giovedì 9 febbraio 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Senso comune (2004-2009)"
di Jacopo Galimberti


Jacopo Galimberti Senso comune (2004-2009)Le Voci della Luna, Milano, 2011



Recentemente mi è stato chiesto di commentare una mia affermazione che qui riporto per comodità del lettore: «La poesia che ha luogo nel Moderno è come un compasso che giri a vuoto o un binocolo che spii l’orizzonte immobile; disarcionata dalla sua sella, la poesia moderna è costretta a un perenne ricominciare daccapo, una fatica di Sisifo se volete, un riprendere a tessere la tela che la notte disbroglia, ad un tempo Cloto, Lachesi e Atropo...».
In premessa, resta un punto da illuminare: quello della differenza tra il discorso poetico di finzione e il discorso poetico (e narrativo) referenziale: il romanzo poliziesco versus il rapporto di un commissariato di polizia, la verosimiglianza contro la verità (il documento a validità legale contro il documento a validità estetica). Il racconto storico versus la Storia.
Chiediamoci: non abbiamo in entrambi i casi una testualità, una retorica e un intrigo? La risposta sarà sì. E allora, chiediamoci ancora: c’è differenza tra ciò che è auto contestualizzato e ciò che non lo è? Ovviamente, il rapporto di polizia non ha bisogno di esplicitare gli elementi del contesto, che può dunque supporre dati per acquisiti da parte dei lettori; un racconto storico non ha bisogno di esplicitare gli elementi del contesto, che può dunque supporre dati per acquisiti; in un testo letterario, invece, la auto contestualizzazione non può avvenire negli stessi termini ma l’autore dovrà inserire altri elementi nel cotesto che servano ad esplicitare il testo.

Così, man mano che il testo si referenzializza, assume dal referente gli elementi del contesto. Ed ecco che la poesia del Dopo il Moderno inizia a girare a vuoto attorno al proprio centro, un centro che non c’è, sostituito da un piano inclinato che fagocita di tutto. Come una trottola gira apparentemente attorno al proprio centro che si rivela essere un cerchio imperfetto. È qui che si verifica una invasione di tematiche allotrie e spurie nel momento stesso in cui si è esaurita la miniera delle tematiche del «privato» di quelle del «quotidiano», di quelle degli «oggetti» etc., la poesia del Dopo il Moderno si referenzializza nel senso che assume direttamente le proprie referenze dal «mondo», si mondizza. Più il testo diventa problematico, più la soluzione che il testo esprime consiste nel «dire» questa problematicità; ed il problematico affiora nel momento in cui la poesia si accorge che non può più «dire» le cose nel modo altamente formalizzato della tradizione ma che può dirle soltanto in modo dif-forme, dif-frangendo, appunto, le forme e le retorizzazioni al loro seguito. Diffrangendo obsoleti concetti come avanguardia e retroguardia. La solitudine della poesia del Dopo il Moderno è questa: che soffre di un decremento di simbolizzazione e di un accrescimento di prosasticismi e di elementi del contesto dati per acquisiti. La poesia sente il bisogno di referenziarsi, di trarre dal documento storico le credenziali che un tempo le dava la tradizione. Se leggiamo una tipica composizione di Jacopo Galimberti ci accorgiamo che nel corso dell’esposizione l’autore ci dà gli elementi del contesto utili a decrittare il racconto; la poesia si fa racconto, preferibilemte racconto storico:


Avevano dormito coi cavalli

in una sala altissima con dipinti uomini nudi.

Alle prime luci siamo andati in città,

io, quattro spagnoli e un fante del Gonzaga.

Eravamo al terzo giorno, dappertutto cadaveri

e carcasse marce o carbonizzate.

Entriamo in casa, c’è una donna.

Gli alabardieri del Borbone

iniziano ad appiccare il fuoco a tutto

e a violarla. Anch’io.

All’improvviso uno è crollato.

Un ragazzo, avrà forse avuto la tua età,

è uscito dalla dispensa e gli ha infilato una forca

nel collo urlando: “Luterani assassini”,

Avevo appena armato l’archibugio, è morto sul colpo,

credo. Sua madre s’alza e cerca di fuggire.

L’abbiamo presa e legata a testa in giù.

