sabato 14 gennaio 2012

Giuseppe Pedota
Dopo il moderno?



Per intensificare il confronto tra il Laboratorio Moltinpoesia e gli amici romani  che hanno cominciato ad intervenire su questo blog,  anticipo stralci consistenti di un saggio di Giuseppe Pedota [Cfr. Nota alla fine]. Rielaborato da appunti sparsi, uscirà presto, per i tipi delle edizioni CFR nella collana di critica curata da Giorgio Linguaglossa. Fu scritto tra il 2005 e il 2010, anno della sua scomparsa. E nelle intenzioni dell’autore doveva contribuire al rilancio della rivista di letteratura «Poiesis», che a Roma tra il 1993 e il 2005 funzionò nella cosiddetta  condizione postmoderna come «una zattera di naufraghi»(Andrej Silkjn). La successiva dissoluzione del gruppo originario (G. Linguaglossa, D. Mafia, G. Stecher, G. Pedota, L. Stace, C. Santese e A. Silkjn) ha impedito la prosecuzione di una riflessione in comune sul tema che Pedota qui affronta: il passaggio dall’epoca dell’impegno, che è durata fino agli anni Settanta del Novecento e teneva  assieme cultura e politica progressista (di sinistra), all’epoca del “disimpegno” o della sfiducia nella necessità o possibilità di un cambiamento della società capitalistica. (Per la precisione «Poiesis» parlava di «Epoca del Tramonto» in un’accezione fortemente heideggeriana).

Il saggio è denso e, devo dire, d’impegnativa lettura.  Pedota parte da un v rapido richiamo al «letargo politico dell’Italia e dell’Europa»; e adotta concetti e formule che io ho incontrato negli scritti di Giorgio Linguaglossa (il «qualunquismo», il «talqualismo», il «turismo poetico» della poesia delle giovani generazioni)   ma che  credo siano stati attrezzi concettuali dell’intero gruppo di «Poiesis», esperienza che confesso di aver conosciuto in ritardo, perché provengo da un approccio che non ha mai rinunciato, neppure in letteratura, alla problematica marxiana.  Eppure in questo saggio ritrovo un tipo di denuncia della cultura di massa non dissimile  su molti punti da quella di un Fortini, che - ricordo - proprio nei primi anni Novanta parlò di «surrealismo di massa» (e di «snobismo di massa») o in Edoarda Masi, quando ad esempio sosteneva che « il potere non ha più bisogno di intellettuali, si serve di altri, di mezze calzette».  [http://www.ospiteingrato.org/Interventi_Interviste/Masi.html]
L’allarme per il degrado culturale, nel frattempo amplificatosi, è il punto di partenza del saggio di Pedota, che parla di «conservatorismo di massa». Il saggio però abbandona presto la cornice storico-politica, saldissima in Fortini e nella Masi  e resistente in me ancora oggi (ci sono, sì, degli accenni, ma troppo corsivi, al 1989 e al crollo del muro di Berlino) e si cala nella critica circoscritta ed attenta soprattutto ai riflessi negativi di questa crisi mondiale ed epocale nel campo della poesia. Il negativo per lui sta soprattutto nel «minimalismo romano-milanese» (esemplificato in particolare dalla poesia di Magrelli, Lamarque, Cucchi, etc.). Pedota vi vede un fenomeno di «deresponsabilizzazione» della poesia. Questi poeti, ignorando o voltando le spalle alle «grandi direttrici della cultura novecentesca» (surrealismo francese, espressionismo tedesco; imagismo anglosassone o russo), avviano una «deriva epigonica». Su questa critica agli sviluppi “postmoderni” in poesia posso concordare. Sulla mia sponda marxista il segnale lo colsi con La parola innamorata, un’antologia a cura di Pontiggia e De Mauro che uscì nel 1978. Mentre nell’area politicizzata si parlava di “ritorno al privato”, quell’antologia segnalava in poesia qualcosa di simile e, comunque, direi con il mio linguaggio, il tracollo storico della prospettiva comunista o socialista, dell’anticapitalismo.  
Un altro punto di contatto lo trovo quando Pedota accenna alla crisi della critica, alla questione del canone e al venir meno della figura dell’«intellettuale di sinistra, quello nato dal clima culturale post- bellico» (senza citare o confrontarsi, però, col dibattito che Luperini e altri conducevano nel frattempo, a riprova forse dei tanti snobismi reciproci che viziano i dibattiti letterari).  La critica al minimalismo pone un serio problema a noi moltinpoesia. Pedota lo definisce come «un discorso che si configura come "copia" dell’"originale" che giace nel subliminale della cultura della massa mediatica». E insinua nella mente di chiunque scrive poesie oggi, “dopo il Moderno”, un dubbio fastidioso: non è che siete degli epigoni, copia di massa di un originale che non conoscete più? Ma, a questo punto, egli introduce una tematica sulla quale non mi sento più di seguirlo con convinzione, anche se posso rispettarne la tensione anticonformista. Egli cioè torce il discorso in una direzione non più storica, ma metafisica: esisterebbe, cioè, in poesia un «originale», che permetterebbe di sfuggire alla meccanica ripetizione  della «copia» da una «copia» in cui si dibatterebbe oggi la poesia e il minimalismo in modo particolare. Con la sua terminologia Pedota pone cioè la questione del «principiale, senza il quale non si dà logos poetico». A suo parere, una «poesia che pensa i propri fondamentali non può non scandagliare la via della interrogazione radicale sulle cause ultime e più remote che governano la ragione stessa del logos poetico». Qui il suo discorso a me pare complicarsi e andare in zone da me inesplorate. Pedota dà perciò un rilievo centrale al surrealismo europeo. Esso, egli dice, «ha posto il problema della «rappresentazione poetica dell’oggetto» come una delle infinite possibilità con cui si può raffigurare l’oggetto». E non si è limitato ad esplorare «il rapporto che lega il nome alla cosa» ma ha intuito che la «cosa» e impossibile da vedere, da pensare e da pronunciare. Fa i nomi  di Gellu Naum « uno dei maggiori rappresentanti europei della cultura critica del movimento surrealista che del surrealismo ha saputo trarre la lezione più istruttiva, e cioè il concetto di discorso poetico basato sulla articolazione stratificata di linguaggi eteronomi, una vera e propria «logica poetica degli illogismi», di Kikuo Takano, nato nell’isola giapponese di Sado nel 1927 «un poeta di tradizione orientale ma ancorato alla cultura occidentale, in particolare, ai filosofi Heidegger e Jaspers», del turco Enis Batur, che accosta a Dante Maffia, perché in entrambi i poeti si ha una «moltiplicazione dei punti di vista e dei personaggi, in una parola, la disseminazione dell’io poetico» e, tra la «generazione femminile di mezzo» ( Laura Canciani, Helle Busacca, Maria Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Chiara Moimas, Giorgia Stecher) da grande rilievo a Giovanna Sicari, la cui la poesia gli appare fondata su parole che sono fuori dalla produzione ed  esemplificativa  della caduta del sacro. [E.A.]


DOPO IL MODERNO?

