ore 18
alla Palazzina Liberty,
P.zza Marinai d’Italia 1
Milano
Luca Ferrieri e Donato
Salzarulo
parlano di
IMMIGRATORIO
di
Ennio Abate
«Di qui, non serve dirlo,
il titolo forte e attualissimo dell’opera. Questo libro non è però la storia di
una migrazione interna, né solo l’allegorizzazione, per mezzo di quella, dei
grandi movimenti migratori di oggi: è soprattutto la ricostruzione di una
condizione stabile della civiltà moderna, e del modo in cui il soggetto ha
trasformato in destino la scelta dell’emigrazione»
(dalla prefazione di
Pietro Cataldi edizioni CFR - ottobre 2011)
*
*
Oh,
quando l’evidente tornò nel disordine! Come in sospensione: rimescolato il
bestiario d’infanzia assieme ai busti di padri dominatori o inetti del
Novecento e alle fanciulle alle prese con la storia di Carlo V e Lutero.
Oh,
quanta brutta, indigesta metafisica nell’orcio dell’immigratorio d’improvviso
buio! Interamente nella disciplina d’un duraturo purgatorio. O nelle sporche
pause di quieta apparenza, senza code in paradiso. Assillati da notizie storte
di lontani inferni, riattizzanti i vicini. All’opera nella storia i nostri
coetanei delle sacrestie e delle sezioni. O i loro turgidi allievi da rissa.
Per
noi, rimasti in immigratorio, ci fu solo quel lampo. Non bagliore di vicinissimi
domani! Avvertimento dell’imminente a testa in giù, invece. Nell’oggi del
sempre oggi, dei nuovamente ignari, dei vecchi-bimbi rimbambiti. E pure,
malgrado tutto, dei bimbi veri. Che fummo e saranno in altri - a noi
inattingibili - modi. E un’unica, ultima possibile visita concessa allo sterco
di quel tempo andato? Metafisica, però. E sia pure!
*
Toh,
il primissimo lattiginoso archivio di un sogno contadino! Sfiorato, costruito
non si sa se più sugli odori di porcili e stalle delle zie o dei fienili o
nell’umido delle cantine. O per vigne e filari di granoturco e pomodori
andando. O per soste nella pigrizia del giardino con le bocche di leone. O
presso il pozzo. (Il secchio tirò su la civetta annegata, crocifissa poi sul
portone). O traversando i campi ro Sardische. O le terre ra
Bersagliera in compagnia di zi‘Assuntine o Checchine. Che, più tardi, quel
sogno piano s’allontanò. Ricompariva a SA, ma solo sotto Natale, contemplando
le statuine di presepi pretelevisivi. E più avanti in libri d’arte: forme chiuse,
seducenti, belle ormai da intimidire, quando ne riconoscevi le somiglianze in
Giotto, Ghiberti, Lorenzetti o Breughel.
*
Oh,
primissimo stacco da quei tepori e timori contadini! Cancella il verde
paesaggio della campagna, l’alito degli animali, le carezze, le cinghiate sulle
gambe, le malizie del dialetto, che passavano gioie e guai di parenti e
conoscenti. E il rosso delle ciliegie, rimasto rossa visione e basta, mai più
fattasi pensiero. O la tagliola per i passeri preparata da Guglielmo su un campo
gelato, anch’esso mai più così cam-po, incantato, esplorato con sapienza
infantile mai più ritrovata. E le cautele, i silenzi che calavano dopo un cenno
a cose, vagamente afferrate da chi, incerto, pur le nominava.
*
Oh,
primo passaggio dal verde blu delle colline materne e paterne al mare di quel
golfo di SA! Ora copia accecante d’azzurro cielo. Ora lavagnone grigiastro per
tempeste di nuvole e di mare mosso! E all’affrettarsi dell’andatura vispa della
mente, ancora così fanciulla, disinvolta e serpentina, per inseguire italiano
di scuola e latino di preti in aule fredde e in chiese di lamento. Così
bambini-animalucci, frastornati scolaretti, nutriti a becchime misto: sillabari
+ catechismi, che dicevano, suggerivano, imponevano il tempo, la lingua, i begli ideali dei modesti signorini di SA, ancor
magri professori ex-fascisti - sempre un salutino in chiesa e un segno di croce
verso l’altare maggiore a Gesù prima d’entrare in classe – ma già accomodatisi,
ligi, alle nuove voglie democristiane d’Italia. Con logico passaggio - tu
assaggia! -, semmai ci fosse la vocazione, dalla
elementar-ginnasial-liceal (sotto sotto parrocchial) a più celestiale ed
eletta, seminariale, educ-azione cattolica.