Poi l’abbiamo aperta, come un maiale.

L’alabardiere è morto nel pomeriggio.


Giacché tutto è storia la Storia è scomparsa, inghiottita dalle sabbie mobili della post-Storia. E la forma-poesia accetta e assorbe la forma-racconto entro le proprie contesture formali adattandole ad esse. Come vediamo qui l’a-capo è perfettamente somministrato secondo le esigenze del racconto narrativo e non secondo le esigenze della stilizzazione e della formalizzazione poetica. È una novità di non poco conto.
Ed ecco il resoconto di una battaglia contro i romani da parte di un soldato sopravvissuto:


Le nostre piccole ombre si attorcigliavano tra i calzari.

Quando il sole fu a picco assaltarono il fianco sinistro.

Si levò alto un polverone, poi si placò

e scese. Apparvero esseri senza testa,

procedevano quadrati serrando

gli scudi sul capo e su tutti i lati

come compatto organismo corazzato

di testuggine.

Noi mai avevamo visto formazioni simili

e militi di tale disciplina.

Presto avrebbero travolto i frombolieri sul ponte

e sarebbero giunti da noi.

Questo, pensai, è l’ultimo sole della mia vita.

Guardai le colline plumbee

dove erano nati i miei avi.

Il vento di ponente portava il profumo dei pini.

Sarei morto lì, dov’ero nato,

poi mi avrebbero bruciato

insieme agli altri.

Lungo le cosce iniziò a colare

un liquame nero, viscido,

caldo. La brezza si fece più forte,

poco prima che il ponte venisse preso

le nubi divennero color del vino.

Iniziò a grandinare, i romani ripararono nella pineta.

I comandanti ci fecero dare fuoco al ponte

e oggi è un anno

che sono cittadino dell’Impero.


Adesso che siamo tutti diventati cittadini dell’Impero mediatico, soltanto adesso sembra proliferare il de-moltiplicatore della narratività diffusa; in luogo della stilizzazione della tradizione è subentrata il de-moltiplicatore della narratività, la forma-poesia assume il piano «basso» del «senso comune», ma è un chiaro indizio fuorviante, nel piano «basso» c’è sempre un più «basso» dove poter scivolare, e tutti i componimenti scivolano, slittano sui piani «bassi». È una «discesa culturale» che ha luogo nei testi di Galimberti con numerose sortite di contro mosse anti liriche e post-liriche. Una discesa culturale che può non aver fine, come in certi film horror il piano inclinato pende sempre più verso il basso, con tanto di ringhiera e corrimano per la scala a chiocciola che conduce giù, nel fondo dove c’è un occhio nero che ci osserva.



13 commenti:

Anonimo ha detto...

Da questa bellissima descrizione di una orribile visuale , a parte la forma che certo non è una sorpresa, il fuorviare sicuramente è ovvio e molto scivoloso , la poesia-prosa potrebbe essere invasiva e dannosa figlia del nostro tempo e dei nostri castrati sogni.

Al pasto incauto della gazzella che sfida il leone
scopro altri fragili albanchetto dell'ultimo giorno.

Emy

Anonimo ha detto...

Difficile cercare nel presente il senso della storia, lo è sempre stato. Accettando il senso comune, condiviso, in modo acritico, si finirà col non avere alcuna storia oppure con l'accettare passivamente quella che di giorno in giorno viene proposta (indotta) a seconda della necessità. Non è detto però che il fatto storico debba essere ritenuto fondamentale, proprio perché il presente, che è cambiamento continuo, lo rende assai difficile. Nel presente la storia è in divenire, da qui l'incertezza che caratterizza il vivere stesso.
Possiamo scegliere se partecipare all'evolversi della storia nel presente, oppure se affrancarci a dati ritenuti più certi e inconfutabili. Nel primo caso sì, si navigherebbe nel "senso comune" tra mille difficoltà, ma credo sia nel secondo caso che sia più probabile scadere verso la "narrativi diffusa". Questo perché manca l'aspetto per molti versi rivitalizzante dato dalla partecipazione al presente.
A prima vista a me sembra onestamente un pasticcio quello proposto da Gelimberti. Partendo dall'assunto che si debba all'impero medianico il proliferare della narratività diffusa, si finisce con l'applicarla alla storia accertata del passato. Il verosimile-poetico dichiara la sconfitta anti lirica probabilmente perché perde la verve della partecipazione vissuta con il presente incerto. Non è questa una rinuncia?
Mi scuso per l'esposizione poco lineare, ma spero se ne capisca il senso.

mayoor

Anonimo ha detto...

