Sui commenti al post “Omaggio a Wislawa Szymborska” (qui) tornano queste
osservazioni puntigliose e appassionate di Rita Simonitto. Vuol dire che a quei
temi che avevo elencato in uno dei miei interventi intitolato “Riepilogando”
non si può apporre nessun conclusivo Amen!, come
auspicava Emy. Continuiamo dunque, se possibile, la discussione. Forse è questa
la via stretta su cui proseguire per arrivare, senza alcuna garanzia, a
"un grado più alto di verità" [E.A.]
La
velocità in questi giorni degli inserimenti e il numero impressionante dei
commenti che – come in ogni blog che si rispetti - sono in parte significativi
e in parte “rumore”, renderanno forse questo mio intervento obsoleto, superato
dall’incalzare dei passi di chi viene in successione. Così come accade nella
vita di oggi, né più né meno. Tuttavia mi sono decisa a portare la mia quota di
“rumore” e, spero, di significatività.
Partirei
dalla considerazione di Mayoor sul
sacro e la poesia, in una sua risposta a g.b. Egli sostiene:
“Ma il sacro è altra cosa, giusto distinguerlo dalle
religioni. Il sacro è ciò che non muta. Le verità cambiano ma non cambia la
ricerca della verità. Pertanto è sacra la ricerca e non la verità. E' sacra la
poesia, non è sacro il modo di scriverla, almeno non lo è fin quando l'autore
non abbia incontrato se stesso”.
Tralascio alcune chiarificazioni, ma in linea di massima sottoscrivo, anche se preciserei che il processo dell’incontro con se stesso è proficuo se, e soltanto se, in quel momento il “se stesso” si trova anche in relazione con il mondo esterno. Altrimenti rischia di essere solipsismo.
Pertanto il sacro sarebbe il “vuoto informe infinito”, per dirla con il poeta J. Milton. E la poesia sarebbe uno strumento che fa parte della ricerca che muove verso il sacro, ma che, per attingervi, lo deve rompere, spezzare. Perché il sacro non ha parola, non ha né tempo né spazio. Il timore nell’introdurre il pro-fano in questo processo, induce a rendere sacri anche gli strumenti di accesso. Questo lo vediamo bene in ogni religione quando vengono con-sacrati gli strumenti del culto. E ciò vale anche per le tecniche (o rituali) che, investite di queste aspettative, si sganciano dalla loro mera funzione strumentale e diventano “intoccabili”. Così pure diventa ammantato di sacralità il poeta, in quanto entrerebbe in contatto con il sacro: intoccabile, quindi, Poeta, Vate.
La
musica era ciò che introduceva alla divinità, disarticolava l’articolazione del
corpo
fisico
e del corpo pensiero. La poesia, con il suo ritmo e la sua cadenza permettevano
alle immagini sciolte, alle assonanze, alle onomatopee (più o meno assimilabili
a deliri acustico-visivi) di trovare contenimento e senso e di essere
trasmesse. Il problema che si pone, dunque, rispetto al che cos’è la poesia
oggi, non è quello degli “a capo” oppure no; o gli endecasillabi no, solo
perché oggi “tira di più” il verso sciolto; o della rima assolutamente no o di
terminologie classiche nemmeno perché fanno d’antan.
Il
punto sta nel capire ‘criticamente’, e non solo per un puro afflato interiore
con le proprie ‘produzioni’, se e come quel particolare artificio linguistico
serve per portare il sacro al pro-fano (viaggio di andata) e di portare il
pro-fano al sacro (viaggio di ritorno).
“Il
flusso di pensieri è sacro”, dice Mayoor
“ma non è sacro ciò che è pensato”.Il flusso di pensieri è sacro proprio perché partecipa dell’indefinito, che non ha il valore di divinità in senso religioso, bensì di ciò che ancora non è in scena, è nascosto.
L’ars poetica è chiamata, attraverso il dio – “cantami o diva…” – alla ricerca del contatto con il non-ancora-noto, attraverso un lavoro di pro-fanazione, di distruzione dei vecchi idoli. Cosa non affatto semplice. Ognuno ha bisogno di idoli, che lo voglia oppure no.
Si dà, quindi, un legame molto stretto tra la realtà e l’individuo e gli strumenti che egli utilizza per interpretarla e, interpretandola, poterla cambiare.
E la poesia, intesa come strumento e rappresentazione diretta, non può esimersi da questo legame.
