I PARTE – L’OSSERVATORIO
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Un fiume di luci cangianti dal bianco
al rosso defluente alle sette
serali d’una domenica d’ottobre
in cui gli ultimi spiccioli di questa
estate straordinaria per caldo
e dolore si spendono, dal buio
dell’inversa corsia a chi torna – bava
brillante di lumaca più che corso
di luminarie nella notte (persa
l’ora legale) presto caduta, scia
del giorno assolato in cui sonnecchia pronto
al risveglio improvviso il primo freddo –
un fiume sordo-lento defluisce
e pulsa vita nell’opposto verso
nel giro del ramo che si piega
e divarica dal tronco in minori
affluenti, in un delta di quartieri
periferici o stagna nel traffico;
un fiume che nel cupo defluire
non sai ancora cosa reca se altro
dolore – sia graffio o puntura –,
o l’abbandono di un corpo
all’altro nell’enfasi perfetta
del desiderio (e il riposo che il dopo
amore fa sereno, rende necessario);
o forse l’ansia reca nel ritorno
a casa dove in due si è più soli
che soli, cupa smania il desiderio
ardente non cancella il dolore
ma ne cresce l’angoscia e incresce
al cuore, e più che stella splende
sull’antro famelico e l’affama
diana?
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Lucente al mattutino primo
balzo del cuore torna dominante
pensiero, al freddo d’un precoce inverno
già pungente nel grigio sfilare d’automobili
assonnate lungo i viali e sui tornanti della via
Trionfale da cui chiara la città,
resa innocente dal risveglio, bella
si mostra e compiace nel riverbero
solare; promette la seconda
giovinezza che vive la tardiva
rosa ottobrina su tutto vincente
ma in forza d’amore ugualmente
destinata a far male; per tutta la giornata
ascende veloce fino a sera fino all’ora
in cui greve il cuore in un cupo
silenzio si torna, da un’altra corrente
di cangianti luminarie trasportati – una Via
Lattea fosca e metropolitana inoltrantesi
nelle viscere al fondo di una losca
e sporca città mentre il giorno s’avvia
alla sua fine, non migliore non peggiore
di tanti che di sole o d’acqua
sono morti spariti alla vista non previsti
dalla nostra memoria: ma questi per il fuoco
saranno ricordati per la nebbia
che ne racchiude il riverbero segreto,
l’amorosa dominante mattutina idea
che più affama (più affanna) nell’ora del ritorno –
nella torbida già novembrina aria serale
intensamente rosata sopra cupole e tetti
di chiese e templi sul Gianicolo verso
Monteverde, che illude in un domani
di bel tempo di sole e caldo ancora
estivi da godere dopo pranzo nell’oziosa e sola
possibile conversazione prima del ritorno
al lavoro o nel passeggio svagato
verso Villa Borghese al Tritone per le altre
vie dal Centro fuggenti nella luce
del giorno morente – nuvoli assordanti,
sui grandi platani spaziano gli storni
qui sostando al ripasso stagionale –
mentre scende e infittisce la notte
che altre luci presto raggianti d’astri
artificiali (ma umani per chi occhi
vi rassomiglia profondi, i loro raggi al cùpido
sguardo che li accoglie lancianti l’amorosa
intesa) accenderanno fino a tarda
ora, languenti dove meno la vita
notturna è marasma e frastuono
dove il prezzo più alto ne paga chi si spende
nel vizio di perdersi solo dietro un verde
muro di vite americana, sanguinante
già foglie e colore, che accerchia questa parte
del Pineto e dal giardino nuovo
preclude la vista delle balze digradanti
verso valle al proscenio dell’alba
dove l’incipiente primo raggio
solare dissolve la bruma penetra la stanza
dissipa il sonno dona il risveglio e l’aria
serena mattutina, la lucente
stella diana.
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Perché l’ora mattutina tra le sette
e le otto regala discendendo Monte
Mario corrusco nel freddo nell’aria di fine
novembre pungente un pensiero di morte,
chiaro ma così vago e trasognato
da somigliare alla foschia fluttuante
sui profili dei templi delle chiese
su San Pietro e l’intera torbida mortale
città, da sembrare irreale?
