1. L’affermazione nella Nota dell’autore
(Bertoldo) in Pergamena dei ribelli: “la poesia non proviene dal nostro gusto ma,
piuttosto, dal disgusto” può ben
introdurre alla raccolta di Lucini.
Il ‘disgusto’ è,
infatti, non solo il titolo di queste poesie, ma anche il sentimento che vi domina. Rispetto a Bertoldo,
però, quello di Lucini è un disgusto
espresso da un “io minore”. Il suo
sguardo è dal basso ed ansioso. Non è
l’io eroico (romantico) di Bertoldo. Egli muove da una “morale di servi” di matrice
cristiana, non quella di signori. Ne parlò con grande realismo storico e
antropologico Fortini in un passo di Insistenze che riporto in nota.[i] Lucini
proviene da questa cultura cristiana combattiva e non chiesastica. E mentre
Bertoldo contrappone “ribelli” e
“uomini mediocri”, egli distingue i poveri,
termine antico (e problematico), dalla gente,
termine oggi abusato, che occulta le differenze
sociali, specie quelle di classe, ed è, qui in Italia, diventato emblema di un’epoca
politicamente vischiosa e ben distinguibile, quella berlusconiana:
Doppio binario
La gente ha voglia di sogni, la
gente
crede alle balle di sempre. La
genteha perso Dio ma ha trovato i ciarlatani
della politica e dell’economia. La gente,
la middle class d’impiegati e d’operai,
crede e non crede, s’incanta, si
sveglia,s’indigna e protesta. I poveri invece
pagano sempre per tutti e in silenzio
perché i poveri non sono la gente
e non s’intruppano a protestare- hanno imparato soltanto
ad arrangiarsi senza fiatare -.
(12).
Il linguaggio poetico di Lucini - lo si vede già da questo primo esempio - appartiene al parlato politicizzato e quotidiano. Egli,
più che nella storia, di cui diffida, scende più volentieri nella cronaca. Da quella
attinge gli spunti per le sue
riflessioni poetiche. Il disgusto
presenta quelle del biennio 2009-2010; e nel libro si riconoscono facilmente (ma a volte è
lo stesso autore ad indicare in exergo
o in nota le sue fonti giornalistiche) personaggi politici, episodi di protesta
sociale o di incidenti sul lavoro, icone dell’immaginario contemporaneo. Lucini
segue un filo quasi diaristico, ma descrive poco e quasi subito inserisce la
sua meditazione sui dati della realtà esterna. Li avvolge, per così dire, in una
sorta di discorso sentenzioso, umorale, reattivo, tendente all’elegiaco e al
dialogo con i vivi e con i morti, con i singoli e le categorie sociali. (Nella quinta sezione, Dediche (2009), ad esempio, i dedicatari di vari componimenti sono:
i tiranni liberisti del ‘900; gli integralisti di ogni religione; i politici di
sinistra; i politici di destra; i gerarchi della Chiesa; i poeti; la gente che
passa per strada; i prepotenti convinti di vivere in eterno, gli artisti;
coloro che vanno in guerra e non lo sanno; i filosofi; i terroristi e i
mafiosi).
Mi ha colpito la forza di questo legame fortecon la cronaca
e le lotte di protesta e, contemporaneamente, la tendenza all’elegia e ad uno
sguardo distanziato, malinconico e sapienziale:
[…] E poi diranno “anche l’acqua
è nostra, ci è necessaria,
per modulare il respiro dei
mantici nelle fornaciabbiamo bisogno dell’aria per il progresso e per poter sforare
ogni previsione del prodotto interno lordo;
nessuno si azzardi a contraddire
la logica della potenza,
nessuno chieda ciò che secondo
ragione ci appartiene:il profitto per diritto sociale
a noi padroni della tecnica e del capitale”.
Anche allora piegheremo il capo,
amore
pur di continuare a sopravvivere
fra le muradella nostra mesta casa, circondati dagli oggetti cari
d’una vita vissuta nel grigiore dell’obbedienza.
[…]
(42)
Il tono del suo discorso è deluso, amareggiato, pacato: anche quando si descrive e si
distingue dagli altri:
[…] La mia tattica è
riconoscibile - e per questo
chiara e onesta - ho lavato il
volto platealmentesenza reticenze (tale il mio vanto
quel certo orgoglio maschio che mi distingue dalla pletora
di servette che mi siedono accanto
nel Parlamento) ed ora scruto, in guardia come la faina,
ammaestrato da molte sconfitte,
sorrido serioso e ammiccante
in attesa della mia ora
con pazienza tesso trame dal mio
loculo
d’eterno secondo a clown e serpenti,silenziosa perfetta icona
per un popolo di lacché
che ancora non mi intuisce ma ignora di sognarmi:
duce posato e poco incline alle chiacchiere,
dal ragionevole pugno di ferro.
(57)
Lucini anche quando
denuncia, si mette però dal punto di
vista del nemico.Certo per smascherarlo. Ma senza
cattiveria, ironicamente, come in un tentativo (purtroppo sempre più disperato) di non smarrire una sempre (o da sempre) enigmatica, comune, umanità.
(E non casualmente il sottotitolo de Il
disgusto è “poesie in difesa dell’uomo”). Si vedano, ad esempio, le parole
che mette in bocca a un ministro “chiacchierato”:
Mi hanno acquistato un attico e
neppure me ne sono accorto
per l’importo di
duecentocinquanta pensioni annuali,e così piazzare il mio culo dorato su un morbido sofà
vista Colosseo illuminato a giorno. […]
(14)
Chi parla attira l’antipatia del
lettore, ma la sua arroganza è così stereotipata e caricaturata da farne una macchietta. La
tendenza “mimetica” di Lucini, che lo spinge a
mettersi dal punto di vista dell’altro, anche quando è gretto, piccolo borghese,
egoista, è confermata anche da questo altro componimento:
Diecina di gennaio
E se gennaio annuncia neve e gelo,
a noi che importa!Rintanati al calore delle stufe,
bruciamo legna di generazioni
macinate dagli stenti,
divoriamo zamponi e cotenne
di porco, con occhi porcini,
mentre fuori cade la neve
e ci esilia dal mondo, nel silenzio
che non sapremo mai penetrare.
(11)
Sì, c’è la denuncia, ma anche l’elegia e un’allusione tenera e
accondiscendente a quel “silenzio” ovattato che “esilia dal mondo”. Lo stesso mi pare accada
quando entra in polemica con le gerarchie ecclesiastiche e lo stesso pontefice:
Salmodia su Caritas in veritate
Hai ragione, caro papa, a
sollevare il velo
sulla miseria di un’economia
disumanasenza Verità che l’illumini e Carità che la scaldi:
è dello Spirito il tepore (fove quod est frigidum)
e dunque Verità è Amore. Nel disegno perfetto
dell’intuito e del noèin, dici il vero,
ma non dici tutto.
[…]
[…]
Io non credo, non posso,
a questa teologia.
Questo ti chiedo, o papa, che
prima di ogni teologiaprima di ogni carità e
ancora prima di ogni verità
con un atto di amore, finalmente
umano,
tu ci insegni a disobbedire
alla crudeltà di tutti i poteri.
(55)
Lucini si rivolge ai
potenti come se con loro un dialogo fosse possibile su un terreno comune (in questo caso quello cristiano). Ora è evidente che ciò che Lucini invoca dal papa negli ultimi versi (anteporre
“un atto di amore finalmente/ umano” a teologia, carità e verità) è nientemeno
la negazione dell’istituzione Chiesa, è l’antico sogno evangelico della “Chiesa
povera”. Esso ha attraversato tutta la storia del cristianesimo e, ogni volta
che forze sociali reali (si pensi ai contadini tedeschi del Cinquecento)
impararono (grazie anche a capi ribelli come Müntzer, non a papi o
cardinali!) “a disobbedire/ alla crudeltà di tutti i poteri”, quel sogno scatenò da
parte di questi ultimi e spesso con la
benedizione di papi (e persino di
teologi all'inzio ribelli, come Lutero) una lunga scia di persecuzioni, di eccidi, di guerre religiose.
Non è possibile qui a uno come
me, che si richiama a Marx, a Fortini e, sul versante cristiano alla lezione del Non c’è più religione di Ranchetti,
argomentare il proprio scetticismo e il proprio rifiuto verso ogni forma di
esortazione che chieda una sorta di
“suicidio dei potenti” in nome del bene comune. Mi limito a notare che la
visione sicuramente evangelica, che alimenta la vena didascalico-politica di Lucini è costretta all’elegia. La poesia -
ricordiamoci con Fortini che la forma è sempre conservatrice
- spinge, comunque, un Lucini “ammaestrato da molte sconfitte” (57) a
contenere disgusto e collera e a sublimarne in
visione mitica la carica distruttiva:
Canzone del disgusto
Cade anche oggi il disgusto
senza motivo apparentecome foglia d’autunno che vola
dal suo ramo e muore lontano.
Lo raccolgo, a volte, lo rigiro
fra le mani
narrazione senza capo e senza
piederosario da sgranare senza fede
e senza carità
pregando Dio che la collera mi monti
un giorno prima dell’ultimo
giorno,mi renda pazzo come Francesco di Bondone
mi faccia crescere artigli di
demenza,
denti di rinuncia e la risata
insanadel folle che corre ignudo
a squartare leoni.
(31)
È per questo che un grande
distacco prevale, malgrado tutto, rispetto alle cose del mondo (e alla storia). In questo ha
un grande peso l’atteggiamento religioso
verso la morte. Il pensiero di
morte penetra in quasi tutti i suoi versi (ad esso viene dedicata la Parte
II - Meditazione sula morte e sull’agonia) e porta in
tutta la sua poesia una tonalità di meditazione dolente.
Il distanziamento dalle cose, dal
mondo, dagli altri, dalla gente, non viene da un’idea alta di poesia come in
Bertoldo, ma quasi da una contemplazione
smarrita, che tradisce meno fiducia nella stessa poesia:
Biglietto impoetico
[…] Eh no! Non vengono versi. Soltanto
questo ragionare freddo e
giacobinoquesta devianza da un sacro furore
occidentale che farebbe tutto a pezzi
per poi ricostruire con la pietà tartufa
dei falsi rimorsi e dei sensi di colpa
purché ogni logica s’incastri
nell’usuale
paradigma di borse che riparte e
voladopo l’ultimo colpo di fucile. I versi
non vengono e ci si scopre straniti
secchi, senza voce e pena per nessuno
di quei mille e più che sono morti per statistica
mentre la penna scorreva sul block notes -.
Leggiti il giornale
gente occidentale: l’impoetico trionfa.
(46)
Il distanziamento (“nel mondo ma
non del mondo”) avviene per mimesi anche con i morti. Ad esempio, una mummia
alpestre di soldato della prima guerra mondiale che parla nei modi elementari e schietti e non in quelli dotti e
filosofici di quelle leopardiane:
[…]
Per novant’anni ho contemplato la Marmolada
nei lunghi inverni che dicono
l’eternoPer novant’anni ho contemplato la Marmolada
nella mia nicchia beata di neve e di abbandono
nel ricordo degli amici che mi videro partire
controvoglia alla grande guerra
dei ricchi
lontano dall’ubbia e dalla
collerainsana di un secolo ingiusto e di macelli;
[…]
(19)
In questo dar voce ai morti, che
come ne La mummia in casa (17)
rievocano in poche parole la loro vicenda umana, si sente la lezione di Lee
Master. Ma Lucini preferisce i solitari, quelli che sono
di un mondo più esterno alle città e al loro brulichio produttivo e sociale. Si
mette volentieri dalla parte dei primitivi:
Su questa grande lastra di pietra
levigata
che pare messa lì nei secoli dei
secolisi accoccolavano i pastori nel passato
e i cercatori di rame della preistoria.