Quello che un critico come Giorgio Linguaglossa vede attraverso la cortina di nebbia della «nuova ideologia del conformismo», è la «nuova insensibilità» delle masse post-culturali nella situazione del Dopo il Moderno, fenomeno cresciuto all’ombra del letargo politico dell’Italia e dell’Europa. La parola «impegno» è ormai invecchiata e fuori corso, il «qualunquismo», il «talqualismo» e il «turismo poetico» della poesia delle giovani generazioni è una spia allarmante di questo conservatorismo di massa. Ormai nessuno delle nuove generazioni si pone la domanda di comprendere il mondo con spiegazioni, ipotesi, responsabilità; una pedestre mitologia della scrittura che la mia generazione aveva debellato, riacquista vigore e credibilità: lo scrivere bene, l’innocenza dello scrittore, addirittura la «irresponsabilità dello scrittore», l’aura (che ritorna!) delle parole poetiche di certa poesia femminile, l’invasione delle storie d’amore catechizzate, drammatizzate e agghindate secondo una smaccato (e ingenuo) montaggio di pezzi del cuore infranto. È ritornata la retorica della bella e dannata interiorità e del buonismo, ottimi sostituti della riflessione politico-estetica sulla situazione attuale di quello che il critico romano chiama «discorso poetico».
«Questa spoliticizzazione dell’arte, - scriveva nel 1953 Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura - della Letteratura, non può essere accidentale, particolare. È l’espressione di una crisi generale che si potrebbe così definire: ideologicamente la borghesia non ha più realtà immediata, moltiplica gli schermi, i ricambi, le meditazioni: quasi non le si riconosce più una fisionomia».[1]
Forse oggi (e basta dare uno sguardo al proliferare dei blog letterari) siamo nel bel mezzo di una nuova forma di conformismo: un omologismo che non tollera l’esistenza di un diverso assetto del pensiero. C’è una simil-critica di cortigiani e una critica che non ha diritto di cittadinanza. È l’ideologia dell’omologismo che qui si annuncia.
Come Linguaglossa ha ben spiegato, oggi, anche nella situazione di disarmo generale dell’intelligenza del Dopo il Moderno, non ci può essere altra strada che quella di un nuovo impegno e di una nuova responsabilità dello scrittore e del discorso poetico. Mi stupisce che critici e autori delle nuove generazioni come Salvatore Ritrovato e Stefano Dal Bianco rivalutino invece la «irresponsabilità» della scrittura letteraria. Questi autori dicono che lo scrittore non ha delle «risposte» da dare al suo pubblico, confondendo due concetti molto diversi e distanti tra loro, anzi, a mio avviso oggi lo scrittore è tanto più «responsabile» proprio in quanto non ha alcuna «risposta» da offrire in garanzia al lettore. Io piuttosto direi che oggi, molto più di ieri, il ruolo dello scrittore dipende dalla tragicità di un linguaggio impossibile. È questo il problema.
Il critico romano rivendica, con sottile ironia socratica, che oggi l’unica forma possibile di scrittura è davvero quella del talqualismo delle «scritture letterarie denaturate alla Valerio Magrelli e alla Vivian Lamarque»; «al di fuori del minimalismo sembra non esserci nient’altro che il minimalismo. Ma non è vero. Bisogna dirlo con forza ai giovani: non imitate i modelli deresponsabilizzanti offerti dai falsi padri. La via da seguire è esattamente l’opposta: la critica radicale ai falsi padri e ai falsi modelli che essi rappresentano». Sono scritture che hanno avuto successo e hanno fatto scuola. E chi osa mettersi contro il successo e i grandi marchi editoriali che li hanno pubblicati? Ed ecco spiegato il successo di epigoni degli epigoni come la poesia di Gianni D’Elia e di Franco Buffoni. È un epigonismo che si autogenera e che non sembra avere fine. Qui, credo, siamo andati ben oltre l’«ideologia del conformismo», siamo entrati, senza che ce ne siamo resi conto, nella nuova situazione dell’omologismo e dell’emulazione. 
L’arte e la letteratura europea dagli anni Novanta del Novecento in poi, segnano una lenta e inarrestabile crisi della grande cultura novecentesca? Non so, può darsi. Il fatto indiscusso è che la poesia dell’ultima decade del Novecento sembra avviata in una inarrestabile deriva epigonica delle grandi direttrici della cultura novecentesca. Si profila una interminabile cultura epigonica, la crisi di identità di una cultura. Nel frattempo, nel 1989 crolla il muro di Berlino, scompare il limen, della divisione in due parti dell’Europa e dell’Italia (un fenomeno simile a quello del crollo di una diga). Ciò che in qualche modo contribuiva, almeno in Italia, a tenere in vita una visione critica è venuto meno, in più c’è stato l’esaurimento di un modello di sviluppo delle economie capitalistiche del mondo occidentale e la fine della prima Repubblica. Scrive Linguaglossa:

