giovedì 26 gennaio 2012

Ennio Abate
Poesia/prosa.
Qualche ipotesi
a partire dalla poesia
di Anna Cascella Luciani



Riprendo qui l'interessante discussione iniziata nel post dedicato alla poesia "non ho sorelle" d Anna Cascella Luciani e sollecito altri interventi. Se dovessero essere, come questo mio, superiori alla misura breve del commento, inviatemeli e li collocherò in successivi post. [E.A.] 

1. Schematizzo per andare al nocciolo della questione poesia/prosa. Poesia=lirica=giovinezza? Prosa=ragione (o razionalità)=età adulta (o vecchiaia, quando “si partecipa meno alla vita e più al passato”)? Approvo in parte, ma dovremmo documentare meglio queste  equazioni. Specie oggi che i confini tra poesia e prosa, già mobili quando la distinzione dei generi pareva netta e incrollabile, sono diventati - per dirla con Bauman (e affidandoci,  non ciecamente però, alla sua autorità) - *liquidi*. Resta aperto il problema del grado e del senso di questa "liquefazione" dei generi: parziale, totale? reversibile, irreversibile? sintomo di "decadenza" (di allontanamento dall'Origine, o  dal principiale, senza il quale non si dà logos poetico [Cfr.Giuseppe Pedota, Dopo il moderno?) o, come sostiene Lucio Mayoor Tosi, irrinunciabile tensione di "quell'animo futurista" o utopista che serpeggia in qualcuno? 


2. Sempre per chiarire e approfondire il discorso riporto un passo dell’intervista del 1993, intitolata “Che cos’è la poesia?”, fatta da RAI  Educational a Fortini, di cui già discutemmo in questo blog:

“Certamente oggi - non due o tremila anni fa quando, probabilmente, la questione sarebbe stata diversa - quando noi diciamo "una poesia" intendiamo una composizione, un testo non lungo dove sia possibile identificare un certo sistema che è indicato graficamente dagli "a capo" e poi anche da un congegno di pause maggiori, quelle che separano una unità ritmica da un’altra. Ebbene, queste possono corrispondere o non corrispondere alle intonazioni cosiddette naturali e in questo caso comunque le chiamamo "verso".
Ora, se io parlando o scrivendo faccio tornare ad intervalli uguali certi accenti e certi accenti tonici, si forma, come si suol dire, un’attesa tecnica. Prendiamo la comunicazione normale: "se mi dai quella mezza matita che è posata vicino al tuo libro, ti sarò molto grato, mio caro, e al più presto te la renderò". Questo enunciato è un gruppo di quattro decasillabi e chi ascolta o legge si aspetta che il discorso continui ripetendo lo stesso schema ritmico. Molto spesso dei prosatori fanno uso di questi schemi ritmici con effetti vari.
Nel Cinquecento un retore veronese o padovano, Sperone Speroni, iniziava così una sua orazione: "Noi Padovani generalmente siamo allegrissimi non solamente per l’onor nostro particolare e per la pubblica utilità, onde noi siamo non poca parte, ma per l’onore di tutto il popolo": era una serie di quinari con i quali egli credeva di dare sostenutezza al suo discorso. In epoca contemporanea è possibile vedere come certi scrittori, per esempio il bravissimo Silvio D’Arzi, abbia costruito un suo racconto in novenari abbastanza nascosti per cui il lettore non se ne accorge ma, insensibilmente, gli viene suggerito un ritmo. Questo è un procedimento che naturalmente i grandi prosatori hanno in qualche modo sempre seguito, e che spiega perché si sia potuto parlare di un "ron ron" per esempio per la prosa di Flaubert. Ognuno avverte che ci sono degli elementi di scansione anche nelle scritture in prosa.
Ora, se a questo punto alle ricorrenze degli accenti si aggiungono le ricorrenze sonore, certi nessi vocalici o consonantici che vengono chiamati nel linguaggio della retorica le allitterazioni, le omofonie, o le rime, l’attesa dell’ascoltatore e del lettore si farà sempre più forte, sia che essa sia adempiuta, sia che essa resti delusa. Prendiamo un esempio del Metastasio: "Se a ciascun l’interno affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero pietà". Sono quattro gruppi di otto sillabe legate anche da rime, ma se io invece di "pietà" scrivessi "commozione" che cosa verrebbe? Verrebbe: "se a ciascun l’interno affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero commozione": a questo punto avremmo una delusione nella nostra attesa. Però, attenzione: le cose possono diventare più complesse e due delusioni messe ad adeguata distanza e rimate tra loro non ci deludono più. Per esempio in questi versi sempre del Metastasio: "Sogna il guerrier le schiere/ le selve il cacciator/ e sogna il pescator/ le reti e l’amo./ Sopito in dolce oblio/ sogno pur io così/ colei che tutto il dì/ sospiro e chiamo".