Anch’essi volgevano lo sguardo
oltre
la linea morbida delle abetaie e
in altoai crinali affilati dal vento a fugare
quell’indicibile sgomento dell’esistere
che dorme nel silenzio dei luoghi
di montagna
dove una pietra levigata guarda
le abetaiee attende ancora un uomo, quasi avesse un’anima
da condividere nei secoli dei secoli…
(23)
Alla fine il conflitto sociale (“il branco
dei contendenti”), che con la sua “follia di sempre”:
attraversa la storia e al quale tanti suoi versi pur prestano ascolto, è guardato con distacco, come da un ghiacciaio:
attraversa la storia e al quale tanti suoi versi pur prestano ascolto, è guardato con distacco, come da un ghiacciaio:
L’uomo di Similaun
[…]
Di quelli che m’uccisero non ho
memoria
né di cinquantadue secoli passatiad ascoltare il tepore del Favonio
che fin quassù mi portava il clangore
delle più crude battaglie a
memoria d’uomo,
i canti di tutti gli imperi della
storia,l’orgoglio di tutti i vincitori che ora dormono
in un angolo di mondo che vollero per sé
tenere stretto - allora come oggi, da sempre
per sempre -. E mentre il branco dei contendenti
s’accapiglia intorno alla mia mummia vorrei esplodere
in un’atavica risata, perché rivedo gli uomini
piccoli come allora nelle grandi
collere
nella follia di sempre - per sempre.
(20)
Questo sguardo richiama quello
(forse più atterrito) del Pascoli del X
agosto (“E tu, Cielo, dall'alto dei mondi/ sereni, infinito, immortale,/
oh! d'un pianto di stelle lo inondi/ quest'atomo opaco del Male!”) o del
Pasolini friulano più melanconico. Dal mio punto di vista esodante, che ho
riassunto nella formula non c’è più
comunismo e non c’è più religione, sento ancora fraternamente l’eco di
questa poesia ancorata disperatamente
all’umanesimo cristiano, ma da lontano come il suono di una campana in un
paesaggio in apparenza ancora contadino. Lo scorro con lo sguardo amaro di chi da lì è venuto, ma lo vedo
presto scomparire dallo specchietto retrovisore della mia auto, costretto come
sono assieme a tanti ad imboccare una delle tante autostrade che ci portano nei
nostri disincantati e ignoti inferni o
purgatori metropolitani. Il mondo contadino è stato irrimediabilmente sgretolato, perduto per noi assieme ai suoi
valori. Lucini lo sa. Riconosce che s’è ridotto a “scongiuro”, ma egli ne
insegue ancora l’immagine amorosa “nelle pieghe dell’eterno”, dove non posso e
non voglio seguirlo:
Poemetto misantropo
[…]
Nei nostri cortili bivaccano
soldati senza volto e senza terra;
dove un tempo giocavano i
bambini, si aggirano le jene,danzano i serpenti i loro riti e neppure
una lacrima di pioggia, consola l’estate.
*
Amore amore amore: non rimane che
ripetere il tuo nome
come scongiuro; non rimanedel nostro sogno che il tuo piccolo nome e il suo mistero,
che irriducibile s’ingrotta nelle pieghe dell’eterno.
(44)
Postilla
Intervenendo sul blog
Moltinpoesia ( Gianmario LuciniFeb
3, 2012 11:15 PM) ha sostenuto che
la polis è stata sostituita dal “villaggio globale” e che il potere vero che la controlla è oggi quello
finanziario. In una situazione del genere, se non vogliamo lavorare a “una
poesia della finanza, che asseconda questo stato di cose”, dobbiamo produrre “una poesia neo-umanista,
che parte dall’uomo” e si contrapponga
alla prima (o tout court alla
finanza). I poeti-ribelli (il riferimento è a Pergamena dei ribelli di Bertoldo) dovrebbero però lottare con una
sola arma: “la rinuncia” (o la “povertà”, che Lucini vede come
“sinonimo di giustizia, ma anche di libertà” o “equo scambio col mondo:
tanto devi dare tanto ricevere: non puoi avere più di quello che ti serve,
perché impoverisci il mondo e dissipi il mondo”). La poesia da fare sarebbe, dunque, “una poesia dei poveri, che
parla di loro, che ne canta l’epopea, che ne costruisce l’epica, ne esprime
l’elegia, il lirismo di chi è libero, la forza di chi sfida, il disprezzo per
chi opprime, la coerenza di chi disobbedisce”. Pur nel rispetto della matrice
cristiana e francescana di questa ipotesi, devo dire che dissento. Perché i poveri, anche se volessimo tener conto delle loro potenzialità
inespresse e non volessimo più relegarli nella vecchia ottocentesca categoria
del “lumpenproletariat”, non sono oggi - nei rapporti sociali capitalistici che si sono affermati sul pianeta e che hanno neutralizzato tutte le ipotesi rivoluzionarie (e non solo quelle
di matrice marxiana) - non sono attori che si possono di per sé contrapporre al
potere finanziario, come sostiene Lucini (io direi ai vari e complessi poteri
capitalistici). Anche se in contesti particolari, come sostengono Hardt e Negri in Moltitudine, "sanno come vivere con queste specie animali e vegetali, e soprattutto sanno cosa fare per mettere a frutto le loro qualità senza distruggerle"(159). O sono gli "agenti più creativi delle comunità linguistiche, in grado di sviluppare nuove forme e ibridi lingusitici che vengono poi adottati da tutta la società" (159). Il problema è che sono altri, più potenti e forniti di conoscenze anche distruttive, a dominarli. Non sono soli, non sono apartati dal mondo "civilizzato" ( e spesso non lo conoscono...). Tantomeno, tra le loro esigenze, ci può essere oggi in primo piano “una poesia dei poveri”.
Se, invece, s’ipotizza una poesia “che parla di loro, che ne canta l’epopea,
che ne costruisce l’epica, ne esprime l’elegia”, scivoliamo, secondo me, nella
vecchia concezione romantica del poeta-vate o del poeta che presta la sua voce ai Poveri o al
Popolo. Gli equivoci che ne derivano, tra cui una pericolosa idealizzazione dei poveri o dei “miserabili” o del popolo (la prima fa capolino
anche nelle parole di Lucini: non è, infatti, vero che il povero o i poveri
esprimano di per sé e più di altri libertà, sfida, rifiuto dell’oppressione e
disobbedienza) li conosciamo e non possiamo far spallucce. Certo, esiste un problema di rimozione del problema povertà nella
società e nel dibattito culturale. E la poesia può/deve anche porselo. Ma non in astratto, non volontaristicamente, non da sola, non sentimentalmente. Anzi qui interviene un altro problema. La
poesia non è una forma di conoscenza o
di comunicazione neutra. E un prodotto della storia e dei rapporti sociali che l'hanno modellata in un certo modo. Non è, per semplificare, un linguaggio-contenitore, un sacco, in cui invece di mettere
alcuni temi o contenuti (amore, morte, sentimenti vari) se ne possono ficcare facilmente altri (ad es. povertà, giustizia, eguaglianza); e il linguaggio li fa passare come quelli precedenti (della Tradizione). No, è - come detto prima - la forma della poesia che è conservatrice (come le istituzioni, come
i vari poteri politici, culturali e scientifici). E i poeti-ribelli non devono illudersi di poterla così
facilmente sottrarla ai potenti e di poterla usare per i “poveri” o per il “popolo”.
[i] A un giovane che me ne chiedeva ho consigliato di
scegliersi una morale di subordinato, di servo; come credo di aver fatto io.
Con quel tanto di equivoco e magari di ripugnante (come l'invidia, il rancore,
l’intenzione di dominare umiliandosi) che ogni morale di servo comporta. La
ragione di quel consiglio? Anzitutto che una morale di servo è, da noi, meno
immaginaria di una da signore; almeno per chi viva alla periferia dell’Impero.
Basta riflettere all'impegno che i nostri signori e i loro delegati mettono a
persuaderci che, via, siamo anche noi ormai parte del mondo dei signori. Il
che, in una certa misura, è vero. Sganarello, infatti, mangia, dorme e beve
molto meglio del cavallante, del contadino o del poveraccio per il quale il suo
padrone stanzia (in Molière), per la lotta contro la fame nel mondo e «per amor
dell'umanità», una certa cifra «purché bestemmi il Signore» cioè la propria
cultura e verità. Che dico, Sganarello fruisce anche della cultura e delle
agevolazioni tariffarie di Don Giovanni e deve buona parte della propria
astuzia alla conoscenza degli splendori mondani cui partecipa indirettamente.
Eppure, di un servo non ci si può mai fidare; e questa è grande superiorità, la
cui rinuncia non consiglio a nessuno.
C'è qualcosa che tuttavia il servo non possiede:
l'ironia e la leggerezza. Il servo ha solo riso e sarcasmo; sempre, in qualche
misura, plebei. Nulla di più doloroso dell'apostolo della leggerezza, Nietzsche,
incapace di danza, e condannato alla più tremenda serietà. Eppure - contro
l'opinione corrente - dubito che l'ironia e la leggerezza siano davvero sempre
supreme virtù (o privilegi signorili). Sono virtù; ma secondarie. Esse infatti
non possono essere praticate se non in gruppo, fra pari.
Insomma, la morale del servo è anche quella che ti
consiglia insistenza e petulanza, offerta di spiegarsi meglio e di porgere
scuse. («Si spieghi meglio!». «…Disposto ... disposto sempre all'ubbidienza».)
Docenti, moralisti, pedagoghi, preti, psicanalisti, funzionari di partito,
d'ogni sorta addetti alla manutenzione delle anime, tutti costoro - dei quali
certo faccio parte - sono perpetuamente esposti al disprezzo signorile degli
spiritosi libertini ma sfuggono tuttavia di mano a questi ultimi perché la loro
verifica è sempre altrove, è qualcosa che è sempre un oltre, metafisico o
storico, un dover essere, un «verrà un giorno ...». Mentre lo spiritoso
libertino ha tutto interiorizzato; ha o crede di avere tutti in sé i propri
diavoli e angeli; è costretto all'ateismo (<
Il giovane se n'è andato, com'è giusto, scuotendo il
capo. Spero di avergli lasciato, almeno, una spina fastidiosa. Nella loro
pressoché integrale ignoranza del nostro passato e al di là dell'abisso
profondissimo, quasi insuperabile, di quest'ultimo decennio, ho la certezza,
non per fede ma per ragione, che si stiano formando anche nel nostro paese - e
forse proprio attraverso una maggiore frequentazione del mondo dei padroni -
delle minoranze che possono assumere deliberatamente una morale di servi per
uscirne nella sola direzione capace di fondare, come sempre è stato, una
aristocrazia vera; facendosi cioè disinteressati e, al bisogno, sacrificali
difensori dei più, delle folle accecate. Il loro primo moto sarà, anzi già è,
di seppellire sotto lo scherno le false aristocrazie, straccione o snob, che si
riproducono nella nostra cultura nazionale. ( F. Fortini, Avere ragione, pagg. 102-103 in Insistenze
, Garzanti, Milano 1985
65 commenti:
Lucini leggeva le sue poesie senza enfasi, in maniera direi colloquiale, cioè non ostentava quel raggelante tecnicismo che a volte ho ascoltato in altri poeti noti. Quindi per capire m'è bastato ascoltare con attenzione, anche perché le sue poesie, quelle che ascoltai e queste che leggo ora riportate da Ennio Abate (purtroppo non ne so di più), son poesie discorsive che ti immettono nel poetico al pari di un clima, di un fiume che scorre lasciandoti il tempo che serve per riflettere.