Nel
suo commento al lavoro di F. Dalessandro, Linguaglossa
parla dell’infausto destino della poesia contemporanea:
“quello di essere costretta a muoversi all’interno di una
scrittura tellurizzata, decentrata, bucherellata, spezzettata, psicosomatica,
idiosincratica, persoanalitica, una sorta di periferia dei linguaggi
peristaltici, mobili, dis-metrici, dis-tassici che nuotano in una
geografia-topografia di rovine (lessematiche, semantiche, significazioniste).
Allora, invece, si credeva ancora possibile ricostituire una parola politica, o
meglio che fosse possibile riformularla secondo un linguaggio poetico che
riuscisse a conciliare l’aspetto lessematico e quello fonosimbolico,
tonosimbolico.”
Ma
detta tellurizzazione, decentramento, spezzettamento, ecc. sono codici che
appartengono alla realtà odierna (accantoniamone, per un attimo, un attimo
soltanto, i motivi e le cause). La scrittura, che dovrebbe rappresentarla, non
può però utilizzare la riproduzione mimetica, diventando essa stessa
psicosomatica, persoanalitica, dismetrica ecc. Identificandosi in modo
siffatto, si appiattisce sulla realtà stessa.
Non
è copiando gli uccelli, applicandoci le ali come loro, che possiamo volare.E’ la conduzione dell’attrito tra l’ala e l’aria che produce il volo.
E’ il vissuto di attrito, di conflitto che oggi viene by-passato, in un modo o nell’altro: o negandolo o scindendolo e spostandolo altrove.
Prendiamo
ad esempio la realtà attuale in cui si
nota che “la Polis non c’è”.
Ma,
mi chiedo, perché dovrebbe esserci? Perché allora conoscevamo meglio gli
strumenti con i quali potevamo confrontarci con essa? E non è forse da questa
“nostalgia”, se vogliamo chiamarla così, che possono scaturire le derive
intimiste, come afferma Rosanna “..la
libertà sarà sempre e solo quella interiore”?Ma certamente, dico io. Vogliamo forse mettere in dubbio che il Papa non si senta libero interiormente tenuto conto anche del fatto che è in linea diretta con dio? O non si sentano liberi interiormente i nostri massacratori? O, come prosegue Mayoor, riprendendo la frase di Rossana: “Dici bene: "..la libertà sarà sempre e solo quella interiore(stesso luogo dove sgorga anche poesia)"”.
Certo che la poesia sgorga dall’interiorità, ma non certo dalla libertà interiore. Sgorga dalla conflittualità che l’interiorità si trova a dover gestire nell’incontro con la realtà esterna (e anche interna). E poi: “Il giudizio negativo sul sistema capitalistico secondo me si sta diffondendo dovunque, ma sembra avere altre caratteristiche rispetto a quelle rivoluzionarie che conosciamo. Questo sfacelo oggi riguarda tutti, poveri e ricchi” (Mayoor). Sì, è indubbio che oggi ci confrontiamo con caratteristiche diverse, altre forme espressive del capitalismo (o, per dirla meglio, siamo in presenza di vari capitalismi) ma non possiamo cedere, e credere, all’inganno che siamo tutti sulla stessa barca. Jannacci, con la sua fine vena sarcastica, cantava “povero Re. E povero anche il cavallo!”.
Oppure
le derive pauperiste. Stralcio (sottolineo, stralcio; perché non conosco
appieno il suo pensiero) un commento di Lucini:
“Parlo dunque di una poesia dei poveri, che parla di loro,
che ne canta l’epopea, che ne costruisce l’epica, ne esprime l’elegia, il
lirismo di chi è libero, la forza di chi sfida, il disprezzo per chi opprime,
la coerenza di chi disobbedisce. Senza questa base, che è di critica (prima di
tutto) alla cultura, non è possibile trovare un canto: si è troppo condizionati
dalla storia, troppo impastoiati in regole inique e il canto non viene. E se ci
si sforza viene stonato, falso, senza anima né personalità. Una poesia, dunque,
alleata con il sentimento di giustizia, con l’orgoglio dell’eguaglianza, col
sentimento di sfida di chi non ha nulla da perdere (la poesia, oggi, quella che
si candida ufficialmente a diventare la letteratura del domani, è una puttana
che ha troppo da perdere per dire cose vere.”
