Per intensificare il confronto tra il
Laboratorio Moltinpoesia e gli amici romani che hanno cominciato ad
intervenire su questo blog, anticipo stralci consistenti di un saggio di
Giuseppe Pedota [Cfr. Nota alla fine]. Rielaborato da appunti sparsi, uscirà presto,
per i tipi delle edizioni CFR nella collana di critica curata da Giorgio
Linguaglossa. Fu scritto tra il 2005 e il 2010, anno della sua scomparsa.
E nelle intenzioni dell’autore doveva contribuire al rilancio della rivista di
letteratura «Poiesis», che a Roma tra il 1993 e il 2005 funzionò nella
cosiddetta condizione postmoderna come
«una zattera di naufraghi»(Andrej Silkjn). La successiva dissoluzione del
gruppo originario (G. Linguaglossa, D. Mafia, G. Stecher, G. Pedota, L. Stace,
C. Santese e A. Silkjn) ha impedito la prosecuzione di una riflessione in
comune sul tema che Pedota qui affronta: il passaggio dall’epoca dell’impegno, che
è durata fino agli anni Settanta del Novecento e teneva assieme cultura e
politica progressista (di sinistra), all’epoca del “disimpegno” o della
sfiducia nella necessità o possibilità di un cambiamento della società
capitalistica. (Per la precisione «Poiesis» parlava di «Epoca del Tramonto» in
un’accezione fortemente heideggeriana).
Il saggio è denso e, devo dire,
d’impegnativa lettura. Pedota parte da un v rapido richiamo al «letargo
politico dell’Italia e dell’Europa»; e adotta concetti e formule che io ho
incontrato negli scritti di Giorgio Linguaglossa (il «qualunquismo», il
«talqualismo», il «turismo poetico» della poesia delle giovani
generazioni) ma che credo siano stati attrezzi concettuali
dell’intero gruppo di «Poiesis», esperienza che confesso di aver conosciuto in ritardo,
perché provengo da un approccio che non ha mai rinunciato, neppure in
letteratura, alla problematica marxiana. Eppure in questo saggio ritrovo
un tipo di denuncia della cultura di massa non dissimile su molti punti da quella di un Fortini, che -
ricordo - proprio nei primi anni Novanta parlò di «surrealismo di massa» (e di
«snobismo di massa») o in Edoarda Masi, quando ad esempio sosteneva che « il
potere non ha più bisogno di intellettuali, si serve di altri, di mezze
calzette». [http://www.ospiteingrato.org/Interventi_Interviste/Masi.html]
L’allarme per il degrado culturale, nel
frattempo amplificatosi, è il punto di partenza del saggio di Pedota, che parla
di «conservatorismo di massa». Il saggio però abbandona presto la cornice
storico-politica, saldissima in Fortini e nella Masi e resistente in me
ancora oggi (ci sono, sì, degli accenni, ma troppo corsivi, al 1989 e al crollo
del muro di Berlino) e si cala nella critica circoscritta ed attenta
soprattutto ai riflessi negativi di questa crisi mondiale ed epocale nel campo
della poesia. Il negativo per lui sta soprattutto nel «minimalismo romano-milanese» (esemplificato in particolare dalla
poesia di Magrelli, Lamarque, Cucchi, etc.). Pedota vi vede un fenomeno di «deresponsabilizzazione» della poesia. Questi poeti, ignorando o
voltando le spalle alle «grandi direttrici della cultura novecentesca» (surrealismo francese, espressionismo
tedesco; imagismo anglosassone o russo), avviano una «deriva epigonica». Su
questa critica agli sviluppi “postmoderni” in poesia posso concordare. Sulla
mia sponda marxista il segnale lo colsi con La parola innamorata, un’antologia a cura di Pontiggia e De
Mauro che uscì nel 1978. Mentre nell’area politicizzata si parlava di “ritorno
al privato”, quell’antologia segnalava in poesia qualcosa di simile e,
comunque, direi con il mio linguaggio, il tracollo storico della prospettiva
comunista o socialista, dell’anticapitalismo.
Un altro punto di contatto lo trovo quando
Pedota accenna alla crisi della critica, alla questione del canone e al venir
meno della figura dell’«intellettuale di sinistra, quello nato dal clima
culturale post- bellico» (senza citare o confrontarsi, però, col dibattito che
Luperini e altri conducevano nel frattempo, a riprova forse dei tanti snobismi
reciproci che viziano i dibattiti letterari). La critica al minimalismo pone un serio problema a noi moltinpoesia. Pedota lo definisce come «un discorso
che si configura come "copia" dell’"originale" che giace
nel subliminale della cultura della massa mediatica». E insinua nella mente di chiunque
scrive poesie oggi, “dopo il Moderno”, un dubbio fastidioso: non è che siete degli
epigoni, copia di massa di un originale che non conoscete più? Ma, a questo
punto, egli introduce una tematica sulla quale non mi sento più di seguirlo con
convinzione, anche se posso rispettarne la tensione anticonformista. Egli cioè torce
il discorso in una direzione non più storica, ma metafisica: esisterebbe, cioè,
in poesia un «originale», che permetterebbe di sfuggire alla meccanica
ripetizione della «copia» da una «copia» in cui si dibatterebbe oggi la
poesia e il minimalismo in modo particolare. Con la sua terminologia Pedota pone
cioè la questione del «principiale,
senza il quale non si dà logos poetico». A suo parere, una «poesia che pensa i
propri fondamentali non può non scandagliare la via della interrogazione
radicale sulle cause ultime e più remote che governano la ragione stessa del
logos poetico».
Qui il suo discorso a me pare complicarsi e andare in zone da me inesplorate.
Pedota dà perciò un rilievo centrale al surrealismo europeo. Esso, egli dice,
«ha posto il problema della «rappresentazione poetica dell’oggetto» come una
delle infinite possibilità con cui si può raffigurare l’oggetto». E non si è
limitato ad esplorare «il rapporto che lega il nome alla cosa» ma ha intuito
che la «cosa» e impossibile da vedere, da pensare e da pronunciare. Fa i
nomi di Gellu Naum « uno dei maggiori rappresentanti europei
della cultura critica del movimento surrealista che del surrealismo ha saputo
trarre la lezione più istruttiva, e cioè il concetto di discorso poetico basato
sulla articolazione stratificata di linguaggi eteronomi, una vera e propria
«logica poetica degli illogismi», di Kikuo Takano, nato nell’isola giapponese di Sado nel
1927 «un poeta di tradizione orientale ma ancorato alla cultura occidentale, in
particolare, ai filosofi Heidegger e Jaspers», del turco Enis Batur, che accosta a Dante Maffia, perché in entrambi i poeti si ha una
«moltiplicazione dei punti di vista e dei personaggi, in una parola, la
disseminazione dell’io poetico» e, tra la «generazione femminile di mezzo» ( Laura Canciani, Helle Busacca, Maria
Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Chiara Moimas, Giorgia Stecher) da grande
rilievo a Giovanna Sicari, la cui la poesia gli appare fondata su parole che
sono fuori dalla produzione ed esemplificativa della caduta del
sacro. [E.A.]
DOPO IL MODERNO?
