale) c’è chi spinge verso la «funzione mnemonica ( degli archetipi, del nulla, della lingua del paradiso e via dicendo)» e  altri invece – mi ci metto anch’io – che vedono nel dialetto  un “residuo carbonizzato della memoria (di immigrato)”, residuo che ha poco o  niente a che fare con «una lingua vivente di un corpo vivente»[…].  Mi serve ancora per esplorare determinati strati della mia/nostra esperienza, per tentare un certo risultato estetico. Concordo, perciò, con la tua osservazione: «Se si potesse richiamare dall’al di  là  la massa di quelli che hanno parlato quel dialetto oggi ripescato, i resuscitati non lo capirebbero e direbbero: ma che lingua parla costui?». Che è un po’ ciò che avviene anche con  vari usi poetici dell’italiano (Siamo appena usciti come Laboratorio Moltinpoesia dalla travagliata discussione sul linguaggio del poema di Majorino, Viaggio nella presenza del tempo). Non c’è da illudersi: Belli «una comunità sufficientemente ampia ed autonoma che si riconosc[eva] in un idioma comune sufficientemente compiuto» ce l’aveva e si poteva illudere di avere più “visibilità”. Noi no. Abbiamo da fare i conti – proprio come tu dici - con  la globalizzazione, che «sembra imporre – con l’eliminazione della distanze e la concentrazione dei poteri – una riduzione dei centri locali [e] dall’altro sembra esaltare scelte particolaristiche». Chi vivrà, sicuramente vedrà. Ma penso che bisogna anche non lasciarsi stritolare da questa forbice scegliendo le due punte estreme:  anglicizzazione (mentale, prima che linguistica) con  cancellazione di dialetti e lingua nazionale; assolutizzazione del dialetto come “piccola patria” (leghista) o resistenza da ultimi mohicani.  Dobbiamo aprirci, sì, alla mescolanza linguistica e affrontare coraggiosamente la «nuova condizione antropologica» dovuta al mutamento di tecnologie, contesti culturali e condizioni sociali generali (quella che chiamiamo «mondializzazione»). Mescolare, però, non basta. Può essere un segno di apertura, di “buone intenzioni”. Ma l’accostamento caotico – gradevole, sgradevole, sorprendente o seriale – di segni, simboli, significanti lascia irrisolto un problema ben più grosso e difficile: quello della traduzione tra i vari linguaggi ( compresi i dialetti), che molti intendono solo mescolare ( o più raffinatamente mescidare).  Insomma, questo mescolamento  (o meticciato o  multilinguismo) può essere  puramente di superficie (di segni, di significanti). O può puntare, invece, ad una strutturazione e a un confronto dei significati (delle singole storie, delle singole tradizioni). “Sotto” (o “indietro”) restano appunto i significati, un campo dove i conflitti  sono più ardui, perché , a loro volta, rimandano a conflitti sociali (materiali e “immateriali”) irrisolti o semplicemente esasperati in «scontri di civiltà». La butto qua e spero di spiegarla in altre occasioni: sono per una posizione esodante, che non si aggrappi a quel che è stato (dialetto, lingua nazionale) e non s’inchini di fronte a imperialismi (linguistici, economici, politici, culturali).

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G. Mannacio, Precisazioni sullo scritto di Ennio dell’8  marzo 2009

 […]. Ringrazio Ennio del riscontro alle mie osservazioni; le sue sono molto interessanti e i nostri punti di vista non poi tanto lontani. Alcune precisazioni-spiegazioni , seguendo la numerazione di Ennio.