*
Tutta
qua la visita metafisica! Altra via d’uscita è da cercare tra alto di donna
vagheggiata e basso di donna che si dà, alto d’arte sognata e basso d’arte
sporcata, alto di lavoro liberato e basso di lavoro salariato? Chissà!
*
Vulisse
sconfitto, io stendo ostinato il lenzuolo di parole ricalcate su storie vissute
e sognate: un rettangolo di eventi e contorti filamenti di commenti.
L’ho tessuto negli anni tra uno scaffale di libri e un altro, una stanza di
pensione e una in affitto, un ufficio e un’aula di scuola. Con la biro, la
Olivetti e poi il PC. Ospite e ostaggio - io e la mia opera. Intruso ragno
mossosi dal Sud al Nord, imbambolato nel Boom, alle bombe e alle tecnologiche
pulizie sopravvissuto; e diventato sordo ai nuovi Comandamenti del Presente.
Nessuno
m’incaricò della tessitura. Neppure a tempo perso. Né, ammesso che ci
riuscissi, mi suggerì di fondere il mio ripiegato, quasi privato (e deprivato),
vulisse con l’immigratorio italiano di plebi rammodernate. Ma ora il
lenzuolo è qua.
Pubblico
deambulante e sovrappensiero, ti prego (di certo, se non t’avvertissi, lo
travolgeresti!) di passarvi sotto o accanto, abbassandoti cauto, come facevamo
da bambini con le lenzuola stese dalle nostre mamme sulle terrazze del Sud.
Ammiratene
la tessitura! Mettetevi qui, però, più in controluce. Dalla penombra, dove vi
ostinate a restare, invisibile è tutto il mio lavoro, che compare solo se
amichevole si dispone la luce. E il vostro sguardo.
Ora
viene - vedete, eccolo! - dal rettangolo gemello della finestra un bel sole di
primavera tardiva. E forse intero ve lo svela questo modesto immigratorio.
Nella fantasia del vero, vero. Fisicamente finito, definito. Quasi intero. Un
precipitato - affanni, timori, amori, foga di natura e storia in fuga! - di
temporali presentiti sul vetro delle finestre quando pioveva forte da bambino.
E somiglianti a quelli caduti addosso ad antenati, di cui ho poi imparato la
vicinanza. E a quelli che sovrastano le teste degli ignoti, che sopraggiungono
da luoghi con nomi stranieri. In quelli l’intelligenza della mia fantasia si
bagnò. In questi in arrivo bagnate la vostra.
2 commenti:
Una grande storia una vita una perdita , la ripresa. Da leggere e rileggere questo magnifico libro pieno di durezze e le dolcezze un po' celate come per non dimenticarle. Un pugno lento nello stomaco che non allenta mai la sua forza. Senza cedimenti la realtà viene sbattuta in faccia , i ricordi sono assolutamente vivi e così in movimento che ci passano davanti quasi fantastici invece veri.Un libro per tutti coloro che vogliono capire l'immigrato ed anche e soprattutto per chi ancora non ha capito. La poesia sempre presente e importante da al tutto la magìa delle cose che rimarranno per sempre incise nella memoria. Un inchino. Emilia Banfi
Chissà, magari un giorno qualcuno saprà spiegare perché la poesia può trasformare un'esperienza defunta in qualcosa di vivo.
E se ciò che è vivo è anche riconoscibile e condivisibile, significa che non appartiene al singolo, o non a lui solamente. Altrimenti nessuno capirebbe. Le biografie sono sempre collettive, piuttosto che niente appartengono anche alle finestre quando pioveva forte.
mayoor
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