Quello che un critico come Giorgio Linguaglossa vede
attraverso la cortina di nebbia della «nuova ideologia del conformismo», è la
«nuova insensibilità» delle masse post-culturali nella situazione del Dopo il Moderno, fenomeno
cresciuto all’ombra del letargo politico dell’Italia e dell’Europa. La parola
«impegno» è ormai invecchiata e fuori corso, il «qualunquismo», il «talqualismo»
e il «turismo poetico» della poesia delle giovani generazioni è una spia
allarmante di questo conservatorismo di massa. Ormai nessuno delle nuove
generazioni si pone la domanda di comprendere il mondo con spiegazioni,
ipotesi, responsabilità; una pedestre mitologia della scrittura che la mia
generazione aveva debellato, riacquista vigore e credibilità: lo scrivere bene,
l’innocenza dello scrittore, addirittura la «irresponsabilità dello scrittore»,
l’aura (che ritorna!) delle parole poetiche di certa poesia femminile,
l’invasione delle storie d’amore catechizzate, drammatizzate e agghindate
secondo una smaccato (e ingenuo) montaggio di pezzi del cuore infranto. È
ritornata la retorica della bella e dannata interiorità e del buonismo, ottimi
sostituti della riflessione politico-estetica sulla situazione attuale di
quello che il critico romano chiama «discorso poetico».
«Questa spoliticizzazione dell’arte, - scriveva nel
1953 Roland Barthes ne Il
grado zero della scrittura -
della Letteratura, non può essere accidentale, particolare. È l’espressione di
una crisi generale che si potrebbe così definire: ideologicamente la borghesia
non ha più realtà immediata,
moltiplica gli schermi, i ricambi, le meditazioni: quasi non le si riconosce
più una fisionomia».[1]
Forse oggi (e basta dare uno sguardo al proliferare
dei blog letterari) siamo nel bel mezzo di una nuova forma di conformismo: un omologismo che non tollera l’esistenza di un
diverso assetto del pensiero. C’è una simil-critica di cortigiani e una critica
che non ha diritto di cittadinanza. È l’ideologia dell’omologismo che qui si annuncia.
Come Linguaglossa ha ben spiegato, oggi, anche nella
situazione di disarmo generale dell’intelligenza del Dopo il Moderno, non ci può
essere altra strada che quella di un nuovo impegno e di una nuova
responsabilità dello scrittore e del discorso
poetico. Mi stupisce che critici e autori delle nuove generazioni come
Salvatore Ritrovato e Stefano Dal Bianco rivalutino invece la
«irresponsabilità» della scrittura letteraria. Questi autori dicono che lo
scrittore non ha delle «risposte» da dare al suo pubblico, confondendo due
concetti molto diversi e distanti tra loro, anzi, a mio avviso oggi lo
scrittore è tanto più «responsabile» proprio in quanto non ha alcuna «risposta»
da offrire in garanzia al lettore. Io piuttosto direi che oggi, molto più di
ieri, il ruolo dello scrittore dipende dalla tragicità di un linguaggio impossibile. È
questo il problema.
Il critico romano rivendica, con sottile ironia
socratica, che oggi l’unica forma possibile di scrittura è davvero quella del talqualismo delle «scritture letterarie denaturate
alla Valerio Magrelli e alla Vivian Lamarque»; «al di fuori del minimalismo sembra non esserci nient’altro che il
minimalismo. Ma non è vero. Bisogna dirlo con forza ai giovani: non imitate i
modelli deresponsabilizzanti offerti dai falsi padri. La via da seguire è esattamente
l’opposta: la critica radicale ai falsi padri e ai falsi modelli che essi
rappresentano». Sono scritture che hanno avuto successo e hanno fatto scuola. E
chi osa mettersi contro il successo e i grandi marchi editoriali che li hanno
pubblicati? Ed ecco spiegato il successo di epigoni degli epigoni come la
poesia di Gianni D’Elia e di Franco Buffoni. È un epigonismo che si autogenera
e che non sembra avere fine. Qui, credo, siamo andati ben oltre l’«ideologia
del conformismo», siamo entrati, senza che ce ne siamo resi conto, nella nuova
situazione dell’omologismo e
dell’emulazione.
L’arte e la letteratura europea dagli anni Novanta
del Novecento in poi, segnano una lenta e inarrestabile crisi della grande
cultura novecentesca? Non so, può darsi. Il fatto indiscusso è che la poesia
dell’ultima decade del Novecento sembra avviata in una inarrestabile deriva epigonica delle grandi direttrici della cultura
novecentesca. Si profila una interminabile
cultura epigonica, la crisi di identità di una cultura. Nel frattempo, nel 1989
crolla il muro di Berlino, scompare il limen,
della divisione in due parti dell’Europa e dell’Italia (un fenomeno simile a
quello del crollo di una diga). Ciò che in qualche modo contribuiva, almeno in
Italia, a tenere in vita una visione
critica è venuto meno, in più
c’è stato l’esaurimento di un modello di sviluppo delle economie capitalistiche
del mondo occidentale e la fine della prima Repubblica. Scrive Linguaglossa:
Oggi, noi non possiamo comprendere
la crisi della cultura epigonica del minimalismo senza gettare lo sguardo al di là di
essa, a quegli sviluppi dell’arte contemporanea che sembrano prefigurare uno
sbocco, una via di uscita dall’arte dei minimalia.
Credo che la poesia degli ultimi due
decenni del Novecento debba esser catalogata in questo quadro problematico, in
quelle linee di forza che si dispiegano all’interno del minimalismo
producendone una implosione tematica e stilistica, e all’esterno di esso una
invasione di elementi allotrî quali le istanze narrative. Fa ingresso in poesia
in modo massiccio il linguaggio saggistico. Le istanze critico-saggistiche
prendono il posto lasciato vacante all’interno della forma-poesia. Il pensiero
poetante riceve così una sorta di «inquinamento» e di «impurità», con la
conseguenza che gli esiti poetici vengono contrassegnati da un mix di elementi
spuri e allogeni. La poesia contemporanea diventa così il luogo dove si
incontra una mixture di prosa e poesia, di poesia e
filosofia, di poesia e saggistica, poesia e reperti di esistenzialia. Il luogo
della poesia diventa una zona «contaminata» da linee di forze stilistiche
eterogenee e contraddittorie. L’esperienza vissuta si incontra con l’esperienza
virtuale e gli esiti stilistici si ramificano e si suddividono in una rete di
derive epigoniche, dove le esperienze biografiche allignano in una «zona
franca», in una zona di diretta contiguità con le esperienze «astratte» colte
come un flash sullo schermo bianco dei minimalia. Il linguaggio del quotidiano
viene ad esser contaminato da sintagmi «alti» a carattere elegiaco-iperbolico,
oppure da fraseologie appartenenti al piano del linguaggio cronachistico. Fanno
ingresso in modo massiccio in poesia i reperti della cronaca quotidiana.
Il risultato di questa situazione è
che nella misura in cui la poesia contemporanea si emancipa dalla lettura del
piano cronachistico del quotidiano, tende a ricadere sul piano «alto» del
sublime attraverso la mediazione di uno stile «contaminato» fondato sulla
paratassi o sulla ipotassi, sulla ridondanza semantica e lessicale e, molto
spesso, sulla assenza di punteggiatura. I dati ed i valori acquisiti dalla
Tradizione si presentano, nella poesia delle nuove generazioni, come remote
entità non più utilizzabili e non più condivisibili, come un demanio
abbandonato e sconosciuto (o disconosciuto) dal quale voltare pagina per un
nuovo inizio.