Oggi, noi non possiamo comprendere la crisi della cultura epigonica del minimalismo senza gettare lo sguardo al di là di essa, a quegli sviluppi dell’arte contemporanea che sembrano prefigurare uno sbocco, una via di uscita dall’arte dei minimalia.
Credo che la poesia degli ultimi due decenni del Novecento debba esser catalogata in questo quadro problematico, in quelle linee di forza che si dispiegano all’interno del minimalismo producendone una implosione tematica e stilistica, e all’esterno di esso una invasione di elementi allotrî quali le istanze narrative. Fa ingresso in poesia in modo massiccio il linguaggio saggistico. Le istanze critico-saggistiche prendono il posto lasciato vacante all’interno della forma-poesia. Il pensiero poetante riceve così una sorta di «inquinamento» e di «impurità», con la conseguenza che gli esiti poetici vengono contrassegnati da un mix di elementi spuri e allogeni. La poesia contemporanea diventa così il luogo dove si incontra una mixture di prosa e poesia, di poesia e filosofia, di poesia e saggistica, poesia e reperti di esistenzialia. Il luogo della poesia diventa una zona «contaminata» da linee di forze stilistiche eterogenee e contraddittorie. L’esperienza vissuta si incontra con l’esperienza virtuale e gli esiti stilistici si ramificano e si suddividono in una rete di derive epigoniche, dove le esperienze biografiche allignano in una «zona franca», in una zona di diretta contiguità con le esperienze «astratte» colte come un flash sullo schermo bianco dei minimalia. Il linguaggio del quotidiano viene ad esser contaminato da sintagmi «alti» a carattere elegiaco-iperbolico, oppure da fraseologie appartenenti al piano del linguaggio cronachistico. Fanno ingresso in modo massiccio in poesia i reperti della cronaca quotidiana.
Il risultato di questa situazione è che nella misura in cui la poesia contemporanea si emancipa dalla lettura del piano cronachistico del quotidiano, tende a ricadere sul piano «alto» del sublime attraverso la mediazione di uno stile «contaminato» fondato sulla paratassi o sulla ipotassi, sulla ridondanza semantica e lessicale e, molto spesso, sulla assenza di punteggiatura. I dati ed i valori acquisiti dalla Tradizione si presentano, nella poesia delle nuove generazioni, come remote entità non più utilizzabili e non più condivisibili, come un demanio abbandonato e sconosciuto (o disconosciuto) dal quale voltare pagina per un nuovo inizio.
Non più ancorata alla solidità della cultura tecnologica dell’experimentum, la poesia contemporanea delle nuove generazioni è così costretta ad accogliere la solitudine stilistica quale legato testamentario di una civiltà letteraria ormai tramontata e non più attingibile. Ma, facciamo un momento un passo indietro, nel Novecento italiano possiamo notare subito una vistosa lacuna: non abbiamo avuto un equivalente del surrealismo francese, come non abbiamo avuto un equivalente dell’espressionismo tedesco; assente risulta anche un equivalente dell’imagismo anglosassone o russo.  Il secondo Novecento poetico italiano risulta così stretto entro la forbice di un duopolio: da una parte lo sperimentalismo «consapevole», dall’altra, un antisperimentalismo altrettanto «consapevole», dove il concetto di linguaggio resta una questione meramente «tecnologica», dove il campo di intervento delle «tecniche» viene a configurarsi quale questione centrale ed ineliminabile dal dibattito critico sull’oggetto poesia  (...) Il risultato è stato che nel Novecento italiano si è replicato il “calco” per antonomasia della poesia italiana, quello per intenderci dominato dall’antitesi tra “realisti” e “idealisti” o, detto in altri e più comprensibili termini, tra i veristi e i petrarchisti, intendendo sotto questa nomenclatura tutta la tradizione dell’Opposizione a far luogo dalla neoavanguardia fino a giungere alle ultime manifestazioni epigoniche delle post-avanguardie dell’ipermoderno. In ultima analisi, è mancata quella tradizione della modernità che in uno scritto su Fabrizio Dall’Aglio Mario Luzi identifica con quella linea che da Laforgue va a Alfred Jarry. E questo risultato della Tradizione del doppio binario avveniva proprio per una insufficiente meditazione in poesia su ciò che conseguiva dalla crisi che la modernità portava con sé come epifenomeno dell’ipermoderno. Una ipercrisi seguiva alla crisi della forma-poesia che, di conseguenza, scadeva in elegia e antielegia, nelle due declinazioni acritiche della forma-poesia, ovvero, in scritture criticamente orientate verso la forma-narrativa, che aveva come portato un ulteriore effetto di pseudoretorizzazione della scrittura poetica e che conseguiva da un difetto di approfondimento critico delle ragioni che avevano spinto la forma-poesia verso una compiuta afasia.
Era fin troppo prevedibile, con il senno di poi, che certe scritture poetiche che non rientravano nei binari del «duopolio» del canone egemone venissero emarginate, volens nolens, nelle linee laterali e periferiche quali espressioni non compiute e non linguisticamente legittimate o ritenute frutto di espedienti “volontaristici” ed episodici. Così, le poetiche del minimalismo romano-milanese finivano per porre nell’ombra tutto ciò che, direttamente o indirettamente, potesse nuocere alla imposizione del «canone maggioritario» (secondo la terminologia di Linguaglossa). La verità della dislocazione delle poetiche sullo scacchiere degli ultimi vent’anni della poesia italiana contemporanea era piuttosto un’altra: era la poesia dei tagli laterali e periferici a rivelarsi centrale ed ineliminabile per quel portato di problematicità e di risoluzione stilistica che quella problematicità richiedeva. E ciò che è più significativo di quegli anni che avrebbero visto il rigoglio delle poetiche epigoniche, tarde e scolastiche riverniciature del dejà vu e del banalismo esacerbato» - così Linguaglossa prosegue il filo della sua riflessione - «Ora, sta di fatto che quella parte della cultura dell’Opposizione che aveva militato per la leggerezza, l’incomunicabilità e l’aleatorietà del messaggio poetico, o addirittura per l’assenza di qualsivoglia messaggio poetico, di contro a tutte quelle altre posizioni che tentavano di veicolare una idea della poesia che non fosse mera trasmissione del trash e del nulla, quella cultura dell’Opposizione che è rimasta in tutti questi anni Opposizione, quella cultura che ha fondato la propria specificità nella teatralizzazione di ogni argomento serio e nella facetizzazione di ogni argomento tout court, quella cultura, dicevo, è diventata feticizzazione della facezia, feticizzazione del fattuale, fattualizzazione del “fatto”, delirio di una cultura che è rimasta all’Opposizione in un tempo in cui il mondo è cambiato di sana pianta, anzi, si è addirittura capovolto; quella cultura, dicevo, è oggi Opposizione virtuale, conformismo integrale all’interno del villaggio globale di una cultura massmediatizzata, è la cultura del cabaret, produzione culturale da intrattenimento.[2]

La crisi della poesia epigonica è stabilmente connessa in Linguaglossa alla crisi del pensiero militante della poesia. Sono, come scrive Giusi Maria Reale, due facce della stessa medaglia.[3]

a proposito del paradigma maggioritario

Un noto economista ha scritto: «I falsi sono cloni (imperfetti?) dell’originale perché lo riciclano continuamente durante il processo produttivo… Il successo di libri e film come Il codice da Vinci illustra bene il bisogno di racconti della storia dell’arte e della religione riciclati e accessibili a tutti. In modo analogo, i romanzi bestseller di ambientazione storica soddisfano il desiderio dei lettori di consumare in fretta storia e cultura, come prodotti usa e getta che consentono l’evasione dalla prigione della realtà quotidiana. La cultura diventa un prodotto commerciale e la tecnologia moderna ne offre una versione romanzata, a buon mercato, nelle librerie degli aeroporti o nei supermercati, sui siti web o sul grande schermo. L’autenticità di un prodotto culturale unico e, quindi, non imitabile, tende a scomparire. E poi i prodotti autentici sono unici, quindi scarseggiano. Esattamente al contrario, ogni falso produce altri falsi, attraverso un eterno processo di riciclaggio».
Analogamente, il linguaggio poetico maggioritario assume i caratteri del «falso» in quanto prodotto di «copia (imperfetta?) dell’originale»; al limite, una nuova «copia» viene accettata solo se «imita» l’originale, se si pone come una «copia» dell’originale. Se intendiamo «originale» come quella formula che trova corrispondenza immediata con il pubblico di massa (in tale accezione opere come Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) di Patrizia Cavalli e Ora serrata retinae (1980) di Valerio Magrelli sono  una esemplificazione impareggiabile di quanto andavo dicendo), qual è il migliore «originale» oggi disponibile? È ovvio, sono i poeti del «paradigma maggioritario», ovvero, del minimalismo i quali gradiscono la schiera infinita di «copie imperfette», che assicurano il marchio di fabbrica dell’«originale», e ne sono la riprova sul piano della produzione della cultura di massa. Credo che occorra cominciare a riflettere sul concetto di «copia di massa» di un prodotto culturale. Vorrei essere più preciso: le composizioni di Vivian Lamarque, di un Valerio Magrelli e di Patrizia Cavalli si presentano come «copie (imperfette?)» di un originale perfetto che giace nelle propaggini subliminali di una cultura massmediatizzata standardizzata: sono dei cloni finti di una finta problematica che la loro poesia espone e teatralizza. Con tutta sincerità, quanta poesia non è altro che una «variante» degli «originali» presenti nel subliminale della cultura di massa? Occorre cominciare a chiederci: quanta poesia contemporanea è attenta al problema dello «stile» o al problema dell’«autenticità»?
Come scrive Vattimo: «Identificare la sfera dei media con l’estetico può certo suscitare qualche obiezione; ma non risulta tanto difficile ammettere una tale identificazione se si tiene conto che, oltre e più profondamente che distribuire informazione, i media producono consenso, instaurazione di un comune linguaggio nel sociale. Non sono mezzi per la massa, al servizio della massa; sono i mezzi della massa, nel senso che la costituiscono come tale, come sfera pubblica del consenso, dei gusti e del sentire comuni. Ora, questa funzione, che si usa chiamare, accentuandola negativamente, di organizzazione del consenso, è una  funzione squisitamente estetica…».*
Il dispregio della poesia del paradigma egemone verso ogni problema di «stile» viene a degradarsi in assunzione di una funzione servile: lo stile da cattiva traduzione di un Franco Buffoni o la scrittura di un «quotidiano» calendarizzato e reificato, da parte dei «quotidianisti», ridotto alla misura del cliché dell’intellettuale piccolo borghese in epoca di stagnazione economica: una sorta di spartana economia dei mezzi stilistici e degli strumenti lessicali con uno stile apparentemente democratico, uno stile da esportazione stilistica comune alla piccola borghesia stilistica dell’Unione Europea. Ma qui dovremmo porci il problema seguente: di quale cultura sia il prodotto il minimalismo romano-milanese. È bene dirlo senza impacci: l’esigenza della conservazione di quella cultura che ha rifiutato le «questioni metafisiche» porta inevitabilmente alla mitizzazione del quotidiano (per Wittgenstein è mitologico proprio il linguaggio degli oggetti) e alla instaurazione di una vera e propria ideologia degli oggetti. Personalmente, sono giunto alla drastica conclusione che lo stile è servente in quanto sottoposto alla cogenza di una legislazione immanente: la cultura di massa che, per sua essenza, richiede un paradigma dominante, che altro non è che il mondo delle merci secondo il modello standard della riconoscibilità.  Il «bello» stile, è lo stile delle merci, suo paradigma è una merce culturale cosmopolitica, eurotrasportabile ed esportabile, tanto più leggibile, in quanto prodotto della barbarie della cultura che quel paradigma legittima e finanzia. Chi oggi tra i poeti contemporanei ha una qualche percezione di questo nesso problematico? Sia detto a chiare lettere: ciò che legittima il paradigma è il paradigma stesso. Può sembrare una tautologia ed invece si tratta di un vicolo cieco verso il progresso delle forme estetiche. Ma è anche vero che il paradigma che punta alla «perfezione» (e penso al decorativismo post-penniano della poesia di Elio Pecora o al quotidianismo psicanalitico di Vivian Lamarque) precipita in un buco nero senza fondo, precipita nell’imbuto della decorazione. Piuttosto che una costruzione il paradigma si rivela essere un vero e proprio buco nero, combustione, non più catena di rimandi da segno a segno ma catena di prigioni dorate che  rimandano alla propria riconoscibilità. Ma qui il problema si complica e non vorrei tediare oltre il lettore.