Ma
la poesia non può prefiggersi, ab initio,
queste finalità, altrimenti diventa falsa e puttana due volte. La prima,
perché, come ho detto più sopra, essa è sempre portatrice di un tradimento rispetto
al Vero, perché ne rappresenta, salvo casi rari, solo tratti parziali di
verità. E il secondo tradimento è il più perfido, perché fa passare per Vero
ciò che vero non è. Alla parte critica ci si deve arrivare, non si può tagliare
prima, a priori. Il poetare non può allearsi, aprioristicamente e per
definizione, con il “sentimento di giustizia [ma chi definisce la giustizia?
Ricordiamoci le Crociate], con l’orgoglio dell’eguaglianza [ma è con la
diseguaglianza che, per fortuna, anche se malamente, il mondo va avanti], col
sentimento di sfida di chi non ha nulla da perdere [guai a chi pensa di non
aver nulla da perdere. Avere qualche cosa da proteggere e battersi per questo
corrisponde ad un atteggiamento maturo. Altrimenti, se non abbiamo nulla da perdere,
siamo candidati al suicidio subdolo o manifesto che sia].
O,
infine, le derive idealistiche che fanno dire, anche correttamente, come sostiene Mayoor:
“Intanto c'è chi
studia e lavora per creare energia pulita per preservare l'ambiente e non dover
dipendere dalla speculazione sul petrolio, chi si adopera per una salute non
dipendente dalle case farmaceutiche, chi non produce veleni e cibi pieni di
conservanti, chi studia sistemi commerciali più equi, chi vede nel lavoro
qualcosa in più della mera necessità, chi produce cultura non pornografica e
chi s'impegna a produrne di onesta, chi tiene conto delle necessità reali delle
donne e degli uomini quando decide...”.
Io
dico: bene, benissimo. Ma non basta. Significa una specie di ritiro spirituale,
come facevano i monaci di un tempo. Ma, non a caso, solo apparentemente erano
isolati dal contesto civile. Quante trame si sono consumate tra quelle mura
sante!
Non
rimane dunque che riappropriarci del tragico (tragico come ha commentato Ennio il lavoro di Bertoldo presentato
alla Casa della Poesia). Reintrodurre la conflittualità all’interno del
poetare. Reimmettere la rabbia non attraverso espressioni falsamente catartiche
“Comandante, salga sulla nave. Cazzo!”. E tutti risero.
Oggi
è molto più difficile perché non c’è “Concordia” che tenga quando ci sono
scogli non segnalati . Anzi, quando il cammino viene presentato in modo accattivante.E qui, proprio rispetto a questo accattivante, vorrei dire due parole in merito alla Wislawa.
Per non rubare ulteriore tempo e spazio farò dei copia-incolla estrapolando, e quindi con tutti i rischi che questo comporta.
Traggo dal testo della Szymbroska che gentilmente Rosanna ha messo a disposizione:
“Il poeta odierno è scettico e diffidente anche – e forse
soprattutto - nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di
essere poeta - quasi se ne vergognasse un po'.
… In questionari o in conversazioni occasionali, quando il poeta deve
necessariamente definire la propria occupazione, egli indica un genere “letterato”
o nomina l'altro lavoro da lui svolto. … Ma nella nostra epoca chiassosa è
molto più facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, e molto più
difficile le proprie qualità, perché sono più nascoste, e noi stessi non ne
siamo convinti fino in fondo...”.
Quanto
tocca un discorso di questo tipo: da anima aperta a anima aperta! Ma quanto di
ideologicamente falso c’è in queste affermazioni! La risposta più consona
potrebbe essere: mi occupo del mio
essere, un essere pensante, che utilizza lo strumento del pensiero che verrà
esplicitato, esso pensiero, nelle varie forme che la mia storia e la vita mi
metteranno di fronte: farò il manovale, scriverò poesie (operazioni non
incompatibili tra di loro), vivrò anche di rendita, se me ne è data la
possibilità, ma cercherò di mettere sempre in contatto me stesso con il mondo.
Poi, a lato di tutto questo, se mi va, se ci riesco, mi dedicherò alla poesia
in quanto la funzione poetica, con maggiore pregnanza e specificità rispetto a
quella letteraria/narrativa o teatrale o, oggi, cinematografica, è quella di
favorire questo contatto. Perché con maggiore pregnanza e specificità? Perché
essa poesia gode di alcune caratteristiche che la rendono sfuggente ad un
contatto razionale, logico. Essa è in contatto con il sacro, e non a caso il
Poeta (con la maiuscola) viene anche chiamato Vate. Prosegue ancora Szymbroska :
“Il loro [dei poeti] lavoro può costituire un'incessante
avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le
difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo
problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi.