Non più ancorata alla solidità della
cultura tecnologica dell’experimentum, la poesia contemporanea delle
nuove generazioni è così costretta ad accogliere la solitudine stilistica quale
legato testamentario di una civiltà letteraria ormai tramontata e non più
attingibile. Ma, facciamo un momento un passo indietro, nel Novecento italiano
possiamo notare subito una vistosa lacuna: non abbiamo avuto un equivalente del
surrealismo francese, come non abbiamo avuto un equivalente dell’espressionismo
tedesco; assente risulta anche un equivalente dell’imagismo anglosassone o
russo. Il secondo Novecento poetico italiano risulta così stretto entro
la forbice di un duopolio: da una parte lo sperimentalismo «consapevole»,
dall’altra, un antisperimentalismo altrettanto «consapevole», dove il concetto
di linguaggio resta una questione meramente «tecnologica», dove il campo di
intervento delle «tecniche» viene a configurarsi quale questione centrale ed
ineliminabile dal dibattito critico sull’oggetto poesia (...) Il risultato è stato che nel
Novecento italiano si è replicato il “calco” per antonomasia della poesia
italiana, quello per intenderci dominato dall’antitesi tra “realisti” e
“idealisti” o, detto in altri e più comprensibili termini, tra i veristi e i
petrarchisti, intendendo sotto questa nomenclatura tutta la tradizione
dell’Opposizione a far luogo dalla neoavanguardia fino a giungere alle ultime
manifestazioni epigoniche delle post-avanguardie dell’ipermoderno. In ultima
analisi, è mancata quella tradizione della modernità che in uno scritto su
Fabrizio Dall’Aglio Mario Luzi identifica con quella linea che da Laforgue va a
Alfred Jarry. E questo risultato della Tradizione del doppio binario avveniva proprio per una insufficiente
meditazione in poesia su ciò che conseguiva dalla crisi che la modernità
portava con sé come epifenomeno dell’ipermoderno. Una ipercrisi seguiva alla crisi della forma-poesia che, di conseguenza, scadeva in elegia
e antielegia, nelle due declinazioni acritiche della forma-poesia, ovvero, in
scritture criticamente orientate verso la forma-narrativa, che aveva come
portato un ulteriore effetto di pseudoretorizzazione della scrittura poetica e
che conseguiva da un difetto di approfondimento critico delle ragioni che
avevano spinto la forma-poesia verso una compiuta afasia.
Era fin troppo prevedibile, con il
senno di poi, che certe scritture poetiche che non rientravano nei binari del
«duopolio» del canone egemone venissero emarginate, volens nolens, nelle linee
laterali e periferiche quali espressioni non compiute e non linguisticamente
legittimate o ritenute frutto di espedienti “volontaristici” ed episodici.
Così, le poetiche del minimalismo romano-milanese finivano per porre nell’ombra
tutto ciò che, direttamente o indirettamente, potesse nuocere alla imposizione
del «canone maggioritario» (secondo la terminologia di Linguaglossa). La verità
della dislocazione delle poetiche sullo scacchiere degli ultimi vent’anni della
poesia italiana contemporanea era piuttosto un’altra: era la poesia dei tagli
laterali e periferici a rivelarsi centrale ed ineliminabile per quel portato di
problematicità e di risoluzione stilistica che quella problematicità
richiedeva. E ciò che è più significativo di quegli anni che avrebbero visto il
rigoglio delle poetiche epigoniche, tarde e scolastiche riverniciature del dejà vu e del banalismo esacerbato» - così
Linguaglossa prosegue il filo della sua riflessione - «Ora, sta di fatto che
quella parte della cultura dell’Opposizione che aveva militato per la
leggerezza, l’incomunicabilità e l’aleatorietà del messaggio poetico, o
addirittura per l’assenza di qualsivoglia messaggio poetico, di contro a tutte
quelle altre posizioni che tentavano di veicolare una idea della poesia che non
fosse mera trasmissione del trash e del nulla, quella cultura
dell’Opposizione che è rimasta in tutti questi anni Opposizione, quella cultura
che ha fondato la propria specificità nella teatralizzazione di ogni argomento serio
e nella facetizzazione di ogni argomento tout court, quella cultura, dicevo, è
diventata feticizzazione della facezia, feticizzazione del fattuale,
fattualizzazione del “fatto”, delirio di una cultura che è rimasta
all’Opposizione in un tempo in cui il mondo è cambiato di sana pianta, anzi, si
è addirittura capovolto; quella cultura, dicevo, è oggi Opposizione virtuale,
conformismo integrale all’interno del villaggio globale di una cultura
massmediatizzata, è la cultura del cabaret, produzione culturale da
intrattenimento.[2]
La crisi
della poesia epigonica è
stabilmente connessa in Linguaglossa alla crisi
del pensiero militante della
poesia. Sono, come scrive Giusi Maria Reale, due facce della stessa medaglia.[3]
a proposito del paradigma maggioritario
Un noto economista ha scritto: «I falsi sono cloni
(imperfetti?) dell’originale perché lo riciclano continuamente durante il
processo produttivo… Il successo di libri e film come Il codice da Vinci illustra bene il bisogno di racconti
della storia dell’arte e della religione riciclati e accessibili a tutti. In
modo analogo, i romanzi bestseller di ambientazione storica soddisfano il
desiderio dei lettori di consumare in fretta storia e cultura, come prodotti usa
e getta che consentono l’evasione dalla prigione della realtà quotidiana. La
cultura diventa un prodotto commerciale e la tecnologia moderna ne offre una
versione romanzata, a buon mercato, nelle librerie degli aeroporti o nei
supermercati, sui siti web o sul grande schermo. L’autenticità di un prodotto
culturale unico e, quindi, non imitabile, tende a scomparire. E poi i prodotti
autentici sono unici, quindi scarseggiano. Esattamente al contrario, ogni falso
produce altri falsi, attraverso un eterno processo di riciclaggio».
Analogamente, il linguaggio poetico maggioritario
assume i caratteri del «falso» in quanto prodotto di «copia (imperfetta?)
dell’originale»; al limite, una nuova «copia» viene accettata solo se «imita»
l’originale, se si pone come una «copia» dell’originale. Se intendiamo
«originale» come quella formula che trova corrispondenza immediata con il
pubblico di massa (in tale accezione opere come Le mie poesie non cambieranno il
mondo (1974) di Patrizia
Cavalli e Ora serrata retinae (1980) di Valerio Magrelli
sono una esemplificazione impareggiabile di quanto andavo dicendo), qual
è il migliore «originale» oggi disponibile? È ovvio, sono i poeti del
«paradigma maggioritario», ovvero, del minimalismo i quali gradiscono la schiera infinita
di «copie imperfette», che assicurano il marchio di fabbrica dell’«originale»,
e ne sono la riprova sul piano della produzione della cultura di massa. Credo
che occorra cominciare a riflettere sul concetto di «copia di massa» di un
prodotto culturale. Vorrei essere più preciso: le composizioni di Vivian
Lamarque, di un Valerio Magrelli e di Patrizia Cavalli si presentano come
«copie (imperfette?)» di un originale perfetto che giace nelle propaggini
subliminali di una cultura massmediatizzata standardizzata: sono dei cloni
finti di una finta problematica che la loro poesia espone e teatralizza. Con
tutta sincerità, quanta poesia non è altro che una «variante» degli «originali»
presenti nel subliminale della cultura di massa? Occorre cominciare a
chiederci: quanta poesia contemporanea è attenta al problema dello «stile» o al
problema dell’«autenticità»?