Che cos’è oggi il minimalismo? Il minimalismo è dunque un discorso che si configura come «copia» dell’«originale» che giace nel subliminale della cultura della massa mediatica. Oggi occorre invece porre con forza la definizione del principiale, senza il quale non si dà logos poetico. L’urgenza che muove oggi i poeti europei più sensibili è individuare una ragione della lirica nel punto cruciale della crisi della cultura da cui quella lirica proviene. Il pensiero borghese ha operato un distinguo pragmatico: alla filosofia il discorso assertorio e alla poesia il discorso suasorio. È stata la trappola del neopositivismo nella quale una grandissima parte della poesia europea è caduta per pigrizia intellettuale e per la mancanza di una filosofia dell’arte che pensasse, in sua vece, le condizioni con le quali l’arte del nostro tempo si è trovata a convivere.
La poesia del Dopo il Moderno si è venuta così a configurare come interrogazione di un «originale» che essa stessa, implicitamente, porrebbe nell’atto del suo pronunciamento ma senza adeguata coscienza delle conseguenze e della portata che l’atto dell’interrogazione pone. La poesia del minimalismo non si chiede se esista un «originale», gli è sufficiente garanzia l’esistenza di una «copia» della «copia». Molta poesia contemporanea, per il suo essere acriticamente inconsapevole di un tale nesso problematico, perirebbe nel minimalismo acritico, accontentandosi di vivacchiare all’interno di una religione degli oggetti, e del suo contraltare: la religione del nuovo io, di un domandare retorico, vacuo, allusivo, consolatorio.
Se il minimalismo è parametrato sul modello proposizionalistico di copia della copia e suppone già data la conclusione del modello «giustificatorio» del discorso poetico, la poesia che pensa i propri fondamentali non può non scandagliare la via della interrogazione radicale sulle cause ultime e più remote che governano la ragione stessa del logos poetico
Il minimalismo è un discorso giustificatorio: si occupa di giustificare come vere un insieme di proposizioni che si reggono sulla semplice giustificabilità che lega le proposizioni le une alle altre, dove ciascuna è principio di un’altra, in una catena virtuale-infinita; si occupa di canonizzare, quale canone invariabile, un impiego «commerciale» dell’«attualità»

il problema di quale «rappresentazione poetica»

Il surrealismo europeo ha posto il problema della «rappresentazione poetica dell’oggetto» come una delle infinite possibilità con cui si può raffigurare l’oggetto. Non è soltanto il «taglio» della composizione ad essere considerato centrale: non soltanto la linguisticità del «taglio» e il rapporto che lega il nome alla cosa, è piuttosto la «cosa» che viene vista e pensata alla luce delle conseguenze della cultura del surrealismo vissuta fino al fondo della sua impossibilità e impronunciabilità. Prendiamo ad esempio un poeta della «post-avanguardia» romena come Gellu Naum:

dovrei dire qualcosa delle parole ma già sapete che non è possibile
perché divento sublime come una sorta d’angelo
ed io ogni volta che mi sento così mi metto a lavare i piatti o spazzare il cortile
allo scopo di riassettare il nulla di uno sfiduciato equilibrio 1

Non è irrilevante che Gellu Naum sia uno dei maggiori rappresentanti europei della cultura critica del movimento surrealista che del surrealismo ha saputo trarre la lezione più istruttiva, e cioè il concetto di discorso poetico basato sulla articolazione stratificata di linguaggi eteronomi, una vera e propria «logica poetica degli illogismi», come lo definisce il critico Geo Vasile. È bene dire subito che in Gellu Naum l’illogismo è cosa ben diversa dalla intelaiatura del dubbio su cui è basata la filosofia della composizione come via indiretta all’oggetto, esso indica piuttosto un enunciato in rapporto di antinomia o di alterità nei riguardi di un altro enunciato, una struttura di enunciati legata da un sistema di lacerazione permanente dei medesimi, dove il poeta affronta ogni enunciato in maniera diretta, con una presa brutale e sfrontata, come si prende un toro per le corna, senza la pretesa di individuare una soluzione conciliata e conciliativa, pacificata o che, ma con la certezza che tutti gli enunciati poetici seguiranno il gran mare dell’Essere linguistico come in un mosaico di onde destinate a frangersi e a rifrangersi in un reciproco gioco di specchi non più semantici ma ontologici Nel poeta romeno il metodo surrealistico della composizione è temprato dalla consapevolezza del peso e della consistenza «materica» del suo discorso poetico, magmaticamente denso di strati metaforici che, come un tessuto sabbioso, facilita e favorisce un continuo smottamento e interramento di tutti i materiali ferrosi e porosi in una profondità tettonica, linguisticamente densa di strati tettonici.
Credo sia utile riferirsi ad un poeta di tradizione orientale ma ancorato alla cultura occidentale, in particolare, ai filosofi Heidegger e Jaspers, come Kikuo Takano, nato nell’isola giapponese di Sado nel 1927, di cui ricordiamo i libri in traduzione italiana: L’anima dell’acqua del 1996, Secchio senza fondo del 1999, Nel cielo alto del 2003 e L’infiammata assenza del 2006. Non è privo di significato che la filosofia della composizione poetica di Kikuo Takano, nutrito alla severissima scuola degli haiku e dei tanka, sia  quella della rappresentazione come via diretta all’oggetto; bastino la lettura di alcune sue poesie tratte dall’ultimo libro per comprendere come l’oggetto venga trattato mediante una introductio recta, quasi sempre al presente, mediante una delimitazione «a cornice», dove l’occhio del lettore è al tempo stesso l’occhio dello spettatore di una sacra rappresentazione, dove un evento accade nel presente assoluto del tempo presente della lettura. Leggiamo da L’infiammata assenza:

Guarda: questa scatola vuota

che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. E così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Dove gli incipit delle composizioni sono retti da un invito, palese o latente, per lo più declinato al presente indicativo, al lettore, a prendere parte all’evento, alla agnizione. Ogni poesia è un evento che riguarda il lettore, che richiede il suo intervento. Il lettore è tirato in gioco, viene strattonato per la giacca fin dentro la composizione. In un certo senso, la composizione contiene già il lettore, tutti i lettori. In Takano la poesia diventa la casa che custodisce il senso, ordine tettonico e architetturale di una esperienza singolarissima. È questa la verità. In quest’altra poesia intitolata «Il cigno», il poeta si rivolge al lettore con un «tu» fraterno e amicale. Da Nel cielo alto:

Osserva bene il cigno,
valuta tutto grazie al cigno»,
un tempo era questo
il mio severo proposito.
Ma quanto è dura la vita del cigno:
con le sue ali bianche
egli rifiuta la luce
e dentro alimenta la tenebra.
                       
Dove il primo enunciato, di tipo asseverativo, ha un valore pragmatico-mimetico, intende aderire al reale in modo quanto più profondo e attento. La poesia che ne consegue è nient’altro che uno svolgimento dell’atto di osservazione del cigno al quale il lettore, tutti i lettori, sono chiamati a rispondere. Al lettore è richiesta la risposta. Il poeta si limita a porre la domanda, e qui il suo compito è già finito. È noto che la poesia di Takano non riposa su una particolare concezione del linguaggio o su una protesi di poesia costruita sul metalinguaggio, il suo metodo costruttivo è basato piuttosto su una idea attorno alla quale viene edificata una ipotesi esistenziale: il dettato è oggettivo e sempre misuratissimo, attento alle sfumature del pensiero parlato del quotidiano. Un pensiero di tutti. È lo svolgimento l’aspetto centrale di questa poesia. L’idea del «cigno» o quella dello «specchio», non costituiscono in realtà nulla di nuovo, quello che è nuovo è lo svolgimento, a partire da una domanda fondamentale, che il poeta dà alle sue composizioni, un portato di una realtà esistenziale-personale, un portato che una individualità ricca e significativa  trasmette al lettore. La poesia transitiva, diventa qui il latore di una istanza, il veicolo che consente la trasmissione di una esperienza che non è solo linguistica tra l’autore e il lettore, una esperienza che ha un valore non quantizzabile, che non può essere assimilata dalla cultura della giustificazione della civiltà del turismo mediatico. L’io che si trova davanti all’io (il vuoto che viene messo di fronte ad un altro vuoto):

Se vengono messi di fronte,
due specchi, riflettendosi a vicenda,
rivelano un vuoto profondo,

rivelano
un vuoto infinito.

Non è casuale che un poeta contemporaneo come il turco Enis Batur si sia proposto di «passare da una concezione di poesia ad alta dose di astrazione a una concezione di poesia ad alta dose di discorso (…) Magari potesse essere limitata dall’io che scrive la poesia… Le persone/na che costituiscono il tema della poesia, con i loro io, mi portavano davanti a un’altra curva, e in più non ero sempre io-io il soggetto della poesia, ma in qualsiasi punto focale – in qualche esempio anche in un punto d’oltranza mi mettessi, in fin dei conti ero sempre io che scrivevo la poesia… Dall’inizio alla fine, e poi con tutti i suoi congegni d’ordine diversi Divan grigio costituisce anche una struttura romanzesca, lo si può dire?».
Se confrontiamo una poesia di Enis Batur con una, mettiamo, di un poeta italiano come Dante Maffìa, che è passato da una concezione ad alta dose di astrazione del primo libro Il leone non mangia l’erba del 1974 a La biblioteca d’Alessandria  (Roma, Lepisma 2003), libro ad alta concentrazione di concretezza, notiamo che le differenze tematiche e stilistiche sono assai esigue: in entrambi i poeti è visibile il fenomeno della moltiplicazione dei punti di vista e dei personaggi, in una parola, la disseminazione dell’io poetico. In Maffìa la spersonalizzazione dell’io poetico ha ormai attinto piena consapevolezza, è diventata adulta. Nel libro pubblicato nel 2000 Lo specchio della mente, Maffìa moltiplica i punti di vista in quanto moltiplica i personaggi fabulatori: i trentaquattro personaggi che sfilano davanti agli occhi del lettore e parlano della loro storia, parlano della loro follia, sono personaggi veramente incontrati dal poeta durante delle visite in alcuni Ospedali psichiatrici. I personaggi prendono a vivere nell’io del poeta allorquando pronunciano la parola e proclamano la loro verità. Leggiamo una poesia del poeta turco:

Se mi girassi e guardassi dietro, chissà a quante centinaia di braccia nel fondo sarebbero ad aspettare i relitti che ho abbandonato; la cassa piena di monete d’oro, gli accordi da sigilli di ceralacca calda firmati tra imperi marini, un anello rubino e un candeliere d’argento di cattedrale, il vetro fragile soffiato a Levante e il bronzo battuto a Ponente – ho lasciato sul fondale in alto mare una per una le navi su cui ero salito, ho rincorso la mia vita, sono scappato appena l’ho afferrata: codardo e segreto, sono un pirata senza orecchino, l’unica cosa che guadagno di notte in notte è il tesoro demoniaco in cui sono sepolto. 2

Ed ora una poesia del poeta italiano. È «Teresa» che parla, la sua parola è diretta e brutale, agganciata alla zattera significazionista della parola:

Me lo ricordano spesso /che devo andarmene, come se io volessi /per forza restare appesa o inchiodata /a questo letto dove non arrivano /i voli delle rondini dove l’eco /dei vulcani è nel fondo delle mie orecchie. /Me ne andrò, ma tanto, lo sai, /un po’ di me è entrato /nella terra attraverso i tubi /del cesso e attraverso le nuvole /alle quali ho prestato /i miei capezzoli per abbeverarsi /prima di sciogliersi in pioggia. /Non possono più cancellarmi /fare a meno di me, qualcosa /è entrato nel circuito eternamente, /sono furba, io. (da Lo specchio della mente).