OGGI È QUASI NATURALE IDENTIFICARE LA POESIA CON LA POESIA LIRICA, INTENDENDO UNA ESPRESSIONE DI SENTIMENTI SOGGETTIVI, MENTRE NOI SAPPIAMO CHE LA POESIA COME MOMENTO DEL LINGUAGGIO E DELL’ESPERIENZA PUÒ TROVARSI NATURALMENTE NELL’EPICA COME NELLA DRAMMATICA, NELLA NARRATIVA E PERSINO ANCHE NEGLI SCRITTI CRITICI, NEI DIARI, NEGLI SCRITTI EPISTOLARI, MEMORIALISTICI. E' COSÌ PROFESSOR FORTINI?


Certamente, è così. Però si tratta di sapere se la comunicazione è orientata all’informazione, alla narrazione, alla recitazione: se il soggetto che parla si ritira o no sul fondo; allora, in questo caso, potremmo parlare di "racconto", di "favola", di "leggenda", di "scena teatrale", di "monologo". Facciamo un esempio. Se io dico: "Fuggii da casa col circo/ perché mi ero innamorato di madamoiselle Estralada/ la domatrice dei leoni" oppure "Il maestro ci aveva fatto ad alta voce, e come allora usava, la lettura: ‘Immagina un bambino che va solo in America, solo a trovare sua madre’"- e se io non so di dove vengano quelle parole e chi le sta pronunciando posso pensare che si tratti di due passi di conversazione di un uso televisivo, oppure di un appunto di diario. Se invece io so che le prime parole che ho ricordato sono l’inizio di una delle più di duecentotrenta immaginarie lapidi funerarie in un immaginario cimitero americano, quello di Spoon River, pubblicate nel 1915 dal poeta americano Edgar Lee Masters e che quelle parole si suppongono pronunciate da un defunto, ecco che allora gli elementi fonici e ritmici, le figure di discorso, la ripetizione, che erano servite per definire come poesia i versi della Pentecoste manzoniana o quelle del proverbio sui mesi, perdono una parte della loro importanza e sono altri elementi invece esterni al testo in quanto tale a intervenire. Per esempio il pathos che è connesso con la voce di un morto fra i tanti di un villaggio, quindi col mito e col brivido del morto vivente: siamo quindi al confine fra la lirica e il monologo.
L’altro esempio fatto viene da una poesia di Umberto Saba. È necessario mettere in evidenza che quelle righe che ci sembravano prosa: "il maestro ci aveva fatto ad alta voce, come allora usava, la lettura: ‘immagina un bambino che va solo in America a trovare sua madre’" invece sono organizzati in tradizionali endecasillabi, di cui è fatta la stragrande maggioranza della poesia italiana lungo otto secoli, e che quindi è come se, per dir così, ci venisse consigliato non di leggere "immagina un bambino che va solo in America" quale sarebbe l’intonazione colloquiale, bensì "Immagina - pausa forte, a capo - un bambino che va solo in America".
Insomma noi oggi abbiamo la tendenza a sopravvalutare come poesia l’espressione dei sentimenti soggettivi, invece anche quella poesia moderna, come è il caso della poesia di Saba, che sembra essere un moto immediato dell’animo, è una intenzionale e organizzata finzione.”


 3. In generale, tenderei a vedere l’io  più legato alla poesia (lirica)  e il noi più legato alla prosa. E per evidenti ragioni storiche, non metafisiche. Potrei, azzardando, dire: perché in fondo la storia è andata sempre più verso la prosa (borghese, capitalistica) invece che verso la poesia (nobiliar-popolare); o verso la complessità, invece che l’elementare. E collegherei  l’attuale, forte oscillazione (o  incertezza, o “libertà”) nella scelta tra forma-poesia (segnale elementare, oggettivo e distintivo: gli ‘a capo’) e forma-prosa (segnale elementare, oggettivo e distintivo: assenza degli ‘a capo’) all’oscillazione - sempre più conflittuale e persino drammatica e  a volte tragica - vissuta sia dagli ‘io’ (soggettività, desiderio, narcisismo “libertario” o “anarchico”, apoliticità o impoliticità) e ‘noi’ (altrettanta soggettività, desiderio, narcisismo “comunitario” e “autoritario” ma politico).

4. In giro, malgrado il venir meno delle Grandi Narrazioni  o delle Ideologie, ci sono ancora vari Io e Noi (“forti” o “deboli”, “aggressivi” o “lagnosi, “futuristici” o “nostagici-elegiaci”). Io guardo con più attenzione agli io-noi, che cercano di evitare gli eccessi (idealistici) dell’Io e del Noi, perlopiù fortemente autoreferenziali e a loro modo chiusi.