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È il giorno appena nato che non sai se ascende
o si distende stanco prima che l’usuale
fatica lo prostri giunta la sera; è dopo
l’alba umida di brume che sul parco
consistono e insistono vaste aeree,
dai contorni radenti dove l’alzo mattutino
già le dirada e le assola sul cantiere
Icori e sotto il Gemelli sul ponte ferroviario;
è l’ora adolescente quando sulla città
che pure splende indugia una foschia
lattiginosa, da Ponte Milvio ai piedi
del Gianicolo fosco l’oltrefiume si perde
nella luce agghiacciata latitante
sui rami ulcerati dal freddo sulla rampa
di Monte Mario e dove all’occhio miope
è concesso lo sguardo il viola che preannuncia
neve ai Castelli e qui alle spalle l’ombra
cupa di mezzacosta dove Villa
Miani coi portici giallini si acquatta in
mezzo al verde perenne (che il gelo
brucerà) mentre il sole si scalda rischiara
l’aria fa dolce l’ora allevia l’ansia;
è il primo mattino di umano calore
per chi alle sette e mezzo con animo
sereno disceso dal monte a mente fresca
nel marasma feriale del mercato
dei fiori s’inoltra e con affanno
e pena nuovi dalle strade intricate
di macchine in sosta vietata di aperti
Transit in doppia fila verrà fuori,
come se la trama d’ombra che là il sole
sembra incapace di spezzare e il cono
di luce morente a poco a poco nel-
l’addensarsi di nuvole – preparano
forse altra pioggia dopo quella dei giorni
trascorsi, altra acqua inclemente
che rinnovi i disagi riversando
lo scroscio freddo – siano forma
del suo rovello, del vizio che l’accorta
pazienza cui l’amore vincendo a sera
fatica e angoscia dona fuoco fila
con le parole – “testura infelice”
che catturi la vita.
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Un’altra teoria lunga di luci in rosso
cangianti a coppie nella bassura di via
di Valle Aurelia riconduce a casa
alle spalle lasciandosi un giorno mal
speso dolente nel cuore con l’ultimo
barlume di luce che si spegne dietro
un paesaggio di spaesato e falso
Tirolo sotto gli archi del ponte
ferroviario e la grande discarica
abusiva fumigante aspri vapori
letali e fumi di scarico nel basso
rombo lento, nel vento che dal fondo
dello stretto canale spinge avanti
spinge fino all’ingorgo sulla prima
curva nel basso parco fino al piano
sterrato dalla ruspa: è quasi marzo,
un marzo che avrà lampi e piogge fitte
che darà pena e freddo insospettati,
venti pungenti e d’acqua all’alba
con lo scroscio sui selci del cortile
sulla magnolia e i lauri del giardino,
un marzo che i trentotto anni
recherà, come la sosta forzata
ora questo pensiero mentre nox
iam supervenit e al fondo spalato
di detriti da chi acceso per chi
ardente non è dato sapere un gran
fuoco
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un fuoco di rifiuti di cascami che non
può dare calore ma solo una bluastra smorta
fiamma che brucia bassa e nero fumo contro
il cielo coperto (una nube ci minaccia) leva
acre di quanto mal
si degrada e consuma nel fuoco, rossa spiga
cresciuta tra vapori e tronfie tenebre; gonfie
nuvole presto, aria e terra adiuvanti, s’apriranno:
acqua finché altro nuovo giorno si levi acqua
benefica o letale cada stanotte sul parco
vuoto, al cui fuoco nessuno si riscalda;
la correntìa di luci lentamente esaurita s’allontana,
solo ogni tanto un rombo cupo rantola ancora
giù nella strada piana piano muore.