E poi sinceramente, e voglio dirlo scherzando, voi riuscite a distinguere questo verosimil-poetico di Galimberti dalla letteratura per ragazzi?

mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Mayoor:

"Possiamo scegliere se partecipare all'evolversi della storia nel presente, oppure se affrancarci a dati ritenuti più certi e inconfutabili" (Mayoor).

Fino a che punto è possibile scegliere se immergersi nel mare sempre tempestoso della storia o tirarsene fuori (per capirla o, come si diceva una volta, contemplarlo)?
Innanzitutto ci stiamo già: i più sprofondati, alcuni appena appena affacciati alla superficie.
Marx diceva che gli uomini fanno la storia senza sapere di farla. Il suo senso si afferra forse solo dopo ( Hegel e la metafora della nottola di Minerva). O in qualche istante decisivo che permette minime scelte (o scommesse?) in qualche caso decisive.
Tu tendi a credere che il presente sia decisivo.
Direi di sì: per i vivi. Ma il presente che abbiamo sotto il naso è carico di storia che non vede. E spesso sono fattori di lunga durata che ci sfuggono o che bellamente ignoriamo a spingere sotterraneamente e più profondamente in una direzione o in un’altra. E spesso non cogliamo dove stiamo andando se guardiamo solo o soprattutto al presente. Quante sorprese ci riserva la storia… Quante volte quello che sembra un evento eccezionale
se pensato nella catena storica perde la sua eccezionalità?
Non faccio esempi per non farla lunga. Ma non appiattiamoci sul presente. E non illudiamoci che sia facile scegliere...

Anonimo ha detto...

Sì, penso anch'io che ripercorrere la storia possa semplificare la realizzazione delle nostre aspirazioni( di giustizia, progresso, libertà ecc). Ma penso anche che la storia dovrebbe portare a far crescere l'umanità-studente verso la maturità, in maniera che chiunque possa apportare il proprio contributo innovativo nell'inesauribile percorso evolutivo che scorre nelle generazioni. La storia dovrebbe essere un mezzo, non un fine su cui attardarsi cercando di risolvere l'irrisolto. Questa era responsabilità dei viventi d'altre epoche, esattamente come oggi è nostra la responsabilità di migliorare nel nostro presente. Per farlo dobbiamo tenere conto degli strumenti che abbiamo a disposizione: ieri le società agricole, l'analfabetismo, la miseria, oggi il progresso tecnologico, il mutato rapporto con la natura, la rapida comunicazione a distanza, le nuove necessità esistenziali che hanno travalicato o modificato i bisogni primari. I modelli storici hanno secondo me un valore metodologico, non contengono fini da raggiungere per il semplice fatto che la storia ha sempre fallito e continua a fallire (guerre e ingiustizie nel passato, guerre e ingiustizie nel presente). La storia non offre riferimenti salvifici perché non ne ha mai avuti. Solo errori da non ripetere, errori a cui si dovrebbe cercare di porre rimedio.
Democrazia e scienza sono metodi attuali perché, a differenza dall'idealismo d'epoca romantica, oggi, pur tra mille difficoltà, sarebbero praticabili. Non tutto il progresso vien per nuocere, questa è l'idea di chi schematizza ponendo la storia (defunta) a parametro accademico. La storia spinge in avanti i suoi vecchi ideali anacronistici, ci rende diffidenti verso le nuove tecnologie, ci rende prudenti e sospettosi oltre ogni ragionevole limite. Rallenta perché ci coglie sempre inadatti al nuovo, mentre invece dovremmo saperlo padroneggiare con intelligenza e profitto.
L'intellettuale in crisi che meglio incarna questo atteggiamento fu forse proprio Pasolini per il suo grido d'allarme per il passaggio della centralità dal rurale all'urbanità diffusa.
Io non temo per la poesia, mi preoccupo che perda il passo arrancando per vie solitarie o sovra/extra terrestri. O peggio ancora che guardi al passato per cercare il proprio rinnovamento.

mayoor

Anonimo ha detto...