L'ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”.
Ma
perché poi, con sconcertante sicurezza, dice:
“Nei paesi felici, dove la dignità umana non viene violata
con tanta facilità, i poeti ovviamente desiderano essere pubblicati, letti e
compresi, ma non fanno molto, o comunque assai poco, per distinguersi
quotidianamente fra gli altri esseri umani”.
Dovrebbe
seguire un elenco lunghissimo in cui si esplicitano tutte le violazioni che i
cosiddetti paesi felici stanno perpetrando con il beneplacito di chi vuole
mantenere il prosciutto davanti agli occhi.
Dice
bene Emy:
“Le mie ricerche interiori mi portano sempre di più a
pensare che noi della vita vediamo solo ciò che ci serve, ciò di cui
difenderci, ciò che ci piace perché lo vediamo e lo possiamo toccare,ma c'è
molto altro e qui mi fermo altrimenti
corro il rischio di essere un'insegnante di qualcosa che è impossibile
insegnare…”
Il
fatto che Emy si fermi lì, non è
tanto per il rischio di fare l’insegnante, ben venga che qualcuno insegni,
quanto perché ne dovrebbe trarre le ovvie conclusioni. Ci è molto difficile,
anche se ai quattro venti affermiamo il contrario, uscire dai nostri gusci
rassicuranti. Nessuno escluso.
Quando
ho letto il commento di Maria Delucia:
“Wislawa ha avuto il coraggio di mettere in dubbio le azioni
di Stalin, e credimi altro che coraggio ci voleva, è riuscita a capire che i
fatti erano diversi dalle parole ancora prima di Albert Camus, Jean Paul Satre,
intellettuali più che riconosciuti. e forse anche prima di Aleksandr Isaevič
Solženicyn, che ha scritto "Una giornata di Ivan Denisovič” che invito
tutti a leggere, mentre noi in Italia abbiamo avuto solo Giuseppe Di Vittorio”
avrei
voluto piangere. Ma dove trovare le lacrime? Come ci possono essere lacrime per
un lutto dove manca il corpo su cui poter fare il lutto? Il corpo trafugato è
la Storia, con la maiuscola. E quella non c’è, è stata messa nell’acido
caustico dei fatti, anche importanti. Ma quelli non sono la Storia che non è
costituita dalla mera somma di parti. Il coraggio non sta semplicemente nel
dire di no, ma nella capacità di entrare nel merito di ciò a cui si dice di no.
Non a caso la Szymbroska ha avuto
bisogno di idealizzare l’esistenza di un mondo ‘felice’, una ‘Merica’, da
qualche altra parte, dove le persone sono ‘libere’. In questo mondo libero dove
vengono compiute le peggiori nefandezze, con il placet, ribadisco, delle anime
sante e buone.
Quando
Ennio dice: “Ma vi accorgete delle
cose politicamente reazionarie che scrivete sotto un velo di Antideologia” gli
voglio rispondere in questo modo: “No, caro Ennio, “essi non sanno quello che si fanno””. Che fanno a se
stessi. Ma ciò, non per perdonarli (“perdona loro Padre”), ma perché capisco
quanto sia difficile disimpastare il senso comune (che è ciò che va a cercare
le dotazioni di senso e le significazioni che vanno dal particolare al generale
e viceversa) dal luogo comune, dalle parole che si lasciano dire solo perché
suffragate da un sentire emotivo che le sostiene, in un processo senza fine di
trasmissione a onde. Come succede con certi moti di piazza: una spinta trascina
l’altra! E nessuno si sente solo.