1 Gellu Naum La quinta assenza Treviso, Editing, 2006
2 E. Batur Scritti e Sigilli – Antologia – Roma, Fondazione Piazzolla, 1992

la vocabologia disperata di Giovanna Sicari


    Giovanna Sicari (Taranto, 1954 – Roma, 2003) può essere considerata uno degli autori più significativi  della poesia degli anni Ottanta-Novanta.
     Il discorso poetico della Sicari o, più precisamente, la configurazione figurativa della sua poesia, nasce da una testimonianza sulla caduta del «sacro» nell’ambito della civiltà post-industriale. Di qui l’oscuramento del «sacro» che nella sua poesia si risolve in nostalgia del «sacro». La poesia della Sicari nasce dalla dolorosa consapevolezza che nelle società moderne è la Tecnica, come un insieme di procedure sistematizzate, ad aver occupato il posto lasciato vacante dal «sacro»; da cui l’impotenza della «parola» a farsi carico di questa perdita
    La poesia di Giovanna Sicari si inscrive entro il contesto culturale degli anni Ottanta e Novanta. Sono gli anni del processo di destrutturazione della linea tecnologica del post-sperimentalismo e di destrutturazione della poesia neo-orfica. Se il primo conferisce alla Tecnica e allo strumento un ruolo assolutamente fondamentale ai fini della produzione del linguaggio poetico che abbia i connotati del moderno; la seconda vede nel denotato della tradizione simbolistica l’unica via di salvezza per la poesia moderna. Nelle configurazioni figurative della poetessa romana sia la tradizione che il moderno convivono e collidono ad un tempo. Emerge ed è visibile nell’opera della Sicari la consapevolezza della fine della concezione bipolaristica della poesia del tardo Novecento, che è stata un’ideologia, un luogo comune del pensiero critico.
    Ma da dove viene il fascino della suggestione che la lettura della sua opera produce? Ed anche il profondo senso di sconcerto e di meraviglia dinanzi all’impiego del vocabolario del linguaggio post-tecnologico del Moderno entro la sintassi dell’iconologia dell’antico? Per usare un’altra terminologia: le forme simboliche della tradizione sono qui rivestite con i panni del linguaggio post-tecnologico del Moderno?
    Con la poesia di Giovanna Sicari siamo davanti al risultato di quel complesso fenomenico che ha portato alla destrutturazione del linguaggio poetico del tardo Novecento. Nella sua poesia albeggia un’inquietudine per la vocabologia del vocabolario del nuovo linguaggio post-tecnologico, il sospetto che la poesia sia un linguaggio ideologico-totemico, e che quindi anch’essa sia una ideologia che, in quanto tale, vada de-costruita e de-strutturata per poi poterla utilizzare entro una contestura post-carnevalizzata: forma prototipica dei sistemi culturali ad alta trasmissione tecnologica della attuale fase di civiltà mediatica.
 Le «poesie-totem», ovvero, le «poesie-rebus», o meglio, le «poesie-mosaico» della Sicari, sono luoghi dove la dissonanza e la cacofonia del mondo convergono e si intorbidano, archetipi del sacro deturpato e del profano de-strutturato. Il luogo post-tecnologico di queste composizioni da Decisioni (1986), Sigillo (1989), fino a Uno stadio del respiro (1995), è il luogo della contaminazione («zona franca» la definisce la Sicari) dei post-tecnofatti linguistici. L’opera uscita postuma Ponte d’ingresso (2003), segnerà un momento di ripiegamento ad una poesia più attenta alla koiné della tradizione.
C’è nella poesia della prima Sicari come un ricordo rimosso, una anamnesi obliata di totem ancestrali. È caduta, l’aura magica del totem primitivo, l’aura magica della matrice simbolistica, è caduta in disuso la procedura dissacratoria delle post-avanguardie ma è rimasta la ilarità sacrale degli scarti linguistici: una vocabologia disperata, divelta dalle fondamenta del denotatum.
La poesia della Sicari promana da sé un paesaggio lessicale crivellato e bombardato. È una testimonianza allarmata dell’antico vaticinio apotropaico di cui si dispossessa il nuovo totem liturgico. È ovvio che qui parliamo di liturgia laica e addirittura disperata per quella assenza del divino di cui  questa poesia esibisce la propria carta di identità. Ciò che è visibile all’esterno, ovvero, alla prima lettura, è proprio ciò che si nasconde e che deve restare rimosso, sepolto. Le «parole» di questa poesia sono le tessere semantiche, i vocaboli-denotatum, gli strumenti di un mondo post-tecnologico che  ha già superato lo stadio della produzione industriale. Voglio dire che, per contraltare, la Sicari capisce per tempo che i tempi sono cambiati. La poesia della Sicari si offre come una manifattura; malinconia che si nutre della discarica dei reperti segnici ormai non più utilizzabili dalla nuova produzione tecnologico-semiotica. Così, la malinconia dei pezzi  di produzione usciti fuori produzione, irradia straniamento nella misura della sua organizzazione formale e strutturale.
Il totem post-tecnologico del discorso poetico di Giovanna Sicari si nutre dello stesso procedimento «fagocitatorio» che regna nel libero mercato della produzione post-tecnologica: costentualizza nel nuovo sistema segnico gli elementi de-contestualizzati dal progresso tecnologico.
Come lo strumento rivela l’essenza della Tecnica soltanto quando s’inceppa e si guasta, come lo strumento è trasparente finché lo si utilizza entro il circuito della produzione di merci, così anche le parole diventano pienamente visibili soltanto quando muoiono, si guastano, diventa infungibili alle esigenze della produzione per il mercato. Analogamente, la «parola poetica» della Sicari attrae, come una calamita, le tessere semantiche che sono state deiettate dalla produzione.
Come veri e propri zombi, soltanto dopo morte le «parole poetiche» della Sicari possono acquistare nuova vita. Così, le configurazioni lessicali della Sicari appaiono abnormi e incongrue perché si “cibano” di tali morti per restituirli alla piena visibilità di una nuova vita, di una nuova dimensione: la dimensione estetica.
Non è privo di significato che, in generale, tutta la poesia veramente significativa del post-moderno di Maria Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Laura Canciani e Giovanna Sicari, sia «cannibalica» fin nelle sue intime fibre, nella misura in cui essa si nutre di «morti» per restituirli alla  piena visibilità della loro «nuova» vita.
La poesia algida ed ilare, sacrale e post-sacralizzata del post-moderno, rivela la propria vera natura di discorso testimoniale dell’impotenza del «soggetto» di cui è spia certo impiego dell’iperrealismo disseminato in tutta la produzione della prima Sicari. C’è iperrealismo perché c’è un eccesso di reale.
La poesia della Sicari rivela la melancholia della società della produzione computerizzata del reale.
Così, l’iperreale segue ad un altro iperreale… rendendo l’arte sempre più virtuale e surreale e metareale…


Nota

Giuseppe Pedota:

Giuseppe Pedota è morto il 15 maggio 2010. Era nato nel 1934 a Genzano di Lucania. Esordisce come pittore e scultore, produce opere di architettura, conosce e frequenta poeti e scrittori come Borges e Dino Buzzati, viaggia tra Milano, Cremona e Roma. È un artista inquieto e insofferente del clima di conformismo artistico e politico che vige in Italia negli anni Sessanta e Settanta. La sua pittura ama il gesto stereometrico e i cromatismi ad estesa campitura. Nel campo della poesia, nel 1995 entra a far parte della redazione della rivista romana di letteratura «Poiesis» e assieme agli altri suoi redattori redige e firma sul n. 7 della rivista nel 1995  il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica». Nel 1996 pubblica Equazione d'infinito (Roma, Scettro del Re); nel 1999 pubblica il poema I vincoli dello spazio (Roma, Scettro del Re). Sul numero 22 di «Poiesis» appaiono gli inediti di Lucania lucis e, nel 2005, il numero speciale (n. 32) di «Poiesis» raccoglie i suoi scritti poetici con una scelta di saggi critici sulla sua poesia. Nel 2007 pubblica il saggio La nuova poesia ontologica  (Faloppio, LietoColle) - una riflessione sulla poesia di Giorgio Linguaglossa.