Guido Mazzoni ha scritto un libro nel 2002 con Marcos Y Marcos in cui esponeva le sue idee sulla poesia contemporanea del dopo modernismo molto bello che teorizza quanto va ripetendo adesso Linguaglossa sulla nozione di solitudine in poesia. Il libro di Guido Mazzoni, guarda caso, si intitolava appunto:

Guido Mazzoni,

FORMA E SOLITUDINE, Marcos y Marcos,

2002.

Chi volesse acquistarlo per leggere queste originalissime tesi di Guido Mazzoni sulla nozione di solitudine (epocale, culturale, sociale) formalizzata in poesia può fare riferimento a questo sito della Feltrinelli.
http://www.lafeltrinelli.it/products/9788871683423/Forma_e_solitudine/Guido_Mazzoni.html


Grazie, saluti, Stefano

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Stefano:

Grazie per la segnalazione del libro di Mazzoni. Ma siccome molti frequentatori di questo blog sono pigri, le suggerirei (e specialmente se lei l'ha letto) di stralciare qualche passo (possibilmente tra i più riferibili al discorso di Linguaglossa) e d'inviarcelo a: moltinpoesia@gmail.com.
Lo pubblicherei volentieri come post autonomo.
Mi pare importante che varie voci (non siamo *molitnpoesia*?)provenienti da ogni parte possano farsi sentire in questo luogo sia pur virtuale, dove si mette in comune (o almeno si espone) quello che ciascuno ha da offrire a una ricerca libera (da laboratorio che man mano definisce i suoi metodi, i suoi "fornitori", il suo "pubblico").

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Stefano:

Grazie per la segnalazione del libro di Mazzoni. Ma siccome molti frequentatori di questo blog sono pigri, le suggerirei (e specialmente se lei l'ha letto) di stralciare qualche passo (possibilmente tra i più riferibili al discorso di Linguaglossa) e d'inviarcelo a: moltinpoesia@gmail.com.
Lo pubblicherei volentieri come post autonomo.
Mi pare importante che varie voci (non siamo *molitnpoesia*?)provenienti da ogni parte possano farsi sentire in questo luogo sia pur virtuale, dove si mette in comune (o almeno si espone) quello che ciascuno ha da offrire a una ricerca libera (da laboratorio che man mano definisce i suoi metodi, i suoi "fornitori", il suo "pubblico").

Anonimo ha detto...

Gentile Ennio Abate, io sono solo uno studente e non oso ancora pormi come studioso per cui le dico grazie dell'invito ma declino per ora. Magari in un futuro quando avrò finito di divorare i libri degli altri critici inizierò a scriverne di miei. Per adesso posso solo indicare quando le idee ricorrono originali o replicate in quanto per il momento questo è quello faccio per mia lunga condizione di studente di dottorato.

Stefano G.

Anonimo ha detto...

Non esiste destino individuale che sia scisso da quello collettivo. E il destino collettivo che altro è se non un fluire continuo (nel tempo e nello spazio) di eventi (talora apparentemente irrilevanti) concatenati fra loro? Risalendo la corrente ci si approssima alle origini: una comprensione delle cose che l'"io" asfittico e minimalista non è in grado di raggiungere. E' questo per me il senso di scrivere immersi nella Storia.
Ciao!
Flavio

Anonimo ha detto...

"Non esiste destino individuale che sia scisso da quello collettivo." Vero, e confesso di averlo pensato quella volta che, in gita a Portofino, mi soffermai ad osservare il proprietario di uno yacht che se ne stava solo, in accappatoio, mentre guardava distrattamente l'orizzonte...
ciao :)

mayoor

Anonimo ha detto...

Io lo pensai quando vidi un bambino senza merendina che guardava il muoversi lento della bocca di un suo coetaneo che mangiava un bombolone alla crema sulla spiaggia di Donoratico. Ciao Emy

Anonimo ha detto...

Una volta, sola
mi è parso di vedere qualcosa
che da sempre mi sfuggiva,
solo un istante:
un volto, Sfinge indifferente,
nell’inferma luce opalescente
di una carrozza del metrò.

Ciao
Flavio