60 commenti:
Spero che queste tue riflessioni, Rita, siano d'invito a TUTTI alla partecipazione,che penso sia la linfa più benefica per questo Blog. L'uomo vive nelle sue certezze e nelle sue contraddizioni , così come la sua poesia. Non ho mai incontrato gente che non si sia mai contraddetta e chi lo fa appare ridicolo perchè da di se un'impronta divina però così lontana dal divino. Non amo chi da certezze e vorrei sempre poter incontrare sul mio cammino cercatori di futuro e di passato per stare ad ascoltarli come si ascolta un oracolo. Confrontare i propri dubbi e le proprie "certezze" con chi soprattutto è libero da regole imposte dalla politica e da un certo tipo di cultura in cui si è portati a credere solo perchè te l'ha insegnata qualcuno seduto in cattedra, penso che sia la vera scoperta, parlarsi guardandosi negli occhi, ecco a questo i Blog non ci aiutano, ma se usiamo il nostro istinto , la nostra vera intelligenza , intuizione, forse potremo ancora continuare a fare ciò che di buono e utile serve a noi e a tutti,soprattutto in poesia e la Szymborska insegna . Grazie ancora . Emy
Poeti e asceti hanno qualcosa in comune: sono soli; ma questo non significa che lo siano rispetto al mondo. Il poeta è solo quando scrive, anche se gli piovesse dentro l'universo, poi è una persona come le altre. L'asceta è solo per sua scelta, per andare in profondità dentro di se' fino ad annullarsi quando il se' scompare e resta il tutto, io e te compresi. Ma è solo un pregiudizio credere che si tratti di solipsismo.
Ora, io non voglio convincere nessuno sia chiaro ( non sono buddista perché non ho religioni da seguire, sono ateo ma ho un maestro di derivazione buddista e ho appreso molte tecniche utili per stare meglio anche qui a MIlano), dico solo le cose come stanno per come le conosco. Anche la solitudine è stata demonizzata perché saremmo tutti chiamati a partecipare alle castronate… quindi ci deve essere da qualche parte anche una solitudine sana. Il meditatore si tuffa nella propria solitudine per sua scelta, poi è una persona come le altre.
Sul sacro ho detto che è ciò che non muta. L'influsso del sacro però è notevole e lo senti anche solo se ti ci avvicini, come quando vai al mare e lo senti ben prima di arrivare. Non è sacra la strada che percorrerai per arrivarci perché ce ne possono essere diverse. E' sacro il mare, e se per te è sacro, tutto ciò che ti accompagnerà nel viaggio lo diverrà un po'. Ma qui non voglio insistere perché non vorrei mettere Ennio in allarme ;)
E' la realtà che ha un rapporto stretto con noi e non ci lascia un attimo. Inutile cercarla perché è già qui, la si trova naturalmente. Sottrarsi o volerla cambiare sono vie diverse. La realtà è sacra, quanto ti ci avvicini trovi insegnamenti (anche duri insegnamenti). Gli insegnamenti non sono sacri, è sacra la comprensione che ne deriva. Ma potrei andare avanti così all'infinito.
Secondo me se Linguaglossa si sbizzarrisse ancor più liberamente col suo lessico creativo facendone poesie, mi sa che ne verrebbe qualcosa di nuovo. E credo lui stesso si divertirebbe parecchio. Ovviamente scherzo. Poter scherzare ha a che fare con la libertà, che non può essere solo interiore perché la libertà è un'esperienza da vivere in tutti i sensi. Ma parte dal coraggio interiore, perché il veleno della censura ce l'abbiamo dentro tutti quanti fin dall'infanzia. E non l'abbiamo scelto, ce l'hanno inculcato a forza. Quindi la strada per la libertà è lunga e complessa, e non solo per via degli equilibri di forza. Per questo contesto le letture economicistiche del reale, perché sono parziali e di per se' non garantiscono riuscita. La storia lo dimostra, no?
ciao
mayoor
Ennio Abate a Lucio Mayoor:
A volte, da certe allusioni, ho l'impressione di essere vissuto da alcuni/e di voi come uno che vorrebbe organizzare un "kolkoz di poeti" costretti dalla mattina alla sera a vivere collettivisticamente rinunciando a ogni forma di ricerca "interiore" o "individuale". A me pare di essere d'accordo con Rita Simonitto: l'"interiorità" è conflittuale e non un'isola per vacanzieri.