Come scrive Vattimo: «Identificare la sfera dei media con l’estetico può certo suscitare
qualche obiezione; ma non risulta tanto difficile ammettere una tale identificazione
se si tiene conto che, oltre e più profondamente che distribuire informazione,
i media producono consenso, instaurazione
di un comune linguaggio nel sociale. Non sono mezzi per la massa, al servizio
della massa; sono i mezzi della massa, nel senso che la costituiscono come
tale, come sfera pubblica del consenso, dei gusti e del sentire comuni. Ora,
questa funzione, che si usa chiamare, accentuandola negativamente, di
organizzazione del consenso, è una funzione squisitamente estetica…».*
Il dispregio della poesia del paradigma egemone verso
ogni problema di «stile» viene a degradarsi in assunzione di una funzione
servile: lo stile da cattiva traduzione di un Franco Buffoni o la scrittura di
un «quotidiano» calendarizzato e reificato, da parte dei «quotidianisti»,
ridotto alla misura del cliché dell’intellettuale piccolo borghese in epoca di
stagnazione economica: una sorta di spartana economia dei mezzi stilistici e
degli strumenti lessicali con uno stile apparentemente democratico, uno stile da
esportazione stilistica comune alla piccola borghesia stilistica dell’Unione
Europea. Ma qui dovremmo porci il problema seguente: di quale cultura sia il
prodotto il minimalismo romano-milanese. È bene dirlo senza impacci: l’esigenza
della conservazione di quella cultura che ha rifiutato le «questioni
metafisiche» porta inevitabilmente alla mitizzazione
del quotidiano (per
Wittgenstein è mitologico proprio il linguaggio degli oggetti) e alla
instaurazione di una vera e propria ideologia
degli oggetti. Personalmente, sono
giunto alla drastica conclusione che lo stile è servente in quanto sottoposto
alla cogenza di una legislazione immanente: la cultura di massa che, per sua
essenza, richiede un paradigma dominante, che altro non è che il mondo delle
merci secondo il modello standard della riconoscibilità. Il «bello»
stile, è lo stile delle merci, suo paradigma è una merce culturale
cosmopolitica, eurotrasportabile ed esportabile, tanto più leggibile, in quanto
prodotto della barbarie della cultura che quel paradigma legittima e finanzia.
Chi oggi tra i poeti contemporanei ha una qualche percezione di questo nesso
problematico? Sia detto a chiare lettere: ciò che legittima il paradigma è il
paradigma stesso. Può sembrare una tautologia ed invece si tratta di un vicolo
cieco verso il progresso delle forme estetiche. Ma è anche vero che il
paradigma che punta alla «perfezione» (e penso al decorativismo post-penniano
della poesia di Elio Pecora o al quotidianismo psicanalitico di Vivian
Lamarque) precipita in un buco nero senza fondo, precipita nell’imbuto della decorazione.
Piuttosto che una costruzione il paradigma si rivela essere un vero e proprio
buco nero, combustione, non più catena di rimandi da segno a segno ma catena di
prigioni dorate che rimandano alla propria riconoscibilità. Ma qui il
problema si complica e non vorrei tediare oltre il lettore.
Che cos’è oggi il minimalismo?
Il minimalismo è dunque un discorso che si configura come «copia»
dell’«originale» che giace nel subliminale della cultura della massa mediatica.
Oggi occorre invece porre con forza la definizione del principiale, senza il quale non
si dà logos poetico. L’urgenza che muove oggi i poeti
europei più sensibili è individuare una ragione della lirica nel punto cruciale della crisi della cultura da cui quella lirica proviene. Il pensiero borghese
ha operato un distinguo pragmatico: alla filosofia il discorso assertorio e alla poesia il discorso suasorio. È stata la
trappola del neopositivismo nella quale una grandissima parte della poesia europea
è caduta per pigrizia intellettuale e per la mancanza di una filosofia
dell’arte che pensasse, in sua vece, le condizioni con le quali l’arte del
nostro tempo si è trovata a convivere.
La poesia del Dopo
il Moderno si è venuta così a
configurare come interrogazione di un «originale» che essa stessa,
implicitamente, porrebbe nell’atto del suo pronunciamento ma senza adeguata
coscienza delle conseguenze e della portata che l’atto dell’interrogazione
pone. La poesia del minimalismo non si chiede se esista un «originale», gli è
sufficiente garanzia l’esistenza di una «copia» della «copia». Molta poesia
contemporanea, per il suo essere acriticamente inconsapevole di un tale nesso
problematico, perirebbe nel minimalismo acritico, accontentandosi di
vivacchiare all’interno di una religione
degli oggetti, e del suo contraltare: la religione
del nuovo io, di un domandare retorico, vacuo, allusivo, consolatorio.
Se il minimalismo è parametrato sul modello
proposizionalistico di copia della copia e suppone già data la conclusione del
modello «giustificatorio» del discorso poetico, la poesia che pensa i propri
fondamentali non può non scandagliare la via della interrogazione radicale
sulle cause ultime e più remote che governano la ragione stessa del logos poetico.
Il minimalismo è un discorso giustificatorio: si occupa di giustificare come vere un insieme di
proposizioni che si reggono sulla semplice giustificabilità che lega le
proposizioni le une alle altre, dove ciascuna è principio di un’altra, in una
catena virtuale-infinita; si occupa di canonizzare, quale canone invariabile,
un impiego «commerciale» dell’«attualità»
il problema di quale «rappresentazione
poetica»
Il surrealismo europeo ha posto il problema della
«rappresentazione poetica dell’oggetto» come una delle infinite possibilità con
cui si può raffigurare l’oggetto. Non è soltanto il «taglio» della composizione
ad essere considerato centrale: non soltanto la linguisticità del «taglio» e il
rapporto che lega il nome alla cosa, è piuttosto la «cosa» che viene vista e
pensata alla luce delle conseguenze della cultura del surrealismo vissuta fino
al fondo della sua impossibilità e impronunciabilità. Prendiamo ad esempio un
poeta della «post-avanguardia» romena come Gellu Naum:
dovrei dire qualcosa delle parole ma
già sapete che non è possibile
perché divento sublime come una
sorta d’angelo
ed io ogni volta che mi sento così
mi metto a lavare i piatti o spazzare il cortile
allo scopo di riassettare il nulla
di uno sfiduciato equilibrio 1
Non è irrilevante che Gellu Naum sia uno dei maggiori
rappresentanti europei della cultura critica del movimento surrealista che del
surrealismo ha saputo trarre la lezione più istruttiva, e cioè il concetto di
discorso poetico basato sulla articolazione stratificata di linguaggi
eteronomi, una vera e propria «logica poetica degli illogismi», come lo
definisce il critico Geo Vasile. È bene dire subito che in Gellu Naum
l’illogismo è cosa ben diversa dalla intelaiatura del dubbio su cui è basata la
filosofia della composizione come via indiretta all’oggetto, esso indica
piuttosto un enunciato in rapporto di antinomia o di alterità nei riguardi di
un altro enunciato, una struttura di enunciati legata da un sistema di
lacerazione permanente dei medesimi, dove il poeta affronta ogni enunciato in
maniera diretta, con una presa brutale e sfrontata, come si prende un toro per
le corna, senza la pretesa di individuare una soluzione conciliata e
conciliativa, pacificata o che, ma con la certezza che tutti gli enunciati poetici
seguiranno il gran mare dell’Essere linguistico come in un mosaico di onde
destinate a frangersi e a rifrangersi in un reciproco gioco di specchi non più
semantici ma ontologici Nel poeta romeno il metodo surrealistico della
composizione è temprato dalla consapevolezza del peso e della consistenza
«materica» del suo discorso poetico, magmaticamente denso di strati metaforici
che, come un tessuto sabbioso, facilita e favorisce un continuo smottamento e
interramento di tutti i materiali ferrosi e porosi in una profondità tettonica,
linguisticamente densa di strati tettonici.