Il linguaggio m'è parso semplice, controllato esperto, a dispetto del titolo "Il disgusto" che porterebbe a pensare a qualcosa di più simile ai toni dell'invettiva.
Il disgusto, qui come per le poesie di Bertoldo, secondo me ha significati ambivalenti. Io lo interpreto come prendere le distanze dal gusto, che significa mantenersi al di fuori da certe trappole dell'estetica, particolarmente da quelle modaiole. E questo perché la poesia non deriva, non principalmente, dall'attenzione al gusto quanto se mai (come mi pare di capire in quanto dice Bertoldo) dal canto.
Lo dissi confusamente quella sera: mentre le poesie di Bertoldo, per essere meglio apprezzate, richiedono l'accorta attenzione della lettura, queste di Lucini basta ascoltarle, comunicano per altre vie. E non solo per il discorsivo ( oddìo, qualche verso in purezza che sgangheri la memoria…), ma anche per gli argomenti per come lui li ha trattati.
Spero più avanti di poter approfondire.
L'aspetto della comunicazione per me non è secondario, rientra tra i fattori che considero necessari. Non si tratta tanto di voler piacere quanto di con-cedere qualcosa all'incontro ( sarà che ho lavorato per molti anni - orrore - in pubblicità). Quindi, ma senza pretese, mi piace che si consideri anche il condivisibile e il comprensibile. Questo nel pedale che sta a fianco della poesia tout court.
mayoor
Non posso criticare questa eccezionale opera, non ne ho certo le capacità. Sento l'urlo del povero il disgusto delle differenze che fanno del poeta un grande narratore, un giudice così umano senza condanne ma un attento ricercatore della verità anche in tutti coloro che pensano di averla trovata solo perchè hanno raggiunto una posizione sociale di "prestigio". Una bandiera che sventola alta in nome della Poesia. Grazie Emy
sembra poesia scritta da RS Thomas...sembra la poesia di un pastore gallese....
bravo gianmario.
Erminied (alla gallese)
per pastore gallese intendevo il prete protestante...man of the clergy. ovviamente. erminied
Sicuramente la scrittura di Lucini, che non è ovvia, desta grande interesse spiazzando il lettore che riflette sulla grande capacità del poeta di usare un codice linguistico quotidiano senza cadere nella banalità o nella retorica.
"Anche allora piegheremo il capo amore" più che una rinuncia alla ribellione vuole essere la descrizione di una rinuncia, descrizione di una assuefazione all'obbedienza, della tragica condizione esistenziale di chi non alimenta il conflitto attraverso la ribellione stessa. Questa descrizione e il "disgusto" che mi ricorda molto la Nausea Sartriana, creano un forte disagio nel lettore.
L'ironia di Lucini che parla del "culo di un politico su un morbido sofà" oppure chiede al Papa "un atto d'amore finalmente umano" non fanno che aumentare questa sensazione. Senza fare baccano il poeta con il suo linguaggio entra nella mente del lettore e lo spinge a fare ulteriori riflessione sui temi della società contemporanea. Specie in un paese bacchettone come il nostro le deduzioni possono essere molteplici. A me sono venuti in mente la "teologia della liberazione" che tanto seguito ha tra i poveri del sud del mondo ma anche i Dalit e gli Adivasi i più poveri tra i poveri dell'India , soggetti politici che né più né meno di altri si sono battuti e si battono strenuamente contro il potere finanziario. Ma è solo il mio pensiero che naviga ! enzo
Non posso che essere attratta dagli scritti di Lucini, dal suo "radicalismo cristiano", come dal suo linguaggio colloquiale e incisivo a un tempo attraverso il quale le voci del disgusto per il male arriva forte .
Cercherò e leggerò il libro.
Maria Maddalena Monti
da parte mia un commento molto breve,inverso alle lunghezze d'onda lunga per come e quanto radicato l' "ingrottarsi" del Poeta. Se, nel grande fratello spettacolo che tutto ha voluto rappresentare, manca l'indispensabile, irrimediabilmente perduto grazie ai papi di un certo tipo e pre-papy e papy di un altro, occorre continuare ad attingere da quel mondo perduto senza mai smettere, pagandone ovviamente un certo prezzo ..pertanto il mio appoggio viscerale, pagano, sacro e profano ,tutto compreso, a chi vuole conservare il suo volto più vicino possibile a quello, dai piedi ai tetti, delle grotte da cui è nato.
Questi versi sono la cattiva coscienza delle giovani leve rampanti referenziate / referenziali che si coccolano la loro poesia fuori dalla Storia e dalla contemporaneità , in euforica adesione al culto della personalità con annesse pulsioni minimaliste consolatorie buone per le pantofole e il calduccio domestico .
Le parole "coscienza" "etica" "civiltà" sono ormai proscritte , pronunciate con sempre maggior difficoltà da qualunque società , non solo dalla nostra : nel deserto delle coscienze Lucini è l'Altro che parla per tutti ; che indica denuncia riassume .
Chissà se è in grado di fare il contropelo al deserto di cui sopra ; perché qui poesia è questo , soprattutto questo .
leopoldo attolico -
ciao vecchia leva... non so chi avessi intenzione di bastonare , io perònè leva nè giovane ...vedi al di la di questi due parametri ,aggiungedoci tutti quelli che vuoi di recuperare forme minimali, ma proprio minimali, di rispetto ..altrimenti sei la dimostrazione con le tue stesse mani vuoi del deserto , vuoi del pelo ,anzi tronco nello stomaco del vampirificio rampante che ci circonda.
le varie cosette che hai elencato, pantofole comprese, spero ti abbiano aiutato almeno a stare meglio,una sorta di dose come da volontà imperiale riuscita perfettamente nei suoi intenti: tutti contro tutti..la dose evidente da chi usa le mani,per suonarle in questo caso con una tastiera, dice all'"altro",in uno specchio ad alta definizione, ciò che in realtà è lui..rientresti in questa condizione anche se ti chiami leopolodo, o attolico, o addirittura poeta,o se "digitassi" senza scarpe e al fredduccio non domestico,dentro un cartone in mezzo a una strada, ambiente che come per altri paesaggii è tutto tranne che poetico.Del resto se uno deve ridursi a sentirsi poeta perchè sa essere "razza pura", con dna selezionato per poter proferire discorsi poetici politici, è di per sè autoreferenziale,basta lasciarlo infelicemente contento del suo culto.
Tragicomica la vibrante "testimonianza" del nostro fantomatico "In soffitta" , che evidentemete ha la coda di paglia .
Ma aspettiamoci che rincari la dose !
Siamo tutti in trepidante attesa . . .
leopoldo attolico -
Lucini è poeta sincero, portatore, nei propri versi, nei propri interventi, nelle proprie opinioni, della propria onestà intellettuale, e della propria verità interiore, oltre che della ovvia manifesta sua coscienza storica... così come è onesto e genuino, semplicemente, il suo disgusto, lo si condivida o meno.
erminia
Il nostro(?) "fantomatico" (?) Leopoldo (!) voglio augurarmi sia un soggetto che vuole far danno al vero L.A. Poeta.
Nella sua seconda "dose" di legnate ( a se stesso? a L.A.?) il soggetto, ovviamente per nulla soddisfatto del suo bisogno di sangue, ha fatto di nuovo "leva" su un particolare in cui aveva gia avuto modo di provocare più che disgusto direi distanza .
Ri(per) corre a strade note e alquanto vuote,date alla massa, come con i fornetti catodici, per diventare uomini anodici, nè tragici nè comici .. forme dialogiche relazionali da grande fratello,in cui il risultato deve per necessità produrre quell'eliminazione tipica da alfabeti retefessbuk e infernet.
Vorrebbe cioè produrre questi stati emozionali di attacco difesa attacco eliminazione , squisitamente distruttivi tramite l'apparente autoaffermazione..vuoi per distruggere la credibilità di L.A. se ne ha rubato la sua identità, vuoi per autodistruggersi prendendo come pretesto la sottoscritta, oppure senza pretesto , ergo tutto è cio che sembra, ma comunque per tutte e tre le ipotesi adottando alfabeti e grammatiche orwelliane, di larga pratica e diffusione in ogni mezzo della realtà reality.
Se in un primo momento mi ero un po' sorpresa (fase di lettura del primo commento), ora non lo sono piu di tanto..ho solo la conferma / consapevolezza dei tempi di guerra, convenzionale e non convenzionale, in cui vivo.
Fatevi un grappino, state esauriti!
Credo che "la Rinuncia" uno dei temi di Lucini nasca anche per contrastare chi scrive all'interno della storia e della contemporaneità con grande supponenza e certezza credendo di avere la verità in tasca . Il tema della Rinuncia da alcuni considerato deriva pauperistica, è un concetto che ha animato i movimenti antiglobalizzazione degli ultimi venti anni che hanno teorizzato la rinuncia al potere contro cui stavano combattendo.
Rinuncia/povertà, dice Lucini: ".. sinonimo di giustizia ma anche di libertà, perché chi non è ricattabile dal bisogno indotto, non concede potere a chi induce il bisogno".Non è certo un tema che si può liquidare con due battute. Enzo
Ennio Abate a Enzo:
Non liquidiamo nulla, ma facciamo dei bilanci però.
Che risultato hanno ottenuto " i movimenti antiglobalizzazione degli ultimi venti anni che hanno teorizzato la rinuncia al potere contro cui stavano combattendo"?
Basta vedere la parabola dei movimenti pacifisti dalla prima guerra del Golfo del 1991 ad oggi.
E le guerre proseguono.
Non traggo conclusioni. Ma facciamoci le domande indispensabili e rispondiamo.
A Ennio: "E le guerre proseguono" già cosa proporre per fermarle? il pacifismo non basya? Mi viene da ridere ,se uno è pacifista non può fare niente che non corrisponda al suo essere pacifista. Forse le guerre non le dovrebbero fare i soldati...ma qui entriamo nell'utopia della quale abbiamo già parlato...già parlare, scambiarci opinioni, non trovo altre risposte...vediamo un po' il disarmo, la rivoluzione, il pacifismo, utopie?? Finchè penseremo all'utopia come qualcosa che non può salvare il mondo dalle guerre aspettiamoci ancora tante guerre ma tante e terribili. Emy
.... il poeta non è tenuto a suggerire politiche ed il suo dis-attivismo è pur tuttavia un attivismo ideologico poetico, quando indica la rinuncia al potere in ragione di una idealità, e non solo nel senso del modello cristologico. Il poeta non asservito a nessuna ideologia tranne che a quella del reale dissenso poetico non potrebbe, e infatti Lucini non lo fa, suggerire alcuna forma di politica e partecipazione alla "mensa dei potenti". L'unico suo "strumento" è la scrittura, intesa non già come "arma", ma come suggerisce Heaney, come "vanga", e quella può solo indicare rinuncia al potere, se obiettiva rispetto alla condizione della poesia, alla sua marginalità, in visione di, e dentro la sua provincia di indipendenza e idealità. Dunque, per me, bravo Lucini: il suo dissenso è totale e leale.
erminia
Ennio Abate:
PROMEMORIA (è del 2004, ma vale anche per oggi):
I POETI IN TEMPI DI GUERRA NON TREMANO ABBASTANZA
"Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi il dito."