A riprova che il mio pensiero va in tutt'altra direzione stralcio questo brano da una risposta a un'inchiesta alla rivista on line "L'Ulisse", quando, attorno al 2003-5, fui brevemente, prima della defenestrazione, infelice direttore in una rivista "Il monte analogo", soave covo di vipere poetiche milanesi:
"Per alcuni aspetti i poeti sono monaci che, partecipando a una rivista, abbandonano solo in parte il loro abito). La tensione esistente tra solitudine e cooperazione resta. Ma sarà positiva quanto più si avrà la consapevolezza di evitare nel confronto sia le tentazioni solipsistiche ed elitarie sia le scorciatoie della «burocratizzazione della poesia». Se prevalessero, una rivista diventerebbe amministrazione (fallimentare) di una rendita culturale imbalsamata, gestione del reclutamento di adepti, promozione antologica dei propri amici e conoscenti. Solipsismo e burocratizzazione non hanno nulla a che fare con la dialettica inquieta ma costruttiva tra la ricerca poetica più orientata allo scavo nell’interiorità, nell’inconscio, nell’esistenziale o nella dimensione metafisica e ricerca proiettata verso la storicità, la socialità, la materialità e quotidianità del vivere. Questa dialettica ha caratterizzato la poesia per tutto il Novecento. Noi la ereditiamo e la dobbiamo vivere a fondo e, se possibile, oltrepassare.
Ennio Abate 4 ottobre 2005"
Parla da se', Ennio, la tua corroborante pratica quotidiana, nella critica come nella poesia. Dissento talvolta su questioni teoretiche perché sono "uscito dal tunnel" di una cultura che magari non conoscevo neanche approfonditamente, ma che scelsi per famigliarità, condizione sociale, e soprattutto per pura incazzatura, parecchi anni fa. Nessun Kolkoz quindi, solo vie parallele nella stessa direzione.
Con gratitudine.
mayoor
A Mayoor:Il sacro sta tra il lavoro e l'amore. Emy
Riferisco dell'articolo di Fortini, La poesia non e' sacra, una intervista a Eluard, del 1946 pubblicata su Il Politecnico.
Io ho molto interesse per il sacro e la poesia. Ho scritto due raccolt epoetiche sul sacro (trasgredito):
1.Exstasis e
2. Mistici.
Ho anche pubblicato un poemetto dal titolo
La chiesa di Dio, di Gesu', della Madonna, degli Angeli degli Ultimni Dubbi.
E ho scritto monografie sul cinema di Pasolini e il sacro:
1. Il Cristo dell'Eresia,
2. Il Sacro trasgredito, 3. Decostruzione e riformulazione dell'identita' cattolica ne La ricotta.
Dunque sono molto interessata al dibattito.
cordiali saluti,
erminia
Non e' la ricerca (antropologica o poetica) a portare la realtà' a dignita' di sacro, non e' il sacro o conferire piu' senso alla scrittura. L'essere umano e' il sacro perche' il sacro e' l'atto stesso di concepire tale dimensione. Il poeta dunque e' il sacro, non la sua scrittura. Sicche' scrittura poetica e poeta non sono la stessa cosa.
erminia
Anch'io sono interessata pur non avendo scritto nulla a riguardo. Emy
Ennio Abate:
Sul "sacro" siamo tutti diversamente (!) interessati. (O, come si dice, "diversamente abili"...)
o diversamente disabili. Emy
di sacro per me c'e' solo autenticamente Maria di Nazareth. tutto parte dalla sua poesia.gli altri, compreso Gesu', non sono stati che suoi seguaci, laddove anche il Cristo era in effetti solo un apostolo, o un agente di diffusione del sacro da lei iniziato, ovvero inventato da Maria di Nazareth come racconto, narrazione (di questo parla il mio poemetto).
erminia
Faccio un caso pratico di sacro ,ed è la vita che lo è . A questa sacra "tavolata", manca come dire .una gamba, un cassetto , una sedia o anche solo una minuta, anzi minuteria di una vite...il primo giro senza il quale non si sarebbe svolto così come si sta svolgendo.
ho letto il post e sto leggendo i commenti, di cui il centro, almeno per me, quello di erminia sui perimetri nitidi e cristallini di ciò, che sempre per me, è il senso del sacro o perimetri della sacralità, così esatti da essere sacri e poeti senza bisogno di scrittura..
al sacro della tavolata manca pertanto,almeno per ora, ,la vite, senza la quale non saremmo qui, ed è Maria Dilucia
ci sono poi altri elementi sacri che mancano, ad esempio tutti gli invisibili come Maria
potrei "scrivere" poesie perfette per queste viti, dalla prima di Maria a quelle che immagino leggere senza averne voce, ma se dentro di me non ho la sacralità dove collocare e contemplare quanto mi hanno fatto vivere del loro pensiero, del loro racconto, della loro vita..la mia poesia,anche la più perfetta del mondo, varrebbe zero.
giusto.//// e.