Credo sia utile riferirsi ad un poeta di tradizione
orientale ma ancorato alla cultura occidentale, in particolare, ai filosofi
Heidegger e Jaspers, come Kikuo Takano, nato nell’isola giapponese di Sado nel
1927, di cui ricordiamo i libri in traduzione italiana: L’anima dell’acqua del 1996, Secchio senza fondo del 1999, Nel cielo alto del 2003 e L’infiammata assenza del 2006. Non è privo di significato
che la filosofia della composizione poetica di Kikuo Takano, nutrito alla
severissima scuola degli haiku e dei tanka, sia quella della
rappresentazione come via
diretta all’oggetto; bastino la lettura di alcune sue poesie tratte
dall’ultimo libro per comprendere come l’oggetto venga trattato mediante una introductio recta, quasi sempre
al presente, mediante una delimitazione «a cornice», dove l’occhio del lettore
è al tempo stesso l’occhio dello spettatore di una sacra rappresentazione, dove
un evento accade nel presente assoluto del tempo presente della lettura.
Leggiamo da L’infiammata
assenza:
Guarda: questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo
coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo
coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. E così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.
Dove gli incipit delle composizioni sono retti da un
invito, palese o latente, per lo più declinato al presente indicativo, al
lettore, a prendere parte all’evento, alla agnizione. Ogni poesia è un evento che riguarda il lettore, che
richiede il suo intervento. Il lettore è tirato in gioco, viene strattonato per
la giacca fin dentro la composizione. In un certo senso, la composizione
contiene già il lettore, tutti i lettori. In Takano la poesia diventa la casa
che custodisce il senso, ordine tettonico e architetturale di una esperienza
singolarissima. È questa la verità. In quest’altra poesia intitolata «Il
cigno», il poeta si rivolge al lettore con un «tu» fraterno e amicale. Da Nel cielo alto:
Osserva bene il cigno,
valuta tutto grazie al cigno»,
un tempo era questo
il mio severo proposito.
Ma quanto è dura la vita del cigno:
con le sue ali bianche
egli rifiuta la luce
e dentro alimenta la tenebra.
Dove il primo enunciato, di tipo asseverativo, ha un
valore pragmatico-mimetico, intende aderire al reale in modo quanto più
profondo e attento. La poesia che ne consegue è nient’altro che uno svolgimento
dell’atto di osservazione del cigno al quale il lettore, tutti i lettori, sono
chiamati a rispondere. Al lettore è richiesta la risposta. Il poeta si limita a
porre la domanda, e qui il suo compito è già finito. È noto che la poesia di
Takano non riposa su una particolare concezione del linguaggio o su una protesi
di poesia costruita sul metalinguaggio, il suo metodo costruttivo è basato
piuttosto su una idea attorno alla quale viene edificata una ipotesi
esistenziale: il dettato è oggettivo e sempre misuratissimo, attento alle
sfumature del pensiero parlato del quotidiano. Un pensiero di tutti. È lo
svolgimento l’aspetto centrale di questa poesia. L’idea del «cigno» o quella
dello «specchio», non costituiscono in realtà nulla di nuovo, quello che è
nuovo è lo svolgimento, a partire da una domanda fondamentale, che il poeta dà
alle sue composizioni, un portato di una realtà esistenziale-personale, un
portato che una individualità ricca e
significativa trasmette al lettore. La poesia transitiva, diventa qui il
latore di una istanza, il veicolo che consente la trasmissione di una
esperienza che non è solo linguistica tra l’autore e il lettore, una esperienza
che ha un valore non quantizzabile, che non può essere assimilata dalla cultura
della giustificazione della civiltà del turismo mediatico. L’io che si trova
davanti all’io (il vuoto che viene messo di fronte ad un altro vuoto):
Se vengono messi di fronte,
due specchi, riflettendosi a
vicenda,
rivelano un vuoto profondo,
rivelano
un vuoto infinito.
Non è casuale che un poeta contemporaneo come il
turco Enis Batur si sia proposto di «passare da una concezione di poesia ad
alta dose di astrazione a una concezione di poesia ad alta dose di discorso (…)
Magari potesse essere limitata dall’io che
scrive la poesia… Le persone/na che costituiscono il tema della poesia, con i
loro io, mi portavano davanti a un’altra curva, e in più non ero sempre io-io il soggetto della poesia, ma in
qualsiasi punto focale – in qualche esempio anche in un punto d’oltranza mi mettessi, in fin dei conti ero
sempre io che scrivevo la poesia…
Dall’inizio alla fine, e poi con tutti i suoi congegni d’ordine diversi Divan grigio costituisce anche una struttura
romanzesca, lo si può dire?».
Se confrontiamo una poesia di Enis Batur con una,
mettiamo, di un poeta italiano come Dante Maffìa, che è passato da una
concezione ad alta dose di astrazione del primo libro Il leone non mangia l’erba del 1974
a La biblioteca d’Alessandria
(Roma, Lepisma 2003), libro ad alta concentrazione di concretezza, notiamo che
le differenze tematiche e stilistiche sono assai esigue: in entrambi i poeti è
visibile il fenomeno della moltiplicazione dei punti di vista e dei personaggi,
in una parola, la disseminazione
dell’io poetico. In Maffìa la
spersonalizzazione dell’io poetico ha ormai attinto piena consapevolezza, è
diventata adulta. Nel libro pubblicato nel 2000 Lo specchio della mente, Maffìa
moltiplica i punti di vista in quanto moltiplica i personaggi fabulatori: i
trentaquattro personaggi che sfilano davanti agli occhi del lettore e parlano
della loro storia, parlano della loro follia, sono personaggi veramente
incontrati dal poeta durante delle visite in alcuni Ospedali psichiatrici. I
personaggi prendono a vivere nell’io del poeta allorquando pronunciano la
parola e proclamano la loro verità. Leggiamo una poesia del
poeta turco:
Se mi girassi e guardassi dietro,
chissà a quante centinaia di braccia nel fondo sarebbero ad aspettare i relitti
che ho abbandonato; la cassa piena di monete d’oro, gli accordi da sigilli di
ceralacca calda firmati tra imperi marini, un anello rubino e un candeliere
d’argento di cattedrale, il vetro fragile soffiato a Levante e il bronzo battuto
a Ponente – ho lasciato sul fondale in alto mare una per una le navi su cui ero
salito, ho rincorso la mia vita, sono scappato appena l’ho afferrata: codardo e
segreto, sono un pirata senza orecchino, l’unica cosa che guadagno di notte in
notte è il tesoro demoniaco in cui sono sepolto. 2
Ed
ora una poesia del poeta italiano. È «Teresa» che parla, la sua parola è
diretta e brutale, agganciata alla zattera significazionista della parola:
Me lo ricordano spesso /che devo
andarmene, come se io volessi /per forza restare appesa o inchiodata /a questo
letto dove non arrivano /i voli delle rondini dove l’eco /dei vulcani è nel
fondo delle mie orecchie. /Me ne andrò, ma tanto, lo sai, /un po’ di me è
entrato /nella terra attraverso i tubi /del cesso e attraverso le nuvole /alle
quali ho prestato /i miei capezzoli per abbeverarsi /prima di sciogliersi in
pioggia. /Non possono più cancellarmi /fare a meno di me, qualcosa /è entrato
nel circuito eternamente, /sono furba, io. (da Lo specchio della mente).