Lontano lontano si fanno la guerra
Il sangue degli altri si sparge per terra .
[Franco Fortini, "Sette canzonette del Golfo"
in "Composita solvantur”
, Einaudi 1994, Torino]
Era qui a Milano una volta il poeta
coi suoi libri, una rosa in un bicchiere e la radio spenta.
Le grida nelle nostre piazze e gli spari
di botto erano cessati.
Altrove i guerrieri ammazzavano torturavano ora
sempre lasciando una vittima viva
una donna di solito che piangendo narrasse.
Il poeta tremante ascoltò. Invece di una poesia
scrisse sette amare canzonette e poi morì.
Ma voi poeti, che dopo Auschwitz
Ruanda, Afghanistan, Irak, eccetera
declamate poesie nel sublime immobile
ditemi: non sanguina mai la vostra rosa
nel bicchiere? tremano almeno
i versi quando li deponete nelle plaquettes?
Uno ha detto: non si sentano in obbligo i poeti
di scrivere versi contro la guerra. Giammai!
In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
Nessuno pretenda di più da loro.
Facciano bene quel che sanno fare, le poesie.
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri.
Pur essi quello che sanno fare, ben fanno.
Addetta l’una al massacro permanente
l’altra orgogliosa del canto suo sciancato
maîtresses entrambe di democrazia
- oh strano accoppiamento! – guerra
e poesia assieme dunque procedano?
[Continua]
Ennio Abate [continua]:
Ma di una cara inerme offesa bestiola
che in noi vive sotto anestesia
voleva la salvezza il filosofo
quando dopo Auschwitz ammonì i poeti:
non scrivete, tremate!
È quella che ancora oggi si dibatte sul tavolo operatorio
tra le mani di ossequiati chirurghi della cultura.
Ma barcollanti fantasmi di speranza ancora approdano
da barconi sulle coste di questo Paese
che in immonda puttanesca televisiva democrazia
guerreggia fuori e tramortisce dentro
donne, lavavetri e rumeni
e annegherebbe in uno sputo tutta la loro carnale poesia.
Oh belle statuine di poeti, via le pose civili.
Altrove, in macabra pirotecnia
uomini-bomba esplodono
ma non raggiungono l’altezza della poesia
che voi melliflui e solerti adagiate
sull’opulento divano occidentale che l’accoglie.
Se potete ancora, tremate.
Non come già fate
per la minaccia che i poveri giustamente
portano ai ricchi coi quali trafficate.
Tremate di fronte all’orrore
da voi cancellato in nome della poesia.
Ottobre 2004
[Fine]
Grazie Ennio, una domanda: come la interpreti, o come la parafraseresti questa poesia? erminia
.... intendevo, oggi, prosasticamente e non in versi, quella poesia del 1994, di Fortini?
Io vorrei capire una cosa, Ennio, senza offesa e senza alcuna volontà di polemica... una domanda pura e semplice, scaturita dal tuo confrontare questa disciplina dello scrivere a quella del battagliare:
... ma perché, invece del poeta e dell'insegnante, non hai intrapreso la carriera militare?
Vedo che non la disprezzi.
Inoltre, vi sono ufficiali illuminati e perfino di sinistra, che sanno nobilitare il sacrificio dei loro soldati, e il proprio, con una buona dose di umanesimo.
In fondo, se è vero come suggerisci, che secondo te poeti e militari esistono e servono e sono là, come dato di fatto, perchè non scambiarsi di tato in tanto i ruoli e le funzioni/fuzioni sociali? Uno fa 6 mesi come poeta e 6 mesi come militare: mi pare che una cosa del genere esiste nello stato di Israele dove la guerra è considerata tanto utile quanto la poesia.
erminia
erminia
Nel mio "non so", senza leva e senza età, permane una visione e filosofia,e non certo ideologi(c)a, irriducibilmente " contadina" , vanga cosmica compresa, senza alcun potere sull'altro, che sarebbe aderire dalla piu cavernicola, alla piu tecnologica delle guerre, programma-azione/ relazione di sè,in sè tramite l'altro su sistema armato..
questo modo di porsi non appartiene come sistema di vita all'imperialista di turno del periodo storico da esaminare,inoltre si maschera e cela molto molto bene , finemente anche a chi oltre giustamente prendersi per il culo i pacifinti, ipocriti cattolici e non che credono alle mascherate della parola pace da un balcone di piazza s.pietro, vorrebbe pure prendersi per il culo gli unici "antimperialisti"(mi scuso devo usare un 'etichetta solo per farmi capire, ma non le sopporto)...gli unici naufraghi rimasti scambiandoli, manipolandoli,e mettendoli alla berlina, alla s-tregua della pseudopace dei pacifiniti che se ne vanno una volta l'anno ad assisi .tutto perchè ? forse perchè in assenza di altre cose su cui arricchirsi a vicenda, in periodo di magra, basta la palma del piu naufrago di tutti..come nei reality e isole dei famosi ma all'incontrario
Scambiare la propria impotenza con qualcosa e qualcuno che mai e poi e mai vorrebbe una medaglia per aver capito l'essenza della propria( chiamata rinuncia, o vera dis..obbedienza, etc etc) è atto che si ritorce a boomerang di tutti coloro che credono, in qualsiasi campo, di aver capito piu di altri come domandarsi o come rispondersi?
..nel suo piccolo sono come l'azione di guerra lanciata da L.A. ieri sera , sia che fosse un ladro di identita sia che non lo fosse?
con categorie ideologiche ,gabbie, strutture, poco pratiche ma anche poco ideali, ci si ingabbia per ripetere, anche se non si sarebbe proprio voluto, la stessa logica antiuomo della competizione che è anche orgia affari di guerra ?
...si replica qualcosa per cui uno, o un nucleo ristetto di di uni-egotudini devono averci per forza una medaglia rispetto ad altri , facendosi peraltro baffo di ogni accadere e accadendo e storie e storia
..
non capisco per nulla tanto come nel piccolo agire di cotanto contro contro contro ...( di volta in volta di questo o quell'LA,Ennio, non Ennio ) non ci si renda conto quanto è improduttivo questo contro( senza domande questa volta è per me per nulla ribelle..che se devo ingabbiare in un'etichetta o un nome , lo chiamo essere pensare Camus)
uno dei beni piu preziosi rubato a fior di teste come pretendono di essere tutti i vari LA, o A.E.etc etc è che traspare al contrario di alcuni concetti che usano, quanto vogliano "distinti" per non si sa bene quale razza pura, e siccome non posso pensare che sia cosi , dove vorrebbero ad andare a parare?
un passo alla volta del "come" praticare persino indipendenza da se stessi, è concetto molto "contadino" e di pratica denuncia della propria rinuncia a tutti i sistemi di potere che hanno aggredito quel nudo grano...e invece? codesti sarebbero "peccatori" agli occhi di non si sa bene quale militanza poetica , con un bastone che pretende di dare mazzate senza nemmeno sapere come deporlo sulla strada per indicarne una o essere di semplice sostegno agli altri ...un uomo, ancorchè poeta, in un periodo di guerre non convenzionali e convenzionali come quello in cui viviamo, ha un solo dovere da compiere , tanto uguale per chi ha bisogno di medagliarsi poeta:è Quello di svelare l'inganno molteplice( compreso quello massonico mondiale) che ricopre la realtà? fate vobis, per me si , può e sopratttutto deve bastargli, e tanto più a un poeta, tanto piu a millenni data odissea omero e pochi anni data spazio kubrick.
ec
non appartiene unicamente all'"imperialista"
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considerazione a latere di altre guerre .
su altri livelli o piani alchemici di energie mosse in questo e in altri post, siamo sempre lì: femminile e maschile in alcune/i sono in continua percepibile tensione armonica, mentre in altre/i guarda caso in guerra , bipolari, come da disegno dell'impero per altri piani vittorioso e che ci va a nozze ..per tutti i tipi di conflitti e disgusti, dividi e dividi, e tutte/i contro tutte/i. Il programma di manipolazione mentale, pure su questo piano, all'impero gli è riuscito alla grande e ben prima di mandare i carrarmati , ha gia vinto anche questa guerra ( sidone e siria)
absolutely! :)
da cui il valore di Lucini...
erminia
Ennio Abate a Erminia:
Questa mia poesia del 2004 ha un retroterra che forse è bene esplicitare. Contiene sotto traccia una polemica nei confronti di due amici poeti. E precisamente nei confronti di uno che si autodefiniva «poeta gentile che parla di tenerezze e di fiori» e di un altro che aveva dichiarato più o meno quanto affermato in uno dei versi: «non si sentano in obbligo i poeti/ di scrivere versi contro la guerra». Posizioni in astratto rispettabilissime e anche logiche: chi non ama le tenerezze e i fiori (simboli del poco piacere che nella vita si riesce a stento ad assaggiare al posto della irraggiungibile felicità)? Come si fa ad imporre a un poeta un tema (in questo caso la guerra) se non lo sente? Ma tali posizioni, diffusissime tra gli intellettuali specie di sinistra, smossero in me insoddisfazione e un sentimento di rigetto. Le sentivo (le sento) come copertura ideologica, dei paraocchi prêt-à-porter per occidentali non guerrafondai (d’animo) ma ben disposti a votare partiti anche di sinistra ormai da tempo guerrafondai. Da qui il sarcasmo amaro (e che vorrei violentissimo) contro quelli ( non io e qui ti sbagli attribuendo a me l’equiparazione tra poeti e guerrieri) che recitano ( ci vorrebbe il falsetto!):
Giammai! /
In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!/
Nessuno pretenda di più da loro./
Facciano bene quel che sanno fare, le poesie.//
[continua 1]
Ennio Abate [continua]:
Ai quali controbatto con una voce più vicina al mio modo di pensare, che vuole essere realistico e sottolineare l’ipocrisia complice di chi esalta (in poesia, in campo culturale, in ogni campo insomma; non abbiamo adesso un “governo tecnico”?) il “saper fare”, la “professionalità”, la “tecnica” senza darne una valutazione dei suoi effetti politici:
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri./
Pur essi quello che sanno fare, ben fanno. /
Sarcasmo ancora più amaro se quest’atteggiamento “di sinistra”, che per me ha portato al disastro politico (e non solo economico) di questo Paese in modi più subdoli degli atteggiamenti di destra, che la guerra l’accettano antropologicamente, mentre la cosiddetta sinistra attuale finge di essere pacifista e ha accettato “in nome della pace” persino le”guerre umanitarie”, sbarazzandosi di una sua tradizione di opposizione alla guerra, lo confronto con figure di poeti comunisti come Fortini, che non a caso ho evocato citando in exergo suoi versi e nomina dolo all’inizio (“Era qui a Milano una volta il poeta”).
Non credo poi che questa mia poesia sia di difficile parafrasi. Credo piuttosto che sia indigeribile per molti palati culturalmente raffinati ma politicamente “ondivaghi”.
P.s.