1.
Ho capito le ragioni della messa in parentesi di Belli. Sta bene.
2.
Il mio intervento non contiene affatto una esaltazione della scelta populistica di Belli. Io stesso avvertivo espressamente che non si può capire – ammesso per necessità di discussione che la distinzione sia legittima – se Belli sia reazionario o progressista ( per comodità uso termini di
oggi ).  Io ho parlato di una scelta popolare ( cosa  diversa ), vale a dire connessa ad una comunità ben identificabile almeno in linea teorica, cui consegue ( so bene che la dialettica società- letteratura è più complessa, ma occorre semplificare i termini per capirsi ) la scelta dell’idioma popolare invece che quella della lingua dell’Accademia Tiberina  ( anche Belli è reo di bilinguismo ). Dunque la questione circa  l’adesione più o meno politica a questo o quello schieramento era semplicemente estranea al mio discorso.
3.
Sono d’accordo che noi poetanti d’oggi siamo più avvertiti . Il frazionamento del linguaggio è
–oggi – più consistente che in passato. Vi sono interi territori autonomi di linguaggi ( scienza, tecnica, pubblicità, etc. ), ma anche più accademie tiberine e più popolazioni orizzontali.
Non ho mai pensato che vi possa essere un adeguamento completo tra cosa e linguaggio . Ho solo inteso dire che Belli ha saputo realizzare un adeguamento tale da consentirgli una resa estetica della c.d materia trattata. Questo adeguamento non va confuso – nel mio linguaggio – nella romantica partecipazione emotiva dell’autore. Non mi interessa stabilire se Belli condivida oppure no il mondo del popolo di Roma. Ce ne fa partecipi in modo eccezionalmente efficace e questo basta al mio discorso.
In ogni arte è rinvenibile un rapporto – di natura spesso contraddittoria – tra genio individuale e genio o spirito del tempo. Nel momento in cui io ho parlato di fortunata coincidenza , nel Belli, di genio e genio del tempo ho chiaramente sottinteso che ci possono essere sfortunate coincidenze.
Il punto ha , evidentemente, a che fare con il più vasto problema dei rapporti tra arte e moralità che io mi sono guardato bene dall’affrontare.
Non conosco Heidegger se non per qualche stralcio di suoi scritti. Non ne giudico, quindi, la statura di filosofo, anche se personalmente ne detesto l’adesione al nazismo.
4.
Cosa significa lezione anti Belli ? Se significa che la sua esperienza è irripetibile sono d’accordo , anche se la conclusione è di lapalissiana fondatezza.
Si può estendere questa irripetibilità a tutta la poesia dialettale ? Qui andrei un po’ più cauto.
Se si volesse estremizzare la questione potremmo dire – un po’ provocatoriamente – che fino a quando esiste un altro soggetto in grado di sintonizzarsi con un dialetto là il dialetto conserva la propria legittimità.
Non parlo , ovviamente , di quelli che io reputo operazioni filologiche sul dialetto da parte di soggetti che non appartengono al sangue di una comunità o perché la comunità da loro presupposta non esiste o perché costoro non sono in grado di coglierne gli umori.
Sono d’accordo che il dialetto è relegato e marginale. Ma solo un eccesso di orgoglio può portarci a dire che la poesia – al contrario – è centrale. Questa osservazione – provocatoria solo in parte – deve aiutarci a capire anche qualcosa del dialetto
Lingua comune e dialetto hanno cammini , non so se paralleli o incrociati . Non parlo di destini, parola che chiama in causa una razza mai troppo esecrata come quella dei profeti. Certo lingua comune e dialetto hanno tratti comuni , ma anche equivoci e contingenti perché legati a vicende storiche sempre mutevoli e mai prevedibili con sicurezza. Ne è testimone la stessa definizione dei due termini che allude a situazioni destinate a modificarsi.
Se al dialetto attribuiamo un cerchio ridotto di appartenenza ( che significa anche ridotta comunicabilità ) molte scuole poetiche potrebbero definirsi, con qualche ragione, dialetti non quanto produttrici di linguaggi di limitata estensione e non perfettamente comprensibili al di fuori di quella comunità di adepti. La sovrabbondanza di poetiche e di coerenti produzioni è il segno più evidente della marginalizzazione della poesia. Vorrei che tale conclusione non venisse letta come catastrofismo ma come presa di coscienza di una realtà con la quale dobbiamo fare i conti.
Il dialogo lingua dialetto ci porta davanti a domande per così dire estreme circa il senso  e il valore della comunicabilità .Non ho precise risposte al riguardo ma coscienza del problema.

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Da: Mario Mastrangelo Inviato: lunedì 9 marzo 2009 16.09
Oggetto: Re: da Ennio Abate: Su Belli e il dialetto

 […] Per dire la mia, parto dalla mail di Mannacio sul Belli. Lettera che apprezzo perché rivela una ampia competenza su questo autore, sia al punto di vista estetico che da quello "sociologico" Concordo con quanto risponde in proposito Ennio: nel nostro carteggio non si menzionano che autori contemporanei che operano in una realtà in cui il dialetto e i relativi parlanti vanno scomparendo.
Di Belli posso dire solo che certi suoi sonetti sono esempi di poesia elevata e intensa, che certi suoi versi mi emozionano. C'è un verso di Er caffettiere filosofo che, secondo me è uno dei più intensi della poesia italiana di ogni tempo, der ferro che li sfraggne  in porverino (del ferro che li frantuma in polverino).
Concordo con il finale della mail di Mannacio, dove è detto che ogni linguaggio di poesia, dialettale italiano o di altra lingua è ormai marginale perché la poesia è ...per pochi.
Passando al documento di Ennio, esso è pieno di tanti spunti che confesso di avere difficoltà a seguirlo del tutto, anche se dovrei esserci abituato avendo realizzato con lui un lungo e articolato carteggio.
Concordo con lui quando dice che il dialetto è per lui, emigrato da Salerno, qualcosa di diverso da quello che è per me che a Salerno ci sono rimasto. Ma io penso che in poesia conviene non soffermarci troppo sulle caratteristiche di un linguaggio o di un altro. Io talvolta mi considero un poeta-falegname. Mi sono trovato questo pezzo di legno e ho visto che riuscivo a lavorarlo, a farci delle cose che con altri legni non sapevo fare. Ora ne conosco la durezza, i punti deboli, le nervature, il colore, l'odore, ma penso che non mi è molto utile per il mio lavoro, sapere da dove viene, quanti quintali se ne producono all'anno, quanti controlli ha dovuto superare alla dogana. Questo non vuol dire che non rifletta sul mio dialetto nelle mie poesie[…]