1 Gellu Naum La quinta assenza Treviso, Editing, 2006
2 E. Batur Scritti
e Sigilli – Antologia – Roma,
Fondazione Piazzolla, 1992
la vocabologia disperata di Giovanna Sicari
Giovanna Sicari (Taranto, 1954 –
Roma, 2003) può essere considerata uno degli autori più significativi
della poesia degli anni Ottanta-Novanta.
Il discorso poetico della
Sicari o, più precisamente, la configurazione figurativa della sua poesia,
nasce da una testimonianza sulla caduta del «sacro» nell’ambito della civiltà
post-industriale. Di qui l’oscuramento del «sacro» che nella sua poesia si
risolve in nostalgia del «sacro». La poesia della Sicari nasce dalla dolorosa
consapevolezza che nelle società moderne è la Tecnica, come un insieme di
procedure sistematizzate, ad aver occupato il posto lasciato vacante dal
«sacro»; da cui l’impotenza della «parola» a farsi carico di questa perdita
La poesia di Giovanna Sicari si
inscrive entro il contesto culturale degli anni Ottanta e Novanta. Sono gli
anni del processo di destrutturazione della linea tecnologica del
post-sperimentalismo e di destrutturazione della poesia neo-orfica. Se il primo
conferisce alla Tecnica e allo strumento un ruolo
assolutamente fondamentale ai fini della produzione del linguaggio poetico che
abbia i connotati del moderno; la seconda vede nel denotato della tradizione
simbolistica l’unica via di salvezza per la poesia moderna. Nelle
configurazioni figurative della poetessa romana sia la tradizione che il
moderno convivono e collidono ad un tempo. Emerge ed è visibile nell’opera
della Sicari la consapevolezza della fine della concezione bipolaristica della
poesia del tardo Novecento, che è stata un’ideologia, un luogo comune del
pensiero critico.
Ma da dove viene il fascino della
suggestione che la lettura della sua opera produce? Ed anche il profondo senso
di sconcerto e di meraviglia dinanzi all’impiego del vocabolario del linguaggio
post-tecnologico del Moderno entro la sintassi dell’iconologia dell’antico? Per
usare un’altra terminologia: le forme simboliche della tradizione sono qui
rivestite con i panni del linguaggio post-tecnologico del Moderno?
Con la poesia di Giovanna Sicari
siamo davanti al risultato di quel complesso fenomenico che ha portato alla
destrutturazione del linguaggio poetico del tardo Novecento. Nella sua poesia
albeggia un’inquietudine per la vocabologia del vocabolario del nuovo
linguaggio post-tecnologico, il sospetto che la poesia sia un linguaggio
ideologico-totemico, e che quindi anch’essa sia una ideologia che, in quanto
tale, vada de-costruita e de-strutturata per poi poterla utilizzare entro una
contestura post-carnevalizzata: forma prototipica dei sistemi culturali ad alta
trasmissione tecnologica della attuale fase di civiltà mediatica.
Le «poesie-totem», ovvero, le «poesie-rebus», o
meglio, le «poesie-mosaico» della Sicari, sono luoghi dove la dissonanza e la
cacofonia del mondo convergono e si intorbidano, archetipi del sacro deturpato
e del profano de-strutturato. Il luogo post-tecnologico di queste composizioni
da Decisioni (1986), Sigillo (1989), fino a Uno stadio del respiro (1995), è il luogo della
contaminazione («zona franca» la definisce la
Sicari) dei post-tecnofatti linguistici. L’opera uscita postuma Ponte d’ingresso (2003), segnerà un momento di
ripiegamento ad una poesia più attenta alla koiné della tradizione.
C’è nella poesia della prima Sicari come un ricordo
rimosso, una anamnesi obliata di totem ancestrali. È caduta, l’aura magica del
totem primitivo, l’aura magica della matrice simbolistica, è caduta in disuso
la procedura dissacratoria delle post-avanguardie ma è rimasta la ilarità
sacrale degli scarti linguistici: una vocabologia disperata, divelta dalle
fondamenta del denotatum.
La poesia della Sicari promana da sé un paesaggio
lessicale crivellato e bombardato. È una testimonianza allarmata dell’antico
vaticinio apotropaico di cui si dispossessa il nuovo totem liturgico. È ovvio
che qui parliamo di liturgia laica e addirittura disperata per quella assenza
del divino di cui questa poesia esibisce la propria carta di identità.
Ciò che è visibile all’esterno, ovvero, alla prima lettura, è proprio ciò che
si nasconde e che deve restare rimosso, sepolto. Le «parole» di questa poesia
sono le tessere semantiche, i vocaboli-denotatum,
gli strumenti di un mondo post-tecnologico che ha già superato lo stadio
della produzione industriale. Voglio dire che, per contraltare, la Sicari capisce per tempo che i tempi sono
cambiati. La poesia della Sicari si offre come una manifattura; malinconia che
si nutre della discarica dei reperti segnici ormai non più utilizzabili dalla
nuova produzione tecnologico-semiotica. Così, la malinconia dei pezzi di
produzione usciti fuori produzione, irradia straniamento nella misura della sua
organizzazione formale e strutturale.
Il totem post-tecnologico del discorso poetico di
Giovanna Sicari si nutre dello stesso procedimento «fagocitatorio» che regna
nel libero mercato della produzione post-tecnologica: costentualizza nel nuovo
sistema segnico gli elementi de-contestualizzati dal progresso tecnologico.
Come lo strumento rivela l’essenza della Tecnica soltanto quando s’inceppa e si guasta,
come lo strumento è trasparente finché lo si utilizza entro il circuito della
produzione di merci, così anche le parole diventano pienamente visibili
soltanto quando muoiono, si guastano, diventa infungibili alle esigenze della
produzione per il mercato. Analogamente, la «parola poetica» della Sicari
attrae, come una calamita, le tessere semantiche che sono state deiettate dalla
produzione.
Come veri e propri zombi, soltanto dopo morte le
«parole poetiche» della Sicari possono acquistare nuova vita. Così, le
configurazioni lessicali della Sicari appaiono abnormi e incongrue perché si
“cibano” di tali morti per restituirli alla piena visibilità di una nuova vita,
di una nuova dimensione: la dimensione estetica.
Non è privo di significato che, in generale, tutta la
poesia veramente significativa del post-moderno di Maria Marchesi, Maria
Rosaria Madonna, Laura Canciani e Giovanna Sicari, sia «cannibalica» fin nelle
sue intime fibre, nella misura in cui essa si nutre di «morti» per restituirli
alla piena visibilità della loro «nuova» vita.
La poesia algida ed ilare, sacrale e
post-sacralizzata del post-moderno, rivela la propria vera natura di discorso
testimoniale dell’impotenza del «soggetto» di cui è spia certo impiego
dell’iperrealismo disseminato in tutta la produzione della prima Sicari. C’è
iperrealismo perché c’è un eccesso di reale.
La poesia della Sicari rivela la melancholia della società
della produzione computerizzata del reale.