Per dare un’idea del “discorso sottotraccia” riporto da una mia lettera al primo amico:
[continua 2]
Ennio Abate [continua]:
3 ott.2004
Caro…,
credo di amare anch’io quanto te «la tenerezza», ma non *comunque*. Ho letto il tu scritto e, come altre volte, pur sentendomi vicino al sentimento di umana solidarietà che l’ispira, devo sinceramente ribadirti che lo trovo debole politicamente. Te lo dico con rammarico e in pesante solitudine: attorno a me molti amici della guerra non parlano; e quelli che lo fanno, quando non sono per la «guerra giusta», si attestano su posizioni etiche, più o meno vicine alla tua, mi pare. E questo è un limite che non ci fa vedere la realtà e rafforza le tentazioni evasive. Io condivido, con Fortini, la necessità di «uscire di morale in politica», malgrado dubbi su come praticare oggi questa prospettiva […]. Non so quanto ti interesseranno le mie puntualizzazioni quasi pignolesche, ma te le mando lo stesso: per me è un modo di rispettare l’interlocutore, dimostrandogli che lo leggo seriamente e non mi rassegno a uno scambio diplomatico.
Eccoti perciò qui di seguito le mie reazioni, quasi punto per punto, al tuo scritto.
Tutto oggi è più grosso di noi. Siamo nani e non abbiamo neppure giganti sulle cui spalle salire (se n’è persa la memoria o non si ha nessuna voglia di salire).
[continua 3]
Ennio Abate [continua]:
Impotenti rispetto alla guerra sì, ma smarriti non tutti; e non del tutto. Personalmente non ho mai creduto che manifestazioni, slogan e bandiere potessero fermare questa guerra (Saramago, parlando del suo ultimo romanzo *Saggio sulla lucidità* su tema delle schede bianche come rivolta democratica (il manifesto 23 sett. 2004) ha tra l’altro detto:«Oggi siamo di fronte a una gravissima crisi di idee. Se una emozione può mobilitare centinaia di migliaia di persone, l’assenza di idee o la loro debolezza sarà sempre di ostacolo a tenerle unite... Anche oggi [come ai tempi della guerra in Vietnam], le manifestazioni contro la guerra sono alimentate da sentimenti sinceri, certo; ma non è la ragione a guidarle. Perché, in realtà, sappiamo benissimo come milioni di persone in piazza non sposteranno Bush dalle sue decisioni»).
Ma siccome non riusciamo a opporci politicamente alla guerra americana, essa diventa (del tutto) «incomprensibile» o «qualcosa su cui è persino difficile ragionare». Io leggo e seguo con attenzione ragionamenti seri sulla guerra (anche se spersi in una cloaca di porcherie e chiacchiere). […]
[continua 4]
Ennio Abate [continua]:
«La tenerezza, la posta in gioco?». Sarebbe bello! Ma no, non si fanno guerre per strappare i sentimenti di tenerezza degli umani. Semmai questo è un «effetto collaterale», direbbero cinicamente i nostri nemici. Questa è guerra per il petrolio, per il tentativo di imporre un dominio imperiale sfruttando il primato militare assoluto che gli Usa si sono ritrovati, per bloccare all’esterno delle «fortezze» occidentali la marea di morti di fame e di miseri. Una volta si diceva almeno «il pane e le rose» ( e la tenerezza...!). Ma vedere solo la «tenerezza» mi pare troppo...
Concordo invece che «una volta convinti, una volta arruolati, di quel mattatoio cesseremo di vedere l’orrore» anche noi; e sulla «banalità del male» italica o meno […]. Concordo anche sul fatto che tanti come noi, senza essere azionisti, siano «guadagnati alla guerra» da un lavorio preventivo già operante nel sistema economico «di pace», come scriveva il buon Brecht.
Quando poi passi al discorso su te, «poeta gentile che parla di tenerezze e di fiori», sento qualcosa di stonato e – permettimi - ingenuo. Sì, noi – poeti o meno - siamo l’Occidente, che le vittime dei guerrafondai e i loro nemici giurati odiano. E ci odieranno e magari ammazzeranno, se non riusciremo – possibilità oggi che non si vede su nessun orizzonte – a ribaltare la politica dei nostri governanti italiani ed europei.
[continua 5]
Ennio Abate [continua]:
Né condivido certe tue tirate sulla Albright. Metterla in manicomio? Ma se non sono riusciti neppure a metterci Pinochet! Qui – scusami – è come se tu non percepissi quanto siano potenti certi personaggi e quali apparati di potere e di consenso sociale hanno dietro.
E altrettanto ingenuamente idealistica, trovo la tua intenzione di «tornare a parlare non solo di alberi, ma di fiori, di frutta, di insetti, di uccelli e, perché no?, di polli», ribaltando Brecht proprio dove non dovresti. No, non è parlando d’altro che romperemo «il silenzio che circonda tanti misfatti». Né credo che dobbiamo avere «occhi vergini». È questione di politica che non c’è, non di sguardo vergine. Anche se volenterosamente oggi rileggessimo Il saccheggio del terzo mondo di Pierre Jalée, non c’è più la Cina terzomondista che delineava un’altra via. Tutto questo che scrivi per me è rimozione, semplice rimozione. Non sarà una francescana attenzione alle «cose piccole, umili, minute che ci stanno accanto e a cui in genere non facciamo caso» che fermerà la guerra. E non sono d’accordo neppure con il richiamo al mito di Perseo. Potessimo risultare del tutto incapaci di fare quello che Lenin riuscì a fare dopo il crollo del socialismo alla vigilia della Prima mondiale, dobbiamo almeno guardare in faccia la storia e le sue atrocità. Questa mi pare la lezione più alta di Fortini.
Scusami della durezza con cui stravolgo il tuo elogio della tenerezza.
Un caro saluto
Ennio
[Fine]
.... i movimenti antiglobalizzazione nascono sulle ceneri di bilanci catastrofici dei vari partiti comunisti dopo la caduta del Muro. Si tratta per lo più di movimenti pacifisti alcuni con venature ghandiane, che hanno lanciato le loro poetiche dai tetti dei Centri di Permanenza Temporanea oggi Centri di Identificazione e di Espulsione o che ad esempio in India hanno smantellato pacificamente le strutture di multinazionali del cibo che portavano con se malattie e morte. Il movimento pacifista combatte molteplici guerre, è un po' più articolato e non riducibile alla marcia annua di Assisi. enzo
Buoni spunti di riflessione può dare questa poesia messaci a disposizione da Ennio in questo contesto.
Sto pensando anche al Composita solvantur: si dissolva quanto è composto. Quando ciò che è composto si è dato non attraverso modalità dialettiche bensì paralizzanti. Immobilizzanti e quindi mortifere.
Se potete ancora, tremate./Non come già fate per la minaccia che i poveri giustamente/ portano ai ricchi coi quali trafficate./Tremate di fronte all’orrore da voi cancellato in nome della poesia.
Ma non è rendendo ricchi i poveri che possiamo abolire le differenze, le sofferenze e, quindi, le conflittualità. La poesia le può cogliere attraversandole (nella sostanza e/o nella forma stilistica) e non annullandole in nome di un egualitarismo che, alla fin fine, emancipando la sfera dei mezzi da quella dei fini, porta al massimo del disordine. Oggi vediamo come le eccezioni si stanno facendo regole. Lo stato di eccezione, in barba ai predicozzi sulla democrazia, tende oggi a confondersi con la regola, sta diventando un paradigma normale.
Oggi viviamo in un mondo dove i confini tra l’umano e il disumano si cancellano. Secondo l’assunto che solo dio può darci la vita e togliercela, quando assistiamo impotenti ai massacri permanenti di civili (= guerre preventive) siamo di fronte ad una Auschwitz sempre presente: non serve la giornata della memoria. La memoria la stiamo applicando quotidianamente nei fatti. Fatti in cui prevale l’indifferenziazione. Questo è il campo della morte. Questo è il campo “dell’immonda, puttanesca [televisiva] democrazia”. Ognuno però si ritira dietro le sue gabbane: io sono militare, io sono un tecnico, io sono un poeta ecc. ecc. ed è importante che ognuno sappia fare bene quello che fa. E ognuno di essi si dimentica della realtà viva, questa inerme offesa bestiola che in noi “vive sotto anestesia”.
Cito Agamben da “Homo sacer”:
“L'eclissi della politica è cominciata da quando essa ha omesso di confrontarsi con le trasformazioni che ne hanno svuotato categorie e concetti. Accade così che paradigmi genuinamente politici vadano ora cercati in esperienze e fenomeni che di solito non sono considerati politici: la vita naturale degli uomini, restituita, secondo la diagnosi foucaultiana, al centro della "polis"; il campo di concentramento, dove quanto si ha di più privato, il sangue, diviene criterio politico decisivo, delimitando uno spazio di indistinguibilità tra vita biologica e sfera politica; il rifugiato, che, spezzando il nesso fra uomo e cittadino, passa da figura marginale a fattore decisivo della crisi dello Stato-nazione; il linguaggio come luogo politico per eccellenza, oggetto di una contesa e di una manipolazione senza precedenti; la sfera dei mezzi puri o dei gesti, ossia dei mezzi che, pur restando tali, si emancipano dalla loro relazione a un fine”.
Rita S.
Chiaramente il mio pezzetto risponde alle tue domande di alcuni post fa. enzo
"combatte molteplici guerre"
in una sola frase due terminologia connotate in senso bellico.
1,combatte
2, guerre
da cui il post di insoffitta ritarò che mette in evidenza com epure i movimenti pacifisti dall'ottica occidentale siano movimento di guerra e di combattimento.
sicché la cultura del dialogo e della proposta civile non attecchisce nei nostri paesi retrogradi.
laddove basterebbe, enzo, come forse anche tu osservi, dire: ''i movimenti pacifisti ''...''portano sul tavolo del dibattito civile''... ''varie questioni di interesse popolare.''
che tristezza vivere in un mondo guerrafondaio, vivere questa preistoria, che durerà temo fino a quando il pianeta resisterà ai mutamenti geologici, climatici e interstellari.
i quali, parrebbero oggi non essere disastri troppo lontani...
erminia
Sul valore di G.Lucini per me non ci piove, è cio che ho cercato di esprimere nel mio breve di commento di pieno appoggio , al di la che poi LA o il suo ladro di identita ci abbia sputato sopra .
Ciao Hermione cara :-)
assolutamente d'accordo con te se non parliamo della tavola della pace e simili , o meglio se escludiamo uno ad uno i singoli non stritolati e condizionati da un meccanismo "ipocrita"..occorrono esempi di vita disposti a far saltare per aria il pulito ipocrita dei diritti umanitari.Ti faccio un esempio pratico di lotta diversa. Se ci fossero stati i pacifisti come pretendono di rivendicare la loropresenza, sulle questione libica avrebbero assunto come infatti non stanno facendo per la siria ora e tanti altri casi ancora, le parti di chi denuncio fin dall'inzio il nazismo 2.0 dei banditi cannibali democratici sul mediterraneo...avrebbero appoggiato chi, dalla loro stessa aprte ,urlava dalla libia la suaprotesta , mon martinelli. Se erano pacifisti, NON LO LASCIAVANO SOLO..ergo nelle mani delle diplomazie statunitensi- americane che nell'arco di un estate ( 2011) , gli hanno letteralmente fatto il lavaggio mentale utile a " convertirsi" alla menzogna.