6 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho apprezzato molto la particolarità di questi filmati. Quei bianchi e quei neri hanno la capacità di far rivivere la più autentica e struggente memoria geografica e storica dell’Immigratorio a Milano. Immagini toccanti e forse non troppo rinneganti di una figura di donna arretrata e trasformata in bestia. Una donna che sbatte la testa di qua e di la a dire NO è una donna che non sa rifiutare la schiavitù della sua terra, è vittima brutale psichicamente malata. Repressa e abbrutita dalla fatica può concedersi una sola possibilità liberatoria? Possibile che si vedano solo frustrazione, arretratezza e malattia? Era soltanto questo la donna del Sud? Una genitrice ancestrale che si trasforma in bestia?
Giuseppina

Anonimo ha detto...

Intervista a Maria Cattaneo (Marièta) ex contadina:

Che importanza ha per lei il dialetto?

Ul dialèt a l'è la mia vita,
la mia parlada, ul mè vusà,
l'è ul mè pà, la mia mama,
i fioeu cu fa che u tirà grand.
Ul dialèt l'è ul mè coeur,
che mò al ma fa diventà mata,
ma una volta al ma bateva fort,
per ul me om, per ul mè camp,
per la gent che la guardava
i mè giurnat, i mè penser,
che denter sufegaven
ma poeu a vusavi, vusavi fort
in mèsa a l'ort, vusavi inscì:
- Andem tùcc insèma a cà
l'è rivà mesdì-.

Emy

Il dialetto è la mia vita,/la mia lingua, il mio grido,/ è mio padre, mia madre,/i figli che ho avuto e che ho cresciuto./Il dialetto è il mio cuore/che ora mi fa diventar matta,/ ma una volta batteva forte/per il mio uomo, per i miei campi,/ per la gente che guardava/le mie giornate i miei pensieri/che dentro soffocavano/ma poi gridavo, gridavo forte,/dentro l'orto gridavo così:/ -Andiamo tutti insieme a casa/ è arrivato mezzodì-.

Anonimo ha detto...

Maria Cattaneo dice delle cose molto belle e pregne di cuore. Però, per favore, chiamiamola LINGUA MADRE/PADRE, non chiamiamolo più dialetto. È la vera prima lingua. Il termine dialetto è accostato dai più alla tradizione, alla memoria, al folclore e non all’ancestrale, al primitivo, all’originale. Lasciamo il termine folklore a William Thomas e una volta per tutte parliamo di lingua madre/padre. La nostra prima lingua è stata la vera madre/padre, la vera genitrice/genitore che ci ha forgiati e poi conservati nell’autenticità espressiva verbale. La genitrice che tiene salda la memoria biologica a quella geografica caricando di struggimento i suoni che ci appartennero e ci appartengono. Sebbene venga oggi usata per esprimere sentimento dimesso-sublime e quotidiano-patetico è una lingua concreta, densa, autentica. Non lo dico io, ma Fortini nell’articolo riportato da Ennio. Non diventerà affatto forma sofisticata, elitaria e conservatrice perché gli immigratorii italiani e stranieri hanno una lingua madre/padre che narra in modo più completo rispetto a quelle nazionali. Si può tradurre una poesia dall’italiano all’inglese in modo universale nelle sue sfumature? NO. Così non si potrà rendere in italiano un pensiero generato nella lingua madre/padre.
Giuseppina

Anonimo ha detto...

Dialetto terra del rimorso… Lingua madre/padre come lingua dell’amarezza e del rimpianto? L’ Occidente a tutti i costi vuole apparire sicuro di sé, ma ha intime contraddizioni. Ieri era il morso della taranta oggi, invece……A Milano noi meridionali sembriamo chissà cosa, ma veniamo da lontano. I cingalesi e i filippini anche. Abbiamo il telefonino, ma arriviamo da miserie vorticose. Dalla terra del rimorso alla terra della superficialità. Continua l’ estenuante transizione di chi arriva dal sud del mondo. Lì si agiva tutti insieme e qui in città……… La terra del rimorso deve stimolarci, deve incitarci a creare un nuovo ciclo di idee e azioni critiche che vadano a smascherare illusioni nostalgiche e trasformare il passato in piani di lavoro per un futuro in cui tornare a credere.
Giuseppina

Anonimo ha detto...

Come hai ragione Giuseppina! Ma io ho intervistato la Marièta! Ciao ( se sei Giuseppina Broccoli Bentornata!!!) Emy

Anonimo ha detto...

Ricordo che quando le discussioni con mia madre crescevano di tono...scattava in automatico il dialetto.
Non so perchè ma era proprio così, si partiva in italiano...e si finiva in dialetto.
Forse proprio perchè, grazie alle sue metafore, alle sue particolari sfumature...ci permetteva di capirci meglio.
Oddio...lei stava ferma sulle sue posizioni.. ma almeno ci eravamo spiegati.

Augusto Villa.