[1] R. Barthes Il grado zero della scrittura Lerici, Milano, 1969 p. 15
[2] Giorgio Linguaglossa Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Roma, Scettro del Re, 2002
[3] G.M. Reale www.lietocolle.com in poesia e critica del 4 .10.2010
 Il lungo dibattito su La nuova poesia modernista italiana di Giorgio Linguaglossa, stimolante anche nei suoi filoni polemici accessori (risposta di…a…), al di là della condivisione o meno del discrimen di inclusione/esclusione di determinati autori, mette in primo piano un punto nodale: la validità di un impianto culturale istituzionalizzato che prolifera a latere di piccoli e grandi gruppi editoriali. E non solo, tocca nervi scoperti quali l’essenza e il significato della poesia, il ruolo che riveste nella società odierna e, infine, sfocia nella vexata quaestio della funzione del critico letterario e quella ad esso collegata del canone, che finora è servito ad identificare una civiltà, con un atto di prescrizione e normazione (nel doppio significato di norma e uniformazione, ovvero standardizzazione) dei prodotti culturali ritenuti fondamentali e caratterizzanti, cogenti, per così dire.
Nel mutamento di una società sempre più multiculturale e multirazziale che mette in crisi il concetto di un’identità a senso unico, legata all’identità nazionale,  forse ha poco senso parlare di canone in senso tradizionale, quello che connota le varie letterature nazionali, appunto, sulla base di presupposti politico-culturali e principi etici ed estetici un tempo forse autorevoli, oggi meno.
Resta comunque il fatto di dover scegliere distinguendo, cernere proprio nel senso latino che ha originato il termine critica, nel proliferare di opere e autori, quelle e quelli che varrebbe la pena di annettere a un’ipotetica traditio symbolica o anche, più semplicemente, comprare in edicola e leggere, magari «per diletto», come da dantesca memoria. Vero è che non si tratta di problemi nuovi, essi, non possiamo ignorarlo, si ripresentano immutati ogni volta che cambiano le direttrici culturali, sociali, politiche e scientifico-tecnologiche di un’epoca. Non diversamente da quanto sta accadendo a noi. Voglio dire che la domanda intorno ai testi fondanti una cultura e la questione di chi debba essere preposto a decidere sul loro essere fondanti ( aspetti che rimandano a problemi estetici più generali, quali: cos’è la poesia? qual è la funzione del critico letterario? e ad ulteriori e spesso manichee disquisizioni sugli ismi vari) si ripropongono immutate a scadenze temporali più o meno lunghe. Né l’esercito di poeti o aspiranti tali di oggi appare spropositato rispetto agli eserciti di poeti o aspiranti tali che ci hanno preceduti, basti pensare al prologo dell'Aìtia di Callimaco contro i Telchini o all’epistola 1 del libro II dell’ Epistularum Liber  di Orazio, vv.115-117: «quod medicorum est promittunt medici; tractant fabrilia fabri: scribimus indocti doctique poemata passim»; passo ripreso tra virgolette anche da San Gerolamo nelle sue Epistulae, 53, 6-7, con la seguente osservazione: c’è un solo mestiere, quello dello scrittore, che tutti rivendicano allegramente a sé: «scriviamo, sapienti e ignoranti, poesie, senza distinzione».
Non tutto è – giustamente e per fortuna – sopravvissuto; non tutto quello che è sopravvissuto meritava di sopravvivere dall’antichità ai nostri giorni; non tutto quello che della nostra epoca – giustamente? per fortuna? – sopravviverà avrà meritato di farlo. Quanta parte ha avuto nella trasmissione degli autori canonici latini il giudizio di Quintiliano? Quanta quello di Pietro Bembo, e Dante e Petrarca prima di lui, nella nostra letteratura? Quanta Cesari, gli “Amici Pedanti” e Carducci? Quanta Croce, e in tempi più recenti la critica militante? In taluni casi troppa. Di certo un anti-canone, Contini docet,  si è comunque imposto: Cecco Angiolieri/Becchina vs Dante Alighieri/Beatrice o Luciano Folgore/La pioggia sul cappello vs Gabriele D’Annunzio /La pioggia nel pineto, per fare un paio di esempi spiccioli. Oggi si ravvisa la necessità non di anti-canoni (che confermano l’egemonia del canone violandone la norma) ma di canoni alternativi ordinati tra loro secondo un tassonomia in cui il valore letterario sia solo uno dei valori possibili. Questo perché sono cambiati i valori con cui si filtra la cultura e, per simbiosi, con cui la cultura filtra i valori. I canali attraverso cui la cultura si diffonde invece si sono moltiplicati e, come l’economia, globalizzati (siti internet, blog, social network, e-mail, ma anche micro, piccola e media editoria), senza intaccare l’autorità dell’impianto accademico- giornalistico-editoriale egemone.
Il letterato blasonato di un tempo, come l’intellettuale di stampo illuminista dell’età moderna, come anche il maître à penser frequentatore della rive gauche, il post-strutturalista barthiano il genealogista foucaultiano, il decostruzionista derridiano, il pensatore rizomatico deleuziano, il postmoderno lyotardiano e, per rientrare nelle nostre contrade, l’intellettuale di sinistra, quello nato dal clima culturale post- bellico, dico, non esiste (esistono) più. Gli eredi (epigoni, emuli, cloni?) in filigrana riflettono i variegati colori del variegato panorama culturale contemporaneo. E non necessariamente è una notazione negativa, quanto una presa d’atto disincantata ( a questo proposito, mi viene da pensare a quanti sviluppi potrebbe avere la distinzione da Dottor Sottile tra disincanto e cinismo…).
Fluttuiamo tra doxa ed episteme in fatto di critica letteraria; rolliamo tra spinte globalizzanti e localismi di ritorno in tema di correnti,  linee e fronti poetico- culturali; ci giostriamo con la leggerezza di saltimbanchi tra scarto e norma; ondeggiamo tra un dogmatismo che ci porta ad affermare il valore assoluto della poesia e un nichilismo che tende a relativizzarlo del tutto.
Dunque? La poesia è morta, uccisa da una schiera di critici ibridati, mescidati e camaleontici? Né l’uno né l’altro, credo. Fare poesia, diffonderla, tramandarla è un’esigenza ineludibile. Non è un eidos esistente in sé come ideale perfetto ed eterno: la poesia è il poeta, è il lettore, è l’età che la esprime. A volte sfolgora, altre si incunea, serpeggia, infiacchisce. A volte fonda le acropoli, altre abita le torri d’avorio come pure le rovine, altre ancore le latrine di corti dorate. Non ogni età ha un grande poeta, di certo ha il più grande poeta che riesce a esprimere. Ogni età ha i poeti e i critici che merita. Ceteri omnes longe sequentur. Anche la nostra ha i propri, ma per saperlo ci vorrà lo sguardo a posteriori, lo sguardo sulla longue durée.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Non dovrebbe scandalizzare il pensiero che la poesia possa essere merce di consumo, ancor più se scritta al presente indicativo come nell'esempio qui riportato del poeta Takano che proviene dalla tradizione tutta orientale degli aiku. Ciò che la rende immune dall'essere "consumata" è il valore simbolico dei gesti fattivi, nel loro accadere definitivo che non può essere in alcun modo ripetuto da altri, ne' può portare a successivi sviluppi. Viene scongiurato il rischio che si possa fare copia della copia ma, semmai, dovrebbe essere giusto tornare a parlare di scrittura di maniera, o di genere. Così facendo, distinguendo la copia e la copia della copia dalla scrittura di genere, o di maniera, potremmo incasellare senza tanti drammi ciò che sembra appartenere ad una degenerazione di oggi, ma che in definitiva mi pare ci sia sempre stata nelle epoche. O no?

mayoor

Anonimo ha detto...