Il pacifismo si fa con azione non violente che svelino le menzogne imperiali a livello preventivo!!!..perche ormai si sa perfettamente come fanno le guerre, preparandole prima con " le primavere" (di pseudo ribelli) e poi ,una volta approvati dalla popolazione( come hitler e le sue propagande sui diritti umani) , la guerra gia vinta prima di farla.
bisogna essere tutti d'un pezzo (possibilmente senza morirne, come tutti gli Arrigoni martiri che hanno combattutto non violenti fino in fondo per la famiglia umana)
io credo che oltre a sensibilizzare trasversalmente, e non è detto che ciò avvenga intenzionalmente, i suoi amici e la comunità di immediato riferimento, che deve essere per forza di cose non universale -- perchè la "nostra" poesia non raggiunge tutti, non raggiunge l'universo -- con discorsi propri della poesia, che sono prevalentemente retorici e metaforici, il poeta non può.
sic et simpliciter.
erminia passannanti
NB: una persona che sappia fare "bene le poesie" può sapere fare tante altre cose...per cui, questo dirgli / dirle:
"fai, e cerca di farlo al meglio , quello che sai fare, ovvero il poeta,
è "patronizing", sicché il poeta non è tenuto ad informare la comunità circa i suoi altri due , cento, mille talenti ed occupazioni, che potrebbe , egli o ella, saper fare altrettanto bene se non meglio del "fare i poeta e scrivere poesie"...
è come dire, ghettizzando: "tu piccolo deficiente che vuoi fare il poeta, siedi là e non darci fastidio se altro non sai fare che scrivere poesie..."
ma in verità, la maggior parte dei grandi e piccoli poeti, hanno altre attività e competenze anche magnifiche, senza che il mio "magnifico" designi nulla che abbia a che fare con la classe ed il potere.
erminia passannanti
,...Ritarò, cara,...non ho capito questa storia del ladro di identità...mi sento confusa...di che state ragionando?
Ennio scrive: "Ma tali posizioni, diffusissime tra gli intellettuali specie di sinistra, smossero in me insoddisfazione e un sentimento di rigetto. Le sentivo (le sento) come copertura ideologica, dei paraocchi prêt-à-porter per occidentali non guerrafondai (d’animo) ma ben disposti a votare partiti anche di sinistra ormai da tempo guerrafondai. Da qui il sarcasmo amaro (e che vorrei violentissimo) contro quelli ( non io e qui ti sbagli attribuendo a me l’equiparazione tra poeti e guerrieri) che recitano ( ci vorrebbe il falsetto!):"
Io ho tanti conoscenti intellettuali di sinistra che sono stati, o sono dei potenziali terroristi.
:)
Non so di cosa parli quando attribisci questo carattere agli intellettuali di sinistra. Io sono una intellettuale comunista. Non ho mai conosciuto intellettuali di sinistra che recitano in falsetto...La violenza, cqm, è sempre una sconfitta: significa un risentimento. E le riforme non si fanno con il risentimento storico.
Ma grazie mille della spiegazione. erminia
riguardo a poesia e politica c'è da fare, a mio modesto parere, un qualche tentativo di distinguo. Ne propongo solo 4, poi voi aggiungetevi quella ulteriore istanza che meglio vi garba, e, o scrivetela, o lasciatela fermentare nella vostra testa...
1. c'è chi non essendo riuscito a mettere le bombe, si è ripiegato sulla poesia.
2. c'è chi avendo messo le bombe, ed essendosi pentito, si è accontentato poi della poesia.
3. c'è chi non ha mai messo le bombe e mai le metterebbe (né farebbe battaglie e guerre perchè per lui e per lei la lotta non è armata) e scrive poesia perché pensa che sia quello lo strumeto deputato alla discussione politica.
4. c'è chi non ha mai messo le bombe e mai le metterebbe e scrive poesia politica non intenzionalmente, ma per istinto e per innata vocazione. Sarà colui che pur producendo poesia politica, da naive, non saprà fornirne una giustificazione teorica.
Erminia
Eminia sei sinfonia da incorniciare..e nel tuo ultimo movimento , con la tua grazia mi ritrovo con mio immenso piacere in "fa",di cui mi accontenterei pure del solo diesis, il tuo quattro fanciullino e per giunta alchemico quadrato sè di Jung. Sei stato un vero fuoco d'artificio , musica luci e acqua. Grazie ..salutami Hermione :-)ciao.r
Ciao...Ritarò, cara! :)
In breve, io personalmente ritengo che Gianmario Lucini sia un poeta ''eccezionalmente'' politico. Di una forza che convince, che sa portare avanti nel campo minato del poetico sia un discorso diretto sia indiretto, ora sembrando di pronunciarlo, quel discorso, col megafono, ora ritraendosi nella solitudine del suo (e nostro) comprensibile disgusto.
Non è una poesia astratta e chiusa, anche quando raggiunge questi vertici, ma aperta e franca sulla storia e sulle realtà sociali. Inoltre, Lucini ha una capacità di eloquio davvero notevole, la quale non ha bisogno di appoggiarsi su nessuna "presunta verità della poesia". Non finge, ovvero, di (volere) dire altro da quello che intende e dichiara di volere esprimere.
Ma quello che dico adesso nel mio ozio domenicale non può che risultare riduttivo della complessità e profondità della poesia di gianmario.
Egli per me è uno di quei pochissimi poeti il cui itinerario dovrebbe restare nella storia di questi anni, perchè testimone di una certa sua indiscutibile, inequivocabile forza e autenticità della parola, verità e affidabilità della sua vocazione. Gli si può ovvero dare fiducia. Egli può, in sintesi, ricevere dal lettore, dalla società civile, la responsabilità del mandato etico.
:)
erminia passannanti
Mi rammenti,Erminia, con questo tuo commento vite poetiche al di là della scrittura da poeta, che poi con questa esprimono intero di passione/compassione in un senso ben più ampio e laico del segno /simbolo della croce..sono vite in cui la parola è un tuttuno, VERO, con l'esemplarita di vita, che puo cogliere però non una tanto dedicata "societa civile", ma bi/multi/direzionalmente quell'insieme di "soci" alla stessa causa principe che è adesione fare parola per esserne fatti antedimostrazione della stessa...se democrazia è fare poesia , certe vite la incarnano fino a saperla mettere in un altro colore , tasto, nero su bianco. E' il foglio bianco, nudo, tuttavia già vivo, che da un istante all'altro puo morire, che amano, come Lucini ama, prima dell'atto strictu sensu poetico.
La poesia di Lucini è un po' come il film di storia molto laica, pertanto propriamente alchimia umana e divina,rispetto all'altro , americanata, dallo stesso titolo. La passione di Carlo Mazzacurati.antitesi culturale al monopolio imperiale. Ovviamente -sia rispetto al protagonista/regista in crisi di ispirazione e al cristo ex carcerato- Lucini vive nella sua pratica , una feconda ispirazione, ma degli stessi fatti "ispirati" a/da questa pellicola: tutti in quello stesso borgo antico eppur fantantico e surreale, provando costumi in fatiche titaniche.
rò
Certo , se togliamo di mezzo l'utopia - come dice Emy più su - ci priviamo di quella reattività che in questo caso il disincanto di Lucini traduce in antagonismo e in critica tout court , come postulava giustamente Octavio Paz in ordine ad una poesia che si confronta con la negatività dell'Altro ,del Mondo ,facendosene compartecipe e soprattutto interprete responsabile .
Ma la responsabilità non si impara , non si acquisisce ; non ci si discosta dalla propria egoità se non si è "costituzionalmente" capaci di amare , non da anime belle che blaterano il mazziniano "armiamoci e partite" , ma che si danno una smossa e operano con i mezzi di cui dispongono ( poesia o non poesia che siano ) .
A fare da controcanto alla coscienza ridotta a zombi di tanti autori che si vedono in giro , la parola di Lucini è perfino capace di sorprendere in senso e suono le immagini dimenticate della speranza , proprio opponendosi in discrasia a quanto di più malsano vorrebbe proscriverla .
Ci auguriamo che la modalità di Gianmario dia la sveglia alla scrittura di qualcuno proprio laddove le ragioni dell'umano , del sociale e del civile sono derubricate a utopia .
leopoldo attolico -
Carissimi tutti, ho letto (sbirciato). Invidio, di cuore, la capacità che avete di dedicare così tanto tempo a discutere: per me la “rinuncia”, in questo caso, è dettata non dalla povertà di quanto vorrei dire, ma dalle circostanze.
Ho trovato alcuni, credo fondamentali, fraintendimenti rispetto a quello che ho scritto. Prima di tutto la poesia che Ennio cita
[…] La mia tattica è riconoscibile - e per questo
chiara e onesta - ho lavato il volto platealmente
senza reticenze (tale il mio vanto
quel certo orgoglio maschio che mi distingue dalla pletora
di servette che mi siedono accanto
nel Parlamento) ed ora scruto, in guardia come la faina,
ammaestrato da molte sconfitte,
sorrido serioso e ammiccante
in attesa della mia ora
con pazienza tesso trame dal mio loculo
d’eterno secondo a clown e serpenti,
silenziosa perfetta icona
per un popolo di lacché
che ancora non mi intuisce ma ignora di sognarmi:
duce posato e poco incline alle chiacchiere,
dal ragionevole pugno di ferro.
Qui NON è l’Io che parla (ossia io che scrivo) ma è colui che sta nella dedica che parla (ossia un politico molto noto, G.F.) e, diciamola tutta, Gianfranco Fini. Non ho voluto mettere il nome perché Fini non è Fini, ma solo un paradigma. Come lui ce ne sono a migliaia, in politica.
In secondo luogo: il concetto di “povertà” (ma l’ho anche spiegato), NON è un sentimento revanchista o “ressentiment” nietszcheano. Non c’entra qui la morale. La povertà alla quale io alludo è “l’equo scambio col mondo”, appunto e non esito a sfidare chicchessia a dimostrare che questo è un concetto rinunciatario. Nossignori: questo è l’unico concetto capace di condensare insieme quello che Pasolini considerava in parte antitetici o antinomici: “progresso” e “sviluppo”. Nel senso che l’unico sviluppo possibile è quello che si basa su un “progresso”, altrimenti è uno sviluppo drogato, economicamente fasullo, instabile, portatore di sciagure collettive per i poveri e per i ricchi. C’è, è vero, anche un altro tipo di povertà che prendo in considerazione, ma per la quale esprimo soltanto il sentimento (civile, prima di tutto, e non solo cristiano) della solidarietà e della compassione, e sono quelli “che non hanno voce”, quelli sulle cui spalle la storia è stata costruita (ma questo sarà l’argomento dell’ultimo libro di questa trilogia, nella quale “il disgusto” occupa il secondo posto).
Dire che la povertà sarà l’unica a salvarci o, in altre parole, l’equo scambio col mondo è l’unica politica economica degna di questo nome, è per me una ovvietà, tanto ovvia che nessuno la vede. E’ una legge della fisica, ma anche della chimica, che la follia economica ha rimosso dal collettivo. É l’unica possibilità che l’uomo ha di essere più felice, e, paradossalmente, persino più ricco. Invece vedo che il concetto di povertà è stato interpretato in senso dolorista: niente di tutto questo. Il ragionamento è soltanto e puramente logico: è l’economia e il potere moderno che sono fuori dalla razionalità: non c’è razionalità nel potere, non c’è mai stata, storicamente. La mia poesia è tentativo di trovare la razionalità per vie emotive. Io voglio che il potere sia a) razionale e b) innocente. Utopia? Chiamala utopia, ma se non si arriverà all’innocenza del potere non avremo mai giustizia e non avremo mai equilibrio, economico, ecologico, ecc. ecc. Non ci servono più le vecchie categorie di giudizio: cristiano o laico o altro: ci servono idee diverse, perché queste categorie non sanno più interpretare la direzione della storia che, se vogliamo aprire gli occhi, corre con velocità vertiginosa verso un abisso di caos. E allora sì, se dovesse accadere, troveremo i poveri coi forconi, e avremo questa, da tanti sospirata, rivoluzione, che azzera sempre tutto ma non l’ingiustizia e le cause degli squilibri.