IV PARTE – MARE DELLE PASSIONI
1 (Su queste rive)
Doloroso in queste sere (quando il freddo
si fa pungente il cielo piatto e gonfio
d’acqua pronta a scaricarsi lontano
su quartieri offuscati a occidente
verso il mare e Monteverde sul Pineto
dove i primi colori primaverili e mature
sofferte mimose ingemmano radure,
generosi profumi elargiscono dai lunghi
piani), per chi su quella vista persi
gli occhi e smarrito nell’eco lontana
di voci attardate oltre i declivi verdi
della valletta dei cani e scoppiettanti rosse
azzurre moto (ai declinanti ultimi raggi
con riflessi e riverberi al varco della rete
metallica oltre il ponte e la gran volta
della strada disparenti) presto perse
agli occhi si divide fra l’ansia del ritorno
alla cura infruttuosa (oh con quale
solerte inganno) dell’arido giardino
che da mesi non produce più niente
(ma a maggio nel tepore del mattino
una rosa fiorirà macchiando il pruno
solitario col suo sangue) e un istinto
di fuga (come se libertà da volontaria
reclusione cercasse per amore
o volontà di perdizione); doloroso
in queste sere, bruciante nella viva
carne il ricordo del vuoto (un abisso
e paradiso in cui i corpi al tocco lieve
delle dita tremanti scivolavano) perduta-
mente si ridesta da un’altra trepida
sera di febbraio in cui un uguale gelo
e un’inquietudine serena di nascenti
speranze pungevano l’anima, un vago
avvenire adombrando (e quanta pena
poi che un amore fioriva, il vecchio
e malato minacciando: avrebbe vinto
e si sarebbe imposto per il tempo
d’una falsa primavera
– «oh lunghi ardenti
giorni fatevi specchio amoroso dei nostri
gesti, oh versi brevissimi rampolli
segreti e solari di chi per impazienza
e peccato ora non cura e non sorveglia
la vostra crescita lasciate
ombra e luce inseguendosi tepore
e umidità che spontanei nell’angolo nudo
del giardino chi non sa vi riconosca
testimoni amorosi» –
per finire ucciso
dal proprio furore a inizio estate dopo
una sera agrodolce di fragole e vino,
e una notte d’amaro dolorosa
per chi senza più sonno si stordiva
con immagini e parole), castigo
degli anni avvenire, fino al maggio
(di rondini e rose del maggiore anniversario)
in cui distacco e volontà di guarigione
ci avrebbero salvati o illusi, cuore,
per quest’ora di mortale tenerezza
per i Mani bambini di un domani di vittoria-
morte (se è vita solo la sconfitta)
in cui spento ogni fuoco (incenerito)
avviandosi l’inverno alla sua fine,
i dolci tepori di marzo ritornando
e a tempi più incerti alternandosi
di pigre nubi passeggere nel turchino
della sera su sobborghi e quartieri
popolari oltre Ottavia borghesi della nuova
Cassia verso una meta impensabile,
chi in quel transito (o fuga) perdendosi
sereno apre il cuore – e sedendo
dopo cena a uno scrittoio di buon
legno stagionato lavorato da artigiani
del nord potrà scrivere: su queste rive
io mi custodisco.
3 (L’ansia)
Poi che l’ansia m’istilla il suo sottile
veleno non potrò parlarti
d’amore, dirti: «amore, un poeta innamorato
che ridicola cosa se non muore
o non ne scrive, ma anche scriverne
è un vizio anche descrivere le proprie
pene è un peccato da scontare» – penso
a Catullo al carme ottavo di così
patetica bellezza in cui rimpiange i giorni
consumati correndo dove amore pretendeva
e poi più non vuole – quello è il senso
di quest’ansia invadente ogni vena cresciuta
d’ora in ora appena sveglio e dopo
anche dopo aver fatto l’amore nella luce
venata del primo pomeriggio se il
furore dolce non ne ha spento il fuoco
non ne ha saziato il crudo morso;
«ancora alza la testa minaccioso
e impudente eros bambino»: un conforto
le tue parole, ma non curano il mio
strano male ansia e noia: mentre l’aria
castamente imbruna anche il tuo umore
cambia diventi inquieta poi ch’è prossima
l’ora di cena: io penso a ieri un ieri
lontano di cui portiamo il fardello
con incosciente leggerezza, giorni uguali
a se stessi stagioni e ore ad altre
ore e stagioni uguali noi a noi, e non so
se il miele stillante dal paziente
quieto scorrere del tempo del sangue
nelle vene indurentisi è maggior
felicità o minor duolo aspettando
la sera e il ritrovarci nella casa e nel
letto, perfetto rifugio della nostra
età.