5. Chiusi a che cosa?
Sia reciprocamente. Per cui un Io vive il Noi sempre come una minaccia. E, viceversa, il Noi poco ascolta o tollera l’Io. Mentre  entrambi tendono a non sopportare soprattutto gli io-noi. Sia   al Mondo (o Realtà), che non è mai afferrato nella sua  totalità. Né dall’Io, né dal Noi, né dagli io-noi (che però forse sono i più disponibili a riconoscerlo). Né, dunque, dalla poesia. Né dalla prosa. Né dalle “scienze umane” o dalle “scienze della natura” (presunte “esatte”).

6. L’oscillazione tra poesia e prosa me la spiegherei, dunque, con il grado di percezione più o meno saldo  del Mondo (o Realtà) che sia l’io che il noi  possono raggiungere. E sia con una forma di accondiscendenza convinta o di ribellione convinta alla Tradizione (della poesia o della prosa).

7. Chiarisco, infine, che per me non è che l’io (minuscolo, quindi il singolo) sia per forza di cose più “debole” del  noi (minuscolo, quindi il collettivo, la società, gli uomini o le donne in carne ed ossa). O che il grado di percezione del Mondo (o Realtà) sia per forza di cose più possibile al noi che all’io.

8. Quindi si può avere a volte un io, apparentemente tale, cioè solo lirico, che in poesia ( e magari in pochi versi) raggiunge  il Mondo più del noi, che l’analizza in prosa con centinaia di pagine. Mi vengono in mente per un confronto Celan poeta e Proust prosatore. E concludo con due domande: quanto io-noi c’era in entrambi? Quanta poesia o prosa in entrambi?

10 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

... vorrei partire dall'assioma contenuto nel libro di prossima pubblicazione di Giuseppe Pedota (che ci ha lasciato nel 2010), secondo il quale, cito a memoria, "non si dà logos poetico senza porre la questione del principiale"... tutte le questioni correttametne affrontate da Fortini nell'intervista sono solo una serie di indizi che ci devono portare alla questione del «principiale» che, in parole povere, vuol dire:
1) che cosa voglio rappresentare con questa poesia?
2) dove posiziono il soggetto?
3) dove posiziono l'oggetto?
4) a quale distanza stanno il soggetto e l'oggetto?
5) pongo l'azione nel Presente o nel Passato?
6) quale linguaggio uso?
7) quali linguaggi escludo?
8) sempre che teniamo per fermo che la poesia (come la prosa) sia una questione che adotta il linguaggio;
9) che rapporto introduco tra il mio linguaggio e il mio metalinguaggio?
10) quale è la mia «tematica»?
11)che rapporto c'è tra il mio linguaggio poetico e la mia tematica?

Queste ritengo sono le questioni che stanno a monte, che precedono l'atto della scrittura di una poesia... e sono questioni che, almeno intuitivamente, chi fa poesia deve aver già risolte, in un senso o nell'altro...
Altrimenti si farà poesia ingenua, cioè irriflessa, acritica, in una parola priva di posizione valoriale.

Anonimo ha detto...

Il critico parla il poeta ascolta.

Anonimo ha detto...

Leopardi ( vabbè) trascrisse L'infinito su una paginetta di quaderno, una sola correzione. Si trattasse del primo originale verrebbe da credere che l'autore ci abbia messo sì e no due orette per scriverla. E' un pessimo esempio?

La prassi deriva dalla ripetizione dei comportamenti, nello spazio che l'autore riserva per la poesia durante i giorni. Preferisco credere che l'autore arrivi a scrivere vuoto di se' e sgravato da pensieri trattenuti troppo a lungo. Sarà la scrittura a portarlo nella semantica perché la scrittura del poeta nasce sorvegliata, anche nelle sue forme più libere.

Se l'autore si ponesse il problema di dove porre l'oggetto prima che questo abbia ad esistere avremmo poesia pre-meditata. Questo mi porta a sollevare qualche riserva sul curioso elenco proposto da Linguaglossa, ma immagino che molto dipenda dalle caratteristiche delle personalità. Conosco artisti che non alzano un dito se prima non hanno stabilito con esattezza cosa stanno per fare. E sono anche bravi.

Considero l'uso dell'io/noi come una forma figurativa funzionale per stabilire e favorire rapporti che rendano comprensibile e più condivisibile il testo. Il nostro paese non ha tradizioni astratte. Quindi l'io/noi non sono altro, per me, che utili espedienti.

Il linguaggio adottato stabilisce i parametri entro cui muoversi creativamente. Va anche detto che il linguaggio è identità, lo sanno bene gli autori che scrivono sia in dialetto che in lingua italiana. E' innegabile infatti che cambiando linguaggio anche l'identità (l'io scrivente) ne viene trasformata.