[continua]
[continua]
Pertanto, dal mio punto di vista, i valori del cristianesimo ai quali qui mi appello (compassione, compartecipazione, giustizia, sostegno per le ragioni degli ultimi e dei più deboli, ecc.) NON sono soltanto valori cristiani, ma patrimonio dell’umanità, sono un’antropologia. Forse è fuorviante il fatto che ci sono dei riferimenti al Trascendente, alla Religione, al Papa, ecc.: io certo sono credente ma, in questa e in tutta la mia poesia, NON è la religione a muovere l’ispirazione, ma una cultura laica che mette la sopravvivenza della specie al primo posto. Non mi interessa il potere come classe e non voglio intraprendere nessun dialogo col potere: non è vocativa, la mia poesia. Il potere è ottuso e ignorante: non ci puoi ragionare. A me interessa la baracca, tutta la baracca, con dentro potenti, poveri, ribelli, conniventi, mafiosi – e in questo Ennio ha ragione – ma NON cambiando il potere “dal basso” (che, peraltro, in basso proprio non mi sento, davanti a certe nullità della politica, della cultura, ecc., che sono concentrazioni assurde di potere). La baracca è una e se crolla ci seppellirà tutti, nessuno escluso. E dunque ognuno, anche il poeta, ha un dovere di responsabilità verso tutti: il poeta lo fa con i suoi versi oltre che con i comportamenti. Non ha più senso pensare in termini di lotta di classe, perché le classi sono solo distinzioni di status, non di mentalità. Il problema vero è che, anche il povero (lo straccione) ha acquisito la mentalità rapace del padrone ed ora è quella a dominare, trasversalmente. Il mio obiettivo è dunque una cultura, non una classe anche se, è vero, una classe più di altre incarna quel tipo di cultura. Ma è ormai dagli anni ’80 che non ha più senso parlare di lotta contro il potere (nel senso di casta) ma di lotta per una reciprocità del potere e per l’innocenza del potere, che poi è la vera razionalità del potere. Il potere è in ogni condizione relazionale, privata e collettiva. Il problema non è che ci sia, ma il cattivo uso che se ne fa.
Il poeta, a mio avviso, ha il dovere di usare l’im-mediatezza della poesia per evidenziale il cattivo uso del potere e questa è poesia civile - non solo la ribellione, che pure è un atteggiamento di rifiuto. E se vuoi davvero ribellarti, cominci dalla tua vita, a non finanziare il potere con le tue scelte, scegliendo di vivere non sopra quello che hai ma nei limiti di quello che hai, e se non ti basta rivendica quello che è giusto che ti sia dato, perché ne hai diritto. Se bruci un albero perché hai freddo, devi piantare un nuovo albero: questo il concetto. Se inventano la stufa che funziona a cereali, devi ribellarti, perché possibile inventare altri modi per riscaldarsi, ma per mangiare no. Ogni volta che colludi con il “sistema”, sei complice del sistema, di fatto, e ricacciare questo sentimento come “dolorista” non è razionalità, ma razionalizzazione. Se il 10% dei cittadini, oggi, possiede il 50% della ricchezza (in Italia, perché a livello mondiale le proporzioni sono molto differenti), non è un problema di politica economica, ma di una cultura che ha prodotto quella politica economica. Non è colpa solo di chi ha la ricchezza, ma di chi non ha preteso la giusta distribuzione della ricchezza.
Vi prego di leggere i miei testi in questa chiave, che è politica ma non ideologica: io non mi sono appellato a nessuna ideologia, scrivendole, ma semplicemente all’evidenza dei dati disponibili e, al di là di quanto potrebbe apparire, sono convinto sempre di più che l’unico modo per risolvere i nostri problemi davvero sia quello culturale, di cambiare cultura, la cultura della povertà o se vogliamo dell’equilibrio, della responsabilità, se vogliamo un potere vero e non questo mostro irrazionale, fatto di pulsioni sadomaso che chiamiamo “potere”, e alla sua logica autoreferenziale che si tramuta in norma civile, in legge, in tendenza di opinione e di pensiero.
Lo so dove si trova l'innocenza del potere e al potere
1. in lapponia
2. in svezia
3.in norvegia
vi è anche negli ultimi due il più alto tassodi suicidi.
spero non sia una coincidenza.
devo informarmi se in lapponia muoiano più di freddo o di depressione.
un bacio, e grazie della tua spiegazione, gianmario. erminia
se Gianmario fosse anche un tombeur de femmes sarebbe sinceramente semplicemente divino, ma...non lo è...
:/
teniamocelo così!
;)
Ringrazio anch'io senza medi(t)azioni al silenzio, come meriterebbe in una situazione non blog, l'ascolto profondo delle parole del Poeta Lucini. Non avevo bisogno di sentire direttamente da lui, quanto fosse poeticopolitico, per nulla ideologico o di altra ideapologia,nè tantomeno lo è questo elogio al fallimento, di poverta in ricchezza altra, però non nascondo che mi ha fatto piacere leggere in tal senso costruzioni con parole cristalline direttamente dalla sorgente.
Grazie!
rò
Rò, non so che idea tu abbia della poesia, ma mi indichi un verso che ti ha particolarmente colpito in queste poesie di Lucini? Questo al di là della qualità della scrittura e della valida argomentazione sulle quali non si discute, che si sia d'accordo o meno con quando affermato.
mayoor
Questa canzone mi fa volere piangere per il poeta, per noi stessi, per il mondo, tutte le lacrime di chi vede e non può: è una canzone molto lirica e politica al tempo stesso. e.
Canzone del disgusto
Cade anche oggi il disgusto
senza motivo apparente
come foglia d’autunno che vola
dal suo ramo e muore lontano.
Lo raccolgo, a volte, lo rigiro fra le mani
narrazione senza capo e senza piede
rosario da sgranare senza fede
e senza carità
pregando Dio che la collera mi monti
un giorno prima dell’ultimo giorno,
mi renda pazzo come Francesco di Bondone
mi faccia crescere artigli di demenza,
denti di rinuncia e la risata insana
del folle che corre ignudo
a squartare leoni.
(31)
Vero, è potente. Ecco, a me piace "artigli di demenza" e insieme gli ultimi quattro versi. Non che il resto non vada, ma in questi la poesia fa un volo particolare che, mi sembra, in altre poesie non ci sia. Ecco perché, a differenza di voi tutti, non ho espresso tanto entusiasmo.
ciao
mayoor
per esempio questo, ma è solo uno, se vuoi poi continuiamo:-)
mentre fuori cade la neve
e ci esilia dal mondo, nel silenzio
che non sapremo mai penetrare
per l'idea che ho di poesia , non basta un commento o caratteri parola,
è per me in sintesi un canale dentro quel verso del silenzio , che riesce nel suo tra-mite ad attrarti/ farti attraversare qualcosa che hai gia attraversato ma che non hai voluto, ma anche solo saputo, pronunciare e che ti apre un disvelamento a te gia noto o conosciuto.Uno squarcio, nulla più, ma senza il quale personalmente mi mancherebbe una chiave di penetrazione della realtà o della falsa realtà (o della sua falsificazione in reality , gia presente per certi aspetti , come per i media radio tv o web, in un virtuale ante-tecnologico, gia presente nella natura umana su cui i poteri hanno fatto leva)
ec
a te gia noto o sconosciuto...
dopodiche cancella ripetizioni "gia presente" o refusi di fretta.
il problema ,almeno per me,ma è solo una mia visione nèh Mayoor, non è da impostare su entusiasmo o il suo contrario.
Per quanto mi riguarda non ho gli strumenti "alti" di preparazione critica per potermi consentire di supportare il mio entusiasmo o il suo contrario con sufficiente rispetto per non ferire la prima o ultima essenza del poeta minore o maggiore che sia. Magari non ho compreso , oppure non mi ha trasmesso nulla, oppure devo riflettere meglio, ma non devo rischiare per miei parametri qualcosa che mi dia sensazione di quella possibile ferita..visto che sono gia un pchino irruenta il rischio è piu alto
per il suo contrario, ergo quando il poeta mi ha dato nelle sue diverse sfumature da una sferzata a un carezza, in questo contesto come in altri o quando mi parlo da sola, esprimo invece dove è riuscito a toccare qualcosa che tocco anch'io,o ho toccato per la prima volta grazie la sua arte poetica.
Così come piu in generale non deve necessariamente piacermi "tutto" di una persona per poterla accogliere, mi basta poco e ricordarmi di quel poco e/o tanto che (mi) ha (ac)colto in persona che è anche poeta, ma per primo persona, come me. Ma ripeto non essendo critica posso permettermi sia le regole di cui sopra, sia l'atteggiamento "naive" che le genera, anche perchè come dicevo in altri commenti non mi basterebbero nemmeno cento vite per spaziare in tutta poesia dai graffiti delle caverne a oggi quindi, per come ragiono io, mi porrei un problema falso(non solo in termini egonomici del mio tempo).
"...mi faccia crescere artigli di demenza,
denti di rinuncia e la risata insana
del folle che corre ignudo
a squartare leoni."
Giammario, siccome non posso dire "poveri leoni", sicché a quelli difficilmente puoi squartare qualcosa, mi viene da pensare che i leoni siano personificazione, allegoria del potere...e allora oh, Gianmario, davvero è una immagine assolutamente potente (il gladiatore che si rivolge al leone non potendo squartare l'imperatore, e trova poi verosimilmente la morte in questo slancio di folle vendetta e ribellione....
erminia
... sembra un'utopia a portata di mano, praticabile da chiunque questa che Giammario Lucini propone. Mi ci riconosco pienamente. E mi auguro che venga condivisa da molti. Grazie per averla esposta così ampiamente, chiaramente e con tanta convinzione.
Nelle poesie selezionate da Ennio mi colpiscono soprattutto i versi in cui in cui alla percezione lucida e assai critica del mondo si accosta un sentimento di malinconico, distante, molto umano accoglimento delle altrui individuali condizioni e contraddizioni. Il contrasto, dentro un linguaggio che pretende di essere immediatamente compreso, affascina e poeticamente convince.
Una poesia onesta e generosa. Come il suo autore, credo.
Grazie di nuovo per il tuo intervento.
un saluto
marcella
Ennio Abate:
Caro Gianmario,
mi permetto le seguenti puntualizzazioni:
1. riconosco senza esitazione di aver frainteso il soggetto parlante della poesia “Monologo della faina” (p.57). Eppure (non lo dico per pignoleria o per aver ragione a tutti i costi) sia il tuo procedimento mimetico sia la complessità che resta comunque tipica del linguaggio poetico (anche quando si presenta apparentemente chiaro e senza ombre, come il tuo) non mandano del tutto all’aria la mia interpretazione sintetizzata in questo passo: « Lucini anche quando denuncia, si mette però dal punto di vista del nemico. Certo per smascherarlo. Ma senza cattiveria, ironicamente, come in un tentativo (purtroppo sempre più disperato) di non smarrire una sempre (o da sempre) enigmatica, comune, umanità.».