* Una nota di Giorgio Linguaglossa
Francesco Dalessandro, L’Osservatorio, Moretti & Vitali, Bergamo, 2011
L’Osservatorio di Francesco Dalessandro fu pubblicato, per la prima volta in plaquette, nel 1989 presso le edizioni Il Labirinto di Roma, e poi nel 1999 dalle edizioni Caramanica. Questa nuova versione ci consegna l’opera più significativa e cospicua del romano Francesco Dalessandro, appartenente alla generazione degli anni Ottanta, che aveva il suo fortilizio nella rivista «Arsenale» con Gianfranco Palmery e altri valenti collaboratori. Cosa dire? A distanza di più di due decenni l’opera di Dalessandro sembra acquistare smalto e consistenza proprio a causa della sua impoliticità di fondo: per quella poesia che sembra accarezzare il «paesaggio» e gli oggetti che fanno parte di quel paesaggio. Ecco, credo che oggi quello che risalta è l’impoliticità di fondo di quest’opera; altro aspetto che qui vorrei mettere in evidenza è che il paesaggio è quello visto dall’autore ogni giorno durante il suo viaggio di andata e ritorno dal luogo di lavoro. Ovviamente, è un viaggio privo di avventura e di scoperte. In una brevissima recensione del 1989 ricordo ancora chiaramente che scrivevo di «posizione estatica» di Dalessandro cercando di salvaguardarne l’immagine di poeta non necessariamente contemplativo pur nell’ambito di una categoria heideggeriana.
Certo, il libro rispecchia quelle che erano allora le linee della tarda poesia bertolucciana, il ritorno ad una poesia che si rivolgesse di più alla scatola acustica e meno alla temperie impegnata, civica o politica; era una poesia che sembrava aver messo nel ripostiglio dell’oblio le proposte di poetica che non provenissero dall'assunto di un indiscusso primato del Politico e da un rigorosissimo e severo controllo dell’organo della vista. Tuttavia, l’organo della vista (o meglio della visione) sembra dilagare ed effondersi in questa poesia quasi per prestare alle cose l’aura che le cose non hanno più o che la poesia sembra non essere più in grado di replicare in sé. Ma la poesia di Dalessandro non vuole essere soltanto poesia di visione (pur se visione ad occhi aperti), né una poesia di veggenza; il moto lento e ondulatorio della visione dell’occhio segue docilmente l’andirivieni dei versi che si susseguono e si rimandano l’un l’altro senza soluzione di continuità, in un inseguimento incessante (quasi mai interrotto da segni di punteggiatura) non del senso ma dei sensi plurimi nei quali si cristallizza il senso delle visioni. Non una poesia a pendenza elegiaca (anche se l’elegia è la spia dominante di questo genere), non poesia del paesaggio quotidiano, anche se il quotidiano sembra trapelare un po’ dappertutto, non poesia di colori della città, anche se Roma è la protagonista assoluta di questa poesia.
Quello che allora, sul finire degli anni Ottanta appariva chiaro, è adesso agli inizi degli anni Dieci alquanto oscuro. La cornice degli eventi è cambiata e con essa è cambiata anche la cornice di lettura di un libro, è questo l’aspetto più interessante, credo.
Con gli anni Novanta apparirà chiaro l’infausto destino della poesia contemporanea: quello di essere costretta a muoversi all’interno di una scrittura tellurizzata, decentrata, bucherellata, spezzettata, psicosomatica, idiosincratica, persoanalitica, una sorta di periferia dei linguaggi peristaltici, mobili, dis-metrici, dis-tassici che nuotano in una geografia-topografia di rovine (lessematiche, semantiche, significazioniste). Allora, invece, si credeva ancora possibile ricostituire una parola politica, o meglio che fosse possibile riformularla secondo un linguaggio poetico che riuscisse a conciliare l’aspetto lessematico e quello fonosimbolico, tonosimbolico. Ma tutto ciò non sembra scalfire gli intenti di Francesco Dalessandro, né i suoi progetti per una poesia che riunisse la leggibilità con un ritorno alla tradizione. Gli anni Ottanta sono anni di riflusso ma possono contare su una cospicua serie di poeti di sicura qualità rispetto a questi nostri confusissimi anni di stagnazione economica, politica e spirituale, in cui è davvero difficile mantenere un orientamento. A quell’epoca c’era ancora un dibattito sulle sorti ultime e progressive. C’erano ancora i generi letterari con la sicurezza delle loro divisioni.