Certamente che no. Sono d’accordo. Niente di tutto questo. [Premetto che non sto parlando di ‘sacro’ in generale ma che tengo presente, come taglio prospettico, la poesia nel suo rapporto con il sacro. E sto parlando di un ‘sacro’ spogliato dagli orpelli che i luoghi comuni gli mettono addosso].
Pensare, dunque, di portare la realtà a dignità di sacro sarebbe rubare il mestiere ai ‘sacerdoti’ (etimo che richiama il sacro) che sono i ministri, ovvero amministrano il rapporto tra l’uomo e il sacro. La religione (res-ligamen) tende, non sto qui a entrare nel merito, a legare il sacro (che, ribadisco, è ciò che sta oltre, il non-ancora-pensato) con il pro-fano, ciò che sta di qua.
E sono d’accordo sul fatto che il sacro non possa dare più senso alla scrittura solo perchè proviene dal divino. Il sacro, una volta che si invera, non è più sacro.
Certo che l’essere umano, solo perché ha in sé una parte di sconosciuto, ha del sacro. E il poeta, solo in quanto ha affinato una capacità di entrare in contatto con il sacro (anche lui quindi un sacerdos, un Vate) potrebbe dirsi sacro. E la poesia, solo in quanto strumento che permette questi contatti, può, se proprio proprio vogliamo spingere, dirsi sacra. Ma quando mette piede nell’universo-mondo diventa essa stessa pro-fana, criticabile, modificabile, ecc. ecc. Non gode di nessuno statuto di privilegio. Sarà nel suo rapporto con il reale che si deciderà quanto di nuovo e di rivoluzionario il poeta, e la sua poesia con lui, è riuscito a portare ai mortali, come il fuoco di Prometeo.
Rita
Ro la tua poesia mi è piaciuta molto. Emynvisibile
visibile
AnonimoFeb 6, 2012 03:31 PM
Non so,o so, ma non sono d'accordo Rita, FORSE è semplicmente per logica..
con il tuo iper-supportato ragionamento, si ottiene semplicente la sostituzione, tramite distinzione, NON al centro del discorso,la vita e la morte, ma dei ruoli che se ne possano o meno occupare a pieno titolo. Ruoli, istituzioni, che non hanno nulla di rivoluzionario. Tant'è che infatti, tramite questi ruoli sacerdotali tutti, poetici e pseudopoetici compresi, nemmeno più medium antropologicamente pieni,vista la falsa secolare civilizzazione, si toglie di fatto, con o senza ipocrisie,antiqualcosa o proqualcosa,filoquesto o filoilsuopposto: medium a chi è di volta in volta immediato , vedi il caso concreto della nostra "Maria" e/o di coloro che rappresenta, incinti della loro creatura.
Diventa un semplice rapporto di forza fra aquile senza più prometeo fino pure ad assenza del fegato, con ali molto rattrappite che stabilendo chi sia o meno il sacerdote o il poeta et simili ruoli tutti, che vieppiù sofistificati in potere sugli altri,separandosi in arruolamenti a questo o quel corpo, togliendo capacita di medium a questo o quello, la tolgono alla fine a se stessi, rimanendo tutti, mai come in questo momento contemporaneo, nel vuoto di sacro, in cui infatti la vita non conta piu un cazzo, e pertanto anche la morte.
..sapessi a me le tue come mi mandano al settimo cielo.baci.r.
..si, penso si chiami così, visto che mi sono rotta subito le pelotas ,fin da piccola,sulle risposte assurde che mi davano si erano bevuti per secoli, della presunta impossibilità che la giustizia sia cosa estranea alal vita e alla morte degli umani. ciao Hermione,baci.r.
Sono d'accordo con Ro, il sacro non sarà mai rivoluzionario. Il sacro è per la gente che vuole dare un significato divino a ciò che dà alla vita un senso che va oltre l'indispensabile per poter procedere in un cammino che rende l'umanità più vera e soprattutto per difendere ciò che serve per non cadere nella materialità della sola sopravvivenza, che tanti chiamano vita. La sacralità della terra per gli Indios ancora insegna, commuove , scandalizza lo sterminio , ma poi torniamo alla nostra vita e cerchiamo la sacralità così difficile da trovare se non in noi tra il nostro lavoro (la poesia,il prossimo,il lavorare per vivere) e l'amore. Quello spazio ci fa capire. Emy
Rossana afferma: “Ruoli e istituzioni che non hanno nulla di rivoluzionario”.