"Gli altri"

sono stanca del mondo --
guardo i programmi alla tv
del cosmo e apprendo
che un pianeta, dacché scoperto
nella più famigerata stella,
avrà vita - dicono -
impossibile

piccole maledette sfere
senza speranza
di contatto
nell'infocata speme

sono scontenta del mondo:
per sopravvivere bisogna
assumere distanza
da sé --- da tutto

(erminia passannanti, 15 gennaio 2012)

Anonimo ha detto...

Questa è una mia risposta (non intesa) emotiva al tema di questo post: non l'ho scritta in risposta a questo post, ma in modo concomitante, forse come reazione inconsapevole all'evento di questo secondo Titanic. Un evento che davvero prova la nullità del tutto: del progresso, del benessere, in primis, e poi tutto il resto dietro, scontato. erminia passannanti

Anonimo ha detto...

L'essere umano ha la parola e l'espressione fisica, politica ovvero, per reagire ai tempi. Come si fa a contestare il modo in cui i poeti operano nel loro tempo, essendone essi in qualche modo, non superficiale, non gli artefici, ma il riflesso. Mi pare che qui si attribuisca troppa importanza al poeta: non erano stati espulsi dalla Civitas, perchè già compresi come parassitari, schierati, schiavi?

Che ci aspettate ....dai poeti!?

Non so,....

(erminia)

Unknown ha detto...

L'evento a cui fai riferimento è a mio avviso ,solo opinione personale , di spaesamento per vari fattori , non solo quello "techne" a cui sembra far riferimento il tuo osservare..techne per cui la societa contemporanea avrebbe smarrito la strada di psiche ,sradicandosi per sempre da una sia via analogica affidando il suo senso ad altri strumenti .

Lo spaesamento di questa vicenda sarebbe gia pesante se si osservasse dal punto di vista di chi ha creduto di essere piu dio di dio, ergo superio..controllore pseudo scientifico di ogni evento delle vita da sottomettere appunto a chissa quale grandezza umana o divina.

Ma è ancor piu pesante se si osservano alcuni meccanismi di cui alcuni piu visibili altri di "altri alfabeti" satanici massonici affaristici sovranazionali

fra i primi piu visibili ,la solita presa "mediatica" che fa male sempre a chi vuole essere critico su come le pecore sono peggio dei lupi e vengo regolamrnete condizionate bombardandole meditaicamente. In questo caso facendo carne da macello un solo uomo, la solita scheggia impazzita che , udiamo udiamo, manderebbe in tilt proprio quel dio uomo che ha mandato affanculo qualsiasi "altro" da sè , controllando tutto con la famosa strumentazione di ogni benessere e crociera di vita.Per la logica del capro espiatorio che fa sempre presa su popolazione latine come la nostra, basta un capitano da dare in pasto alla folla, che tutto il resta del sipario e dietro lo stesso, puo scomparire magicamente. Nessuno dei mitici media (di sta minkia ) a guidare le pecorelle su altre domande e ragionamenti, comprese quelle palesi delle conseguenze sul piano "globale " di un ulteriore affondamento del sistema paese italia...però poi gli stessi fanno le scenette di appoggio a questa o quella fincantieri, oppure sul funerale al nostro sistema turismo.

in realtà per come la penso , la vicenda tutta , razionale e irrazionale, riconduce a rituali massonici che sempre dovrebbero spaesare anche se purtroppo non è così, perche tutti via via sono diventati come l'antropologia richiesta da societa occulte, mafiose o strictu sensu massoniche, anche senza parteciparvi attivamente.

La vicenda è cosi densa di alfabeti simbolici, ricorrenze, coincidenze et cetera et cetera che la collisione in sè richiama affondamento " altro" ..minaccia ben presente nel continuo atto di violenza, collisione e collusione col mare nostrum e la nostra "repubblica marinara" , in realtà colonia (penale) continuamente minacciata appunto, nei momenti di criticita maggiore , ciclica, di filare dritto come da dettami dell'impero.

ps
piacere di averti riletto :-)

Anonimo ha detto...

A Erminia e a Ro

Vuote saranno le mie parole
nel comodo incedere degli anni
che dentro il mio stare s'addormentano
ma i giorni scorrono ruote senza carro
io sono l'internet dei migliori tempi
voi siete la mia sacra parola che
mi sveglia e mi sorveglia , fai o critico
di me una nuova terra non poesia per me
ma grande annuncio di nuovi affanni
ed il mondo intero si piegherà a te
di me non saprà che farne e solo al mio
vivere resterà la prima gioia se non unica
vera.

Emilia Banfi

ha detto...

:) ciao ritarò! piacere mio.

Anonimo ha detto...

Interessante testo da studiare: me lo studierò. Grazie Emilia. (erminia)

Unknown ha detto...

Uellà ERM! ...ma allora è nostro! .-)

Unknown ha detto...

..io ormai non faccio testo. Potresti scrivere anche solo "ABC", qualsiasi AZeta che a cascata sulla tua il mio sciacquettio di gioia . Sei il mio nobel che ho toccato dal vivo. Non posso studiare come Erm perchè sei la mia "Emyfania" ..VERA!

giorgio linguaglossa ha detto...

ho fatto parte della redazione di "Poiesis" nei primi anni Novanta, quando erano attivi Giuseppe Pedota, la filosofa Cinzia Santese, Lisa Stace, Giorgia Stecher,lo scrittore russo Andrej Silkjn... era forse l'ultima roccaforte di retroguardia di un mondo che si avviava alla stagnazione forzosa, si viveva alla fine di un secolo e se ne aveva acuta consapevolezza... quel gruppo che fu definito "zattera di naufraghi", davvero una sentenza, finì spappolato e disperso, chi morto, chi folle, chi ritiratosi a vita privata... ed ora che quel gruppo meraviglioso si è disperso ed è stato sconfitto, mi fa piacere sapere che gli scritti teorici di Giuseppe Pedota vedano la luce e che ci parlino con incorrotta tensione spirituale e concettuale.
Ma davvero, penso che non ci fu sconfitta più proficua di quella. Come accade alle vere "avanguardie" fu una sconfitta annunciata di cui gli stessi redattori ne erano ben consapevoli.
Certo, oggi i tempi non mi sembrano più consoni ad alcuna forma di approfondimento, dobbiamo prenderne atto. Questi scritti però rappresentano una testimonianza di incredibile forza di un contro intellettuale, un vero testimone del suo tempo, un esule in patria come Giuseppe Pedota.

Laura Canciani