3 commenti:
Certo di non aver acceso particolari emozioni, o destato pensieri sorprendenti, il poeta chiuderà con l'ultimo verso la porta sulla nuova poesia. E dopo ogni poesia penserà: ecco, io non credo di essere qualcosa più di questo. E questo a me sembra il Tevere ( proprio perché mi sembra non l'abbia nominato), al cui scorrere si è affiancato nel ritmo della scrittura, ritmo che si porta via misticamente i facili sobbalzi dell'esistere a cui nessuno sa abituarsi. Rassicurante perché ripetitivo di se', resta (qui sì tenacemente) affrancato al permanente invisibile, proprio perché si sa che di permanente nella vita non c'è nulla, mentre tutti sospettiamo ce ne debba essere pure da qualche parte.
L'azzeramento delle emozioni ( o questo suo renderle in minuscolo), non è di per se' malinconico o pessimistico. Al contrario, stabilisce un clima meditativo nel senso orientaleggiante del termine, cioè non un meditare su qualcosa, ma un acquietare premeditato della mente e dei pensieri.
La malinconia (e il dolore) è ciò che si incontra lungo questo particolare percorso meditativo, ma va detto che senza dolore pare non ci possa essere comunicazione umana (l'esatto contrario della sola gioia nei messaggi pubblicitari).
Al lettore però tutto questo potrebbe arrivare con il tono di una ciaculatoria , o di un Mantra a seconda che se ne abbia o meno l'esperienza.
mayoor
« La tua Milano, amore, fa paura
e mi tratta da esule e sbandita,
e in casa nostra ogni cosa
mi guarda male, come risentita.
Ogni cosa ti chiama, ti reclama,
e mi lascia così, sola e spaurita.
E tutto il tempo testimonia il tempo
del dolore indiviso della vita.
E in tutto il tempo trovo tregua il tempo
che ti sto accanto, anima ferita. »
Questa poetessa avrà anche tradotto troppi grandi padri, avrà anche scritto un bel “falso d’autore”, ma almeno sa mantenersi lontana dal rosario monocorde di questo autore letto sopra. In lei c’è ancora qualcosa di appassionato sebbene non si sappia quanto sia stata attenta al problema dell’«autenticità». È minimalista, è surrealista o è “oltre il moderno”?
g.b.
Triste solitario y final.
Così, utilizzando il bel libro di O. Soriano sia per il titolo che per i contenuti (la ricerca di un senso e di un perché), estrapolerei questi splendidi ultimi versi, ai quali Dalessandro ci porta dopo averci sfinito letteralmente (e letterariamente) attraverso un versificare che sottomette una capacità visionaria ed immaginifica straordinarie ad una pura registrazione visiva. Il paesaggio (e con lui il poeta) ci appare sfuggente e lontano, come quello riflesso dal doppio finestrino di un treno in corsa. L’ansia e la noia che vengono denunciate qui, sembrano anche denunciare l’assenza dell’*epos*, o della *politica*, che servirebbero ad indagare e non soltanto a raccontare/descrivere le emozioni. A renderle collegabili da *esperienza*, quella di chi scrive, ad *esperienza*, quella di chi legge. Può essere che, per farci arrivare a questo *climax*, sia stato necessario questo espediente di portarci qua e là, senza che succeda niente. Ma questo *coup de theatre*, a mio parere, forse non può essere sostenuto in poesia che, per sua natura (???), ha bisogno di un *enjambement* continuo e profondo con il lettore. Come accade, appunto, in questi versi.
un conforto
le tue parole, ma non curano il mio
strano male ansia e noia: mentre l’aria
castamente imbruna anche il tuo umore
cambia diventi inquieta poi ch’è prossima
l’ora di cena: io penso a ieri un ieri
lontano di cui portiamo il fardello
con incosciente leggerezza, giorni uguali
a se stessi stagioni e ore ad altre
ore e stagioni uguali noi a noi, e non so
se il miele stillante dal paziente
quieto scorrere del tempo del sangue
nelle vene indurentisi è maggior
felicità o minor duolo aspettando
la sera e il ritrovarci nella casa e nel
letto, perfetto rifugio della nostra
età.
Resta, in ogni caso, un poetare di alto livello e spero mi si concedano queste osservazioni che partono da un mio sentire.
Rita Simonitto
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