2. Non è che il concetto di povertà che tu sostieni io lo confonda con il risentimento nicciano o che esso meriti la definizione di «rinunciatario» o «dolorista». A me continua a sembrare, però, un concetto astratto, magari un’idea guida (kantiana). Proprio come gli altri concetti da te evocati (progresso, sviluppo). Ragionando in astratto su tali concetti-valori, senza confrontarli con la realtà, che li smentisce in toto o in parte appena cominciamo a indagarla, rimaniamo nel campo delle credenze, delle fedi. Per te è un’ovvietà che « la povertà sarà l’unica a salvarci». Altri ritengono ovvio che la salvezza (termine religioso!) verrà solo dal progresso o dallo sviluppo. Cosa rende la tua ovvietà più ovvia delle loro o il tuo valore superiore a quelli proposti da progressisti e sviluppisti? Se mi rispondi, come fai, che «è una legge della fisica, ma anche della chimica», ti dico sinceramente no: non mi pare che la storia umana sia guidata da leggi equiparabili a quelle che gli scienziati (positivisti) hanno visto in passato operanti nella natura e che quelli del Novecento, molto più sgamati, considerano solo probabili.
[Continua 1]
Ennio Abate [continua]:
3. Mettere poi totalmente «fuori dalla razionalità» l’economia e il potere moderno è semplicistico. Sarebbe davvero tutto troppo facile se milioni di uomini e donne possedessero la “razionalità” ( o i poeti riuscissero in certi casi a «trovare la razionalità per via emotiva») e quelli che gestiscono l’economia o il potere politico fossero soltanto dei folli. Non è così. La storia non vede razionalità tutta da una parte e irrazionalità tutta dall’altra. C’è una razionalità (strumentale) dell’economia e del potere che funziona e tiene in scacco le potenzialità razionali (e diciamo pure di possibile felicità o maggiore felicità) di milioni di uomini e donne. Non puoi far spallucce e rifugiarti nell’utopia dichiarando:« Io voglio che il potere sia a) razionale e b) innocente. Utopia? Chiamala utopia, ma se non si arriverà all’innocenza del potere non avremo mai giustizia e non avremo mai equilibrio, economico, ecologico, ecc. ecc». Uno sguardo troppo smarrito in un sogno ( tale per me è un potere razionale e innocente) distoglie semplicemente da come vanno le cose di questo mondo. E ci impedisce di intervenirvi, ammesso che si creino le condizioni per cambiare qualcosa in meglio per noi oggi. Ma non mi sento di consolarmi con l’utopia pura, ora che vedo deperita anche l’«utopia concreta» di cui parlava Ernst Bloch. Ed è assai improbabile, visti i rapporti di forza (perché i gestori dell’economia e del potere hanno anche armi, polizie ed eserciti) attualmente del tutto sfavorevoli per le vittime della crisi in corso, che ci «troveremo i poveri coi forconi» sotto casa o attorno ai Parlamenti. Vedi cosa succede ai “poveri” della Grecia e che possibilità hanno le loro proteste di ribaltare le decisione dei “folli” di Bruxelles, di Berlino, di Parigi o di Roma.
4. Ho ricevuto un’educazione cattolica da ragazzo, ho conosciuto meglio poi la differenza tra cristianesimo e cattolicesimo, ho imparato infine a criticare entrambi da un punto di vista marxiano; ma , come ho detto, dato per scontato che per me il cattolicesimo è ideologia del potere dominante (e non dei poveri), vedo oggi grossi limiti sia nel cristianesimo ( e citavo non a caso Ranchetti) sia nel marxismo. Però lla tua esigenza di «idee diverse» o di mettere « la sopravvivenza della specie al primo posto» sento di muovere l’obiezione già fatta sopra: si tratta di un’esigenza astratta (ricordi gli «eroici furori» di Vittorini?): non si misura con la realtà, anzi rischia di distogliersi del tutto dalla realtà, di non studiarla, di non tentare neppure più di conoscerla.
5. Mi permetto infine di farti notare che quella che tu chiami«cultura della povertà» è un’ideologia e muove anche la tua ricerca poetica assieme ad altre spinte sicuramente meno ideologiche e più emotive o passionali, anche se tu ci preghi di leggere i tuoi testi in una chiave che definisci «politica ma non ideologica». La mia lettura della tua raccolta non ha tenuto conto di questa tua raccomandazione, ma non me ne pento e credo di averne compiuta comunque una fraterna e rispettosa della sostanza dei tuoi versi.
Brevemente:
Certo: nessuna cattiveria col nemico. Nel caso nostro, o ci salviamo tutti o ci danniamo tutti: la terra è una nave unica e se affonderà, affonderemo tutti, diceva Gorbacev. L'odio non è un sentimento risolutivo: quello, piuttosto, è un sentimento nicciano, il "ressentiment".
Progresso e sviluppo sono due categorie che Pasolini ben distingue, a mio modo di vedere correttamente. Noi siamo molto sviluppati e poco progrediti. Abbiamo una gigantesca cultura dello sviluppo, al servizio della tecnica, e una misera cultura del progresso, al servizio delle relazioni (col mondo e fra uomini).
Lo squilibrio delle due conoscenze fa in modo che l'enorme potere della tecnica sia usato male. E ti rammento che il concetto di "salvezza" non è affatto religioso, ma filosofico-antropologico, anche se la religione lo usa in un altro senso (ma io non sono un teologo e non mi sogno di usarlo in quel senso). Filosoficamente, senza il concetto di salvezza, la deduzione logica è sopprimersi, perché non ha senso rimanere in vita.
La tecnica ci promette salvezza e ci chiede (lei sì) una "fede" di tipo religioso, nel senso che promette salvezza in un furuto non identificabile, anche se non trascendente, ma, al di là del quadro trascendenza/immanenza, il meccanismo è quello religioso. La mia "salvezza" invece è un realismo della ragione, ossia il non sfidare i dati della conoscenza. Se i dati ci portano a dire che questo sviluppo, così com'è il suo "trend" ci porterà alla rovina, allora la ragione mi dice di fermarmi. La religione della tecnica invece, col suo atto di fede, mi impone di accettare il rischio perché tanto, in un futuro indefinito, il problema da essa stessa causato sarà risolto. Ora, la somma di questi problemi non risolti ci sta mandando al disastro finale. Il disastro è economico, ma soprattutto è ecologico (ed è quello che mi preoccupa maggiormente).
Chiedo uno stop allo sviluppo e un avanzamento del progresso.
La storia non è "guidata" da leggi di nessun genere: non esiste una provvidenza manzoniana della storia: non mi sogno di pensarlo. Ma, di fatto, la storia odierna è quidata da una religione dello sviluppo, da una fede cieca nella scienza, considerata la salvezza dell'uomo, mentre non è che uno strumento, che si usa bene o male. Non spetta alla scienza il progetto di sviluppo: lei è solo uno strumento. Non esiste la "ricerca pura", fatta in nome della scienza, ma la ricerca sporca, fatta in nome di obiettivi di potere, sempre, checché ne dicano gli scienziati. C'è sempre chi paga la ricerca per fini suoi. Il problema è che questo "bene " o questo "male", che nelle società passate erano di pertinenza di una metafisica, col '900 in poi, con la crisi ormai definitiva della metafisica, non si sa più bene a cosa rispondano. Gli scienziati, ad esempio, considerano un sopruso che altri dicano che cosa la scienza deve o non deve fare. Per me invece è un diritto di tutti sapere dove debba o non debba andare la scienza. La vecchia metafisica mi dava delle regole per poter decidere e giudicare il bene-per-tutti, ora sono la finanza, la scienza, i centri di potere a decidere, senza nessuna interferenza possibile. L'interferenza è dileggiata, insultata, accusata di oscurantismo. Per questo in una poesia dico che che, morto il vecchio Dio, non per questo ho fede nei nuovi dei che mi promettono il cielo in terra, esattamente come fa la metafisica e con gli stessi meccanismi, paradossalmente: sembra che del concetto di "divinità" neppure la scienza e la tecnica possono sbarazzarsene, e se ne sono appropriati, diventando esse gli dèi, disastrosi e ben più truci del vecchio Dio.
Quando parlo di "salvezza" è dal disastro, che intendo, provocato, in termini mitologici, dalla nostra "hybris". Marx teneva sul comodino la tragedia di Eschilo su Tantalo, perché Marx la sapeva lunga ( i marxisti un po' meno, mi vien da dire...).
La mia "povertà", è rinuncia attiva contro questo sistema perché lavora contro, non collude, lo smaschera, lo combatte, lo sberleffa, lavora contro cercando di usare i suoi strumenti.
La mia idea è che la pattuglia occidentale dello sviluppo è suicida. Il troppo sviluppo, combinandosi con l'idea di uguaglianza, provoca la fine. Se tutti i cinesi, gli indiani, i brasiliani, ecc. potessero avanzare il diritto (e lo faranno, più presto che non si creda) a raggiungere il nostro "stile di vita", il pianeta morirebbe. Paradossalmente questo è un dato mi viene dalla scienza e nessuno ci crede. Come mai? Ah certo, perché fermarsi comporta sacrifici e nessuno li vuole fare. Meglio posticipare la resa dei conti e affidarla a chi viene dopo di noi. Allora la scienza risolverà anche questo problema... più metafisico di questo ragionamento!
Le mie figure sono dimesse, è vero. Figure di poveri succubi, di minestra che brontola, di esseri schiacciati. Ma è solo la prefigurazione di quello che noi saremo appunto perché non ci siamo ribellati. Saremo poveri e imbrogliati, poveri che colludono, poveri e complici. Di più: io sostengo che comprando qualsiasi cosa che non ci serve, di fatto compriamo un pezzo della nostra morte. Perché noi siamo i poveri e compriamo, compriamo, viviamo di questa illusione accesa dall'idea insana di sviluppo inarrestabile, di "crescita" senza fine. Bisogna "crescere", questo è l'imperativo. E io dico invece: bisogna fermarsi, togliere a chi ha troppo e distribuire meglio. Bisogna volgere la ricerca a soluzioni (abitative, energetiche, di comunicazioni, ecc. ecc.) le meno dannose per l'ambiente, le meno squilibrate. I "giganti" dell'economia sono nati da un'idea che ha prodotto inflazione. Pensa alla Microsoft: un'idea di sistema operativo che tutti devono usare (e per fortuna che c'è linux e altre formule, altrimenti i prodotti MS ci costerebbero ancora il doppio). Pensa all'idea degli OGM: tutti dovranno comprare le sementi della Monsanto per vivere, e a scapito della biodiversità. Questo capitalismo nasce da idee di monopolio e lo "siluppo" è inteso "per loro", non per la gente. La povertà, il rifiuto è l'unica cosa possibile. "Non nel mio nome". L'unica possibilità di ribellione che ci resta, perché quelle classiche non sono più possibili, non ci sono rapporti di forza né condizioni. Un governo giusto, un governo a favore dei poveri, non resisterebbe una settimana. Resistono i governi che meglio si adattano alle attese dei mercati, del vero potere. La ribellione è ormai un problema di coscienza, non di politica o tanto meno di ideologia. Nessuno farà per noi. Non ci sono salvatori all'orizzonte, eroi, grandi menti. Se una rivoluzione è auspicabile, dovrà essere quella di chi decide di invertire la logica, di vivere con valori diversi da quelli imposti dalla "crescita" a tutti i costi. E se non lo faremo, peggio per noi, e ancor più per chi verrà dopo di noi.
L'alternativa a questo discorso passa, a mio avviso, soltanto attraverso la violenza, la rivolta armata, che provocherà una battuta d'arresto, ma non il cambiamento della mentalità. Non ho mai visto una rivoluzione avvantaggiare i poveri, ma soltanto dare origine a nuove classi di ricchi e a nuove ingiustizie. O può essere anche un fallimento generale, un "default" che provoca la caduta a domino dell'occidente, con conseguenze che non riesco proprio ad immaginare. E forse, quella sarà la nostra sorte.
(Gianmario)
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