Personalmente preferisco la scrittura al presente, proprio per evitare il sentore, per me sgradevole, dell'elegiaco di cui si parlava commentando le poesie di Anna Cascella.
Con il passato sembra di poter consegnare l'opera ad un tempo infinito ( sottratta al tempo), ma non è così. Offre soltanto maggiori possibilità per la scrittura più meditata e può "scadere" assai più facilmente nella prosa del racconto.

E poi la scrittura al presente mette il poeta nella condizione di misurarsi con le cose del proprio tempo e con i suoi simili. Sebbene non mi riesca di immaginare un'arte più solitaria della poesia, ritengo che nel presente sia quasi impossibile sentirsi soli. Piuttosto che niente ci sarà una caffettiera, o il cane… insomma, per scrivere al presente bisogna aprirsi, con tutto quello che ne consegue nel linguaggio perché nel presente non ci sono solo cose ma arrivano anche le parole altrui, i rumori, e molto altro ancora.

Nel presente cambia il tessuto della scrittura che si fa più partecipativa ( un buon esempio è offerto dagli haiku). Come difetto può portare al fastidioso uso del giudizio che, come per l'elegia nel passato, sarebbe secondo me da evitare per quanto possibile. Almeno così suggeriscono le buone maniere...

I linguaggi che evito, perché mi spazientiscono, sono quelli che rapiscono l'autore e che lo portano a dire altro da ciò che si avverte ci debba essere. Le rincorse verso l'ideale, qualsiasi esso sia.

Sul metalinguaggio evito. E' questione di attendibilità, ma anche il gioco di un bambino è attendibile…

La tematica: mi hanno logorato le poesie d'amore, su questi temi credo oggi se la cavino assai meglio le canzoni. La preferenza per il presente, per l'accadimento (anche della scrittura in se'), è per me anche già di per se' una buona tematica. Poi mi piace che si guardino le cose dal basso, senza infingimenti. Scappiamo dal male, o ci proviamo, ma è sbagliato scrivere senza tenerne conto. Il dolore ha profondità e mette bene in luce il superfluo. Ma come per tutti gli opposti non si può stare solo e sempre da una parte piuttosto che dall'altra. In tutti i casi trovo che la gioia sia più intelligente. Meno profonda ma più intelligente.

Mayoor

Anonimo ha detto...

Mayoor un poeta che ascolta...soprattutto il suo tempo ,i suoi passi , i nostri passi , intelligente la sua gioia che mai dimentica l'assurda indifferenza. Critico di se stesso e dell'esistenza ,attento, con l'umiltà dei grandi.un vero onore conoscerlo. Un vero piacere leggerlo. Emy

Anonimo ha detto...

... Emy, guarda che non smetterò di prenderti ogni tanto in giro ; )

m.

Anonimo ha detto...

Mi piace girare! Emy

Anonimo ha detto...

Che succede ai Molti? Nessuno che trovi ancora piacere nella didattica?
O c'è dell'altro?

Mayoor

Anonimo ha detto...

tutti professori Mayoor, tutti professori! emy

Anonimo ha detto...

Credo - secondo la mia esperienza che non è affermazione di verità ma dichiarazione di testimonianmza - che Giorgio Lingiaglossa abbia colto nel segno.Se intendiamo dare " valore "al nostro fare poesia (poiein da cui poesia ) non possiamo fare a meno di porci le questioni elencate da G.L nei suoi punti. Del resto non è così per tutte le cose alle quali "vogliamo dare valoree " ? Si può aggijngere o togliere qualche punto o " nominarlo diversamente ": dettagkli. Ma il metodo è quello.Se non si dà valore a qualcosa è inutile farla. E dare " valore " significa- senza atteggiamenti di superiorità ma anche con atteggiamento non contraddittorio rispetto agli assunti - distanza da... specificità entro.....funzione di...insoimam tutta una serie di distinguo sui quali ci si pouò sbizzarrire ma che non vanno elusi. Insomma responsabilità verso "il linguaggio" ( che poi è l'altro ) Giiorgio MANNACIO

Anonimo ha detto...

Il problema della c.d scrittura immediata
( ispirazione- scrittura )è uno dei grandi equivoci della poesia.Questa - lo hanno detto tutti i poeti consapevoli - viene sempre da lontano.Si forma per aggregazioni di sensazioni e di riflessioni con altre sensazioni e riflessioni. Procedimento che assomiglia molto alla gestazione degli esseri viventi. Ne ha la durata e la complessità.La lunga gestazione non assicura la perfetta nascita ma ne rispetta lo statuto.Nella perfezione di uno scritto c'è semmpre una parte di caso,ma la consapevolezza che entro di noi sta maturando qualcosa ci deve indurre al " controllo" (Mayor). Non fumare durante la gravidanza...e simili. Giorgio Mannacio