Così, l’iperreale segue ad un altro iperreale…
rendendo l’arte sempre più virtuale e surreale e metareale…
Nota
Giuseppe
Pedota:
Giuseppe Pedota è morto il 15 maggio
2010. Era nato nel 1934 a Genzano di Lucania. Esordisce come pittore e
scultore, produce opere di architettura, conosce e frequenta poeti e scrittori
come Borges e Dino Buzzati, viaggia tra Milano, Cremona e Roma. È un artista
inquieto e insofferente del clima di conformismo artistico e politico che vige
in Italia negli anni Sessanta e Settanta. La sua pittura ama il gesto
stereometrico e i cromatismi ad estesa campitura. Nel campo della poesia, nel
1995 entra a far parte della redazione della rivista romana di letteratura
«Poiesis» e assieme agli altri suoi redattori redige e firma sul n. 7 della
rivista nel 1995 il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica». Nel 1996
pubblica Equazione d'infinito (Roma, Scettro del Re); nel
1999 pubblica il poema I vincoli dello spazio (Roma, Scettro
del Re). Sul numero 22 di «Poiesis» appaiono gli inediti di Lucania
lucis e, nel 2005, il numero speciale (n. 32) di «Poiesis» raccoglie
i suoi scritti poetici con una scelta di saggi critici sulla sua poesia. Nel
2007 pubblica il saggio La nuova poesia ontologica
(Faloppio, LietoColle) - una riflessione sulla poesia di Giorgio Linguaglossa.
[2] Giorgio Linguaglossa Appunti
critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove
proposte. Roma, Scettro del Re, 2002
[3] G.M. Reale www.lietocolle.com in poesia
e critica del 4 .10.2010
Il lungo dibattito
su La nuova poesia modernista
italiana di Giorgio
Linguaglossa, stimolante anche nei suoi filoni polemici accessori (risposta
di…a…), al di là della condivisione o meno del discrimen di inclusione/esclusione di determinati
autori, mette in primo piano un punto nodale: la validità di un impianto
culturale istituzionalizzato che prolifera a
latere di piccoli e grandi
gruppi editoriali. E non solo, tocca nervi scoperti quali l’essenza e il
significato della poesia, il ruolo che riveste nella società odierna e, infine,
sfocia nella vexata quaestio della funzione del critico letterario
e quella ad esso collegata del canone, che finora è servito ad identificare una
civiltà, con un atto di prescrizione e normazione (nel doppio significato di
norma e uniformazione, ovvero standardizzazione) dei prodotti culturali
ritenuti fondamentali e caratterizzanti, cogenti, per così dire.
Nel mutamento di una
società sempre più multiculturale e multirazziale che mette in crisi il
concetto di un’identità a senso unico, legata all’identità nazionale,
forse ha poco senso parlare di canone in senso tradizionale, quello che connota
le varie letterature nazionali, appunto, sulla base di presupposti
politico-culturali e principi etici ed estetici un tempo forse autorevoli, oggi
meno.
Resta comunque il fatto
di dover scegliere
distinguendo, cernere proprio nel senso latino che ha
originato il termine critica, nel proliferare di opere e autori, quelle e
quelli che varrebbe la pena di annettere a un’ipotetica traditio symbolica o anche, più semplicemente,
comprare in edicola e leggere, magari «per diletto», come da dantesca memoria. Vero è che non si tratta di
problemi nuovi, essi, non possiamo ignorarlo, si ripresentano immutati ogni
volta che cambiano le direttrici culturali, sociali, politiche e
scientifico-tecnologiche di un’epoca. Non diversamente da quanto sta accadendo
a noi. Voglio dire che la domanda intorno ai testi fondanti una cultura e la
questione di chi debba essere preposto a decidere sul loro essere fondanti (
aspetti che rimandano a problemi estetici più generali, quali: cos’è la poesia?
qual è la funzione del critico letterario? e ad ulteriori e spesso manichee
disquisizioni sugli ismi vari) si ripropongono immutate a scadenze temporali
più o meno lunghe. Né l’esercito di poeti o aspiranti tali di oggi appare
spropositato rispetto agli eserciti di poeti o aspiranti tali che ci hanno
preceduti, basti pensare al prologo dell'Aìtia di Callimaco contro i Telchini o all’epistola
1 del libro II dell’ Epistularum
Liber di Orazio, vv.115-117: «quod medicorum est promittunt
medici; tractant fabrilia fabri: scribimus indocti doctique poemata passim»;
passo ripreso tra virgolette anche da San Gerolamo nelle sue Epistulae, 53,
6-7, con la seguente osservazione: c’è un solo mestiere, quello dello
scrittore, che tutti rivendicano allegramente a sé: «scriviamo, sapienti e
ignoranti, poesie, senza distinzione».
Non tutto è –
giustamente e per fortuna – sopravvissuto; non tutto quello che è sopravvissuto
meritava di sopravvivere dall’antichità ai nostri giorni; non tutto quello che
della nostra epoca – giustamente? per fortuna? – sopravviverà avrà meritato di
farlo. Quanta parte ha avuto nella trasmissione degli autori canonici latini il
giudizio di Quintiliano? Quanta quello di Pietro Bembo, e Dante e Petrarca
prima di lui, nella nostra letteratura? Quanta Cesari, gli “Amici Pedanti” e
Carducci? Quanta Croce, e in tempi più recenti la critica militante? In taluni
casi troppa. Di certo un anti-canone, Contini docet, si è comunque
imposto: Cecco Angiolieri/Becchina vs Dante Alighieri/Beatrice o Luciano
Folgore/La pioggia sul cappello vs Gabriele D’Annunzio /La pioggia nel pineto,
per fare un paio di esempi spiccioli. Oggi si ravvisa la necessità non di anti-canoni
(che confermano l’egemonia del canone violandone la norma) ma di canoni
alternativi ordinati tra loro secondo un tassonomia in cui il valore letterario
sia solo uno dei valori possibili. Questo perché sono cambiati i valori con cui
si filtra la cultura e, per simbiosi, con cui la cultura filtra i valori. I
canali attraverso cui la cultura si diffonde invece si sono moltiplicati e,
come l’economia, globalizzati (siti internet, blog, social network, e-mail, ma
anche micro, piccola e media editoria), senza intaccare l’autorità
dell’impianto accademico- giornalistico-editoriale egemone.
Il letterato blasonato
di un tempo, come l’intellettuale di stampo illuminista dell’età moderna, come
anche il maître à penser frequentatore della rive gauche, il post-strutturalista
barthiano il genealogista foucaultiano, il decostruzionista derridiano, il
pensatore rizomatico deleuziano, il postmoderno lyotardiano e, per rientrare
nelle nostre contrade, l’intellettuale di sinistra, quello nato dal clima
culturale post- bellico, dico, non esiste (esistono) più. Gli eredi (epigoni,
emuli, cloni?) in filigrana riflettono i variegati colori del variegato
panorama culturale contemporaneo. E non necessariamente è una notazione
negativa, quanto una presa d’atto disincantata ( a questo proposito, mi viene
da pensare a quanti sviluppi potrebbe avere la distinzione da Dottor Sottile
tra disincanto e cinismo…).
Fluttuiamo tra doxa ed
episteme in fatto di critica letteraria; rolliamo tra spinte globalizzanti e
localismi di ritorno in tema di correnti, linee e fronti poetico-
culturali; ci giostriamo con la leggerezza di saltimbanchi tra scarto e norma;
ondeggiamo tra un dogmatismo che ci porta ad affermare il valore assoluto della
poesia e un nichilismo che tende a relativizzarlo del tutto.
Dunque? La poesia è morta, uccisa da una schiera di
critici ibridati, mescidati e camaleontici? Né l’uno né l’altro, credo. Fare
poesia, diffonderla, tramandarla è un’esigenza ineludibile. Non è un eidos esistente in sé
come ideale perfetto ed eterno: la poesia è il poeta, è il lettore, è l’età che
la esprime. A volte sfolgora, altre si incunea, serpeggia, infiacchisce. A
volte fonda le acropoli, altre abita le torri d’avorio come pure le rovine,
altre ancore le latrine di corti dorate. Non ogni età ha un grande poeta, di
certo ha il più grande poeta che riesce a esprimere. Ogni età ha i poeti e i
critici che merita. Ceteri omnes longe sequentur. Anche la nostra ha i propri, ma per saperlo ci vorrà
lo sguardo a posteriori, lo sguardo sulla longue durée.
11 commenti:
Non dovrebbe scandalizzare il pensiero che la poesia possa essere merce di consumo, ancor più se scritta al presente indicativo come nell'esempio qui riportato del poeta Takano che proviene dalla tradizione tutta orientale degli aiku. Ciò che la rende immune dall'essere "consumata" è il valore simbolico dei gesti fattivi, nel loro accadere definitivo che non può essere in alcun modo ripetuto da altri, ne' può portare a successivi sviluppi. Viene scongiurato il rischio che si possa fare copia della copia ma, semmai, dovrebbe essere giusto tornare a parlare di scrittura di maniera, o di genere. Così facendo, distinguendo la copia e la copia della copia dalla scrittura di genere, o di maniera, potremmo incasellare senza tanti drammi ciò che sembra appartenere ad una degenerazione di oggi, ma che in definitiva mi pare ci sia sempre stata nelle epoche. O no?
mayoor
"Gli altri"
sono stanca del mondo --
guardo i programmi alla tv
del cosmo e apprendo
che un pianeta, dacché scoperto
nella più famigerata stella,
avrà vita - dicono -
impossibile
piccole maledette sfere
senza speranza
di contatto
nell'infocata speme
sono scontenta del mondo:
per sopravvivere bisogna
assumere distanza
da sé --- da tutto
(erminia passannanti, 15 gennaio 2012)
Questa è una mia risposta (non intesa) emotiva al tema di questo post: non l'ho scritta in risposta a questo post, ma in modo concomitante, forse come reazione inconsapevole all'evento di questo secondo Titanic. Un evento che davvero prova la nullità del tutto: del progresso, del benessere, in primis, e poi tutto il resto dietro, scontato. erminia passannanti
L'essere umano ha la parola e l'espressione fisica, politica ovvero, per reagire ai tempi. Come si fa a contestare il modo in cui i poeti operano nel loro tempo, essendone essi in qualche modo, non superficiale, non gli artefici, ma il riflesso. Mi pare che qui si attribuisca troppa importanza al poeta: non erano stati espulsi dalla Civitas, perchè già compresi come parassitari, schierati, schiavi?
Che ci aspettate ....dai poeti!?
Non so,....
(erminia)
L'evento a cui fai riferimento è a mio avviso ,solo opinione personale , di spaesamento per vari fattori , non solo quello "techne" a cui sembra far riferimento il tuo osservare..techne per cui la societa contemporanea avrebbe smarrito la strada di psiche ,sradicandosi per sempre da una sia via analogica affidando il suo senso ad altri strumenti .
Lo spaesamento di questa vicenda sarebbe gia pesante se si osservasse dal punto di vista di chi ha creduto di essere piu dio di dio, ergo superio..controllore pseudo scientifico di ogni evento delle vita da sottomettere appunto a chissa quale grandezza umana o divina.
Ma è ancor piu pesante se si osservano alcuni meccanismi di cui alcuni piu visibili altri di "altri alfabeti" satanici massonici affaristici sovranazionali
fra i primi piu visibili ,la solita presa "mediatica" che fa male sempre a chi vuole essere critico su come le pecore sono peggio dei lupi e vengo regolamrnete condizionate bombardandole meditaicamente. In questo caso facendo carne da macello un solo uomo, la solita scheggia impazzita che , udiamo udiamo, manderebbe in tilt proprio quel dio uomo che ha mandato affanculo qualsiasi "altro" da sè , controllando tutto con la famosa strumentazione di ogni benessere e crociera di vita.Per la logica del capro espiatorio che fa sempre presa su popolazione latine come la nostra, basta un capitano da dare in pasto alla folla, che tutto il resta del sipario e dietro lo stesso, puo scomparire magicamente. Nessuno dei mitici media (di sta minkia ) a guidare le pecorelle su altre domande e ragionamenti, comprese quelle palesi delle conseguenze sul piano "globale " di un ulteriore affondamento del sistema paese italia...però poi gli stessi fanno le scenette di appoggio a questa o quella fincantieri, oppure sul funerale al nostro sistema turismo.
in realtà per come la penso , la vicenda tutta , razionale e irrazionale, riconduce a rituali massonici che sempre dovrebbero spaesare anche se purtroppo non è così, perche tutti via via sono diventati come l'antropologia richiesta da societa occulte, mafiose o strictu sensu massoniche, anche senza parteciparvi attivamente.
La vicenda è cosi densa di alfabeti simbolici, ricorrenze, coincidenze et cetera et cetera che la collisione in sè richiama affondamento " altro" ..minaccia ben presente nel continuo atto di violenza, collisione e collusione col mare nostrum e la nostra "repubblica marinara" , in realtà colonia (penale) continuamente minacciata appunto, nei momenti di criticita maggiore , ciclica, di filare dritto come da dettami dell'impero.
ps
piacere di averti riletto :-)
A Erminia e a Ro
Vuote saranno le mie parole
nel comodo incedere degli anni
che dentro il mio stare s'addormentano
ma i giorni scorrono ruote senza carro
io sono l'internet dei migliori tempi
voi siete la mia sacra parola che
mi sveglia e mi sorveglia , fai o critico
di me una nuova terra non poesia per me
ma grande annuncio di nuovi affanni
ed il mondo intero si piegherà a te
di me non saprà che farne e solo al mio
vivere resterà la prima gioia se non unica
vera.
Emilia Banfi
:) ciao ritarò! piacere mio.
Interessante testo da studiare: me lo studierò. Grazie Emilia. (erminia)
Uellà ERM! ...ma allora è nostro! .-)
..io ormai non faccio testo. Potresti scrivere anche solo "ABC", qualsiasi AZeta che a cascata sulla tua il mio sciacquettio di gioia . Sei il mio nobel che ho toccato dal vivo. Non posso studiare come Erm perchè sei la mia "Emyfania" ..VERA!
ho fatto parte della redazione di "Poiesis" nei primi anni Novanta, quando erano attivi Giuseppe Pedota, la filosofa Cinzia Santese, Lisa Stace, Giorgia Stecher,lo scrittore russo Andrej Silkjn... era forse l'ultima roccaforte di retroguardia di un mondo che si avviava alla stagnazione forzosa, si viveva alla fine di un secolo e se ne aveva acuta consapevolezza... quel gruppo che fu definito "zattera di naufraghi", davvero una sentenza, finì spappolato e disperso, chi morto, chi folle, chi ritiratosi a vita privata... ed ora che quel gruppo meraviglioso si è disperso ed è stato sconfitto, mi fa piacere sapere che gli scritti teorici di Giuseppe Pedota vedano la luce e che ci parlino con incorrotta tensione spirituale e concettuale.
Ma davvero, penso che non ci fu sconfitta più proficua di quella. Come accade alle vere "avanguardie" fu una sconfitta annunciata di cui gli stessi redattori ne erano ben consapevoli.
Certo, oggi i tempi non mi sembrano più consoni ad alcuna forma di approfondimento, dobbiamo prenderne atto. Questi scritti però rappresentano una testimonianza di incredibile forza di un contro intellettuale, un vero testimone del suo tempo, un esule in patria come Giuseppe Pedota.
Laura Canciani
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