Emilia afferma: “Sono d’accordo con Ro, il sacro non sarà mai rivoluzionario”:
Rita risponde: “Ma certamente! I ruoli e le istituzioni non possono essere rivoluzionari proprio per la loro natura intrinseca di conservare l’esistente. Quanto al sacro, non gliene può fregare di meno della rivoluzionarietà: se ne sta là, ammesso che stia da qualche parte, immobile, senza problematicità alcuna, senza alcuna spinta alla trasformazione.
Mentre la rivoluzione, invece, implica trasformazione. Ma nemmeno la poesia, IN SE’, è rivoluzionaria. Avremmo risolto tante nostre ambasce! Può esserlo PER SE’, per le sue potenzialità ad esserlo. E questo vale pure per il poeta. Magari, lui più che altri, ha la capacità di entrare in contatto con ciò che ancora non si è palesato, ma questo non è ancora sufficiente. Ci vogliono le condizioni che facciano scattare quel click particolare per produrre un cambiamento. E, intanto, il poeta può scrivere, sperimentare, sacramentare, godere di ciò che la vita gli dà oppure essere scontento, amare, odiare, credere di essere lui il cristo salvatore ecc. ecc. Né più né meno di come fanno tutti i mortali, tagliati fuori, tanto quanto lui, dal sacro, o dall'eterno divino che dir si voglia. Solo che lui, il poeta, a differenza degli altri (ma non è un previlegio: può essere anche una dolorosa pena, Cassandra docet), avrebbe una marcetta in più, una strumentazione che può metterlo in contatto con l’altra parte, e così, prometeicamente, ne può rendere partecipi gli altri senza tenere tutto per sé (piccola noticina: a volte anche lo scrivere ‘criptico’ potrebbe essere un indicatore del voler comunicare solo tra sé e la propria “divinità”, che rappresenterebbe ciò che si ritiene giusto e santo).
Tutto qui. Né più né meno. Se poi, per il proprio (più che legittimo) narcisismo - siamo tutti umani, no? – uno pensi di essere l’Unto del Signore, beh… lì è tutta un’altra storia.
Rita
Ennio Abate:
GASTRONOMIA DEI MOLTINPOESIA
Con un pizzico di sacro e di dolore rifritto
ti neutralizzo il pepe politico della Simonitto.
A Ennio: la politica è sacra quando s'accorge che per vivere ha bisogno d'altro. Emy
Vedo che il parallelismo sacro-sacerdoti-religione ha messo profonde radici in tutti. Secondo me il sacro andrebbe scorporato anche dalle marievergini, a meno che uno voglia con questo ricercare altre nuove radici per le istanze femminili. Ma questo è un paese cattolico, cattolico anche per gli atei, e non ci si può fare niente.
mayoor
"aggiornate le metempsicosi, gretti mistici!"
Così scrive il poeta Bertoldo. Quanti contenuti di buon senso sono stati sottratti alla conoscenza dai "religiosi"? Possibile che si continui a separare le cose terrene da quelle cosiddette spirituali, non si capisce ancora che questa separazione è voluta e premeditata?
Divide et impera...
mayoor
di " maria" già parlammo..il centro de discorso di Erminia, come quello di Abel Ferrara omonimo, è tutto tranne che " cattolico" e tutto tranne che dualistico, tanto come non credo lo sia la sua incarnazione dilucia.
stai etichettando qualcuno della presente tavolata come mistico?
A Ennio e a Rita,
se non volete cose che percepite unte, rifritte etc etc perchè create tavolate identiche alle dinamiche relazionali di scenari che politicamente fate oggetto della vostra critica sociale?
basta dire chiaramente che per le regole della tavolata non vi è alcuna differenza da chi per altre tavolate ha costruito, costruisce e lavora nei rapporti di forza con cittadini di serie A a serie Zeta(fra cui "Maria" et simili)
NOOOO! Io non divido nulla elevo caso mai! Emy
Ovvero:
La sacrestia che tutte le pene porta via
Perché il pepe, lo sappiamo bene,
oltre al piacere porta le pene
ma col fine onesto di carità
si può dividere l’uomo a metà.
Se vogliamo sentirci un po’ savi
adottiamo la legge dei gravi.
Leggerezza di santi e di madonne
per noi costituiranno le colonne
d’ingresso ai beati paradisi
dove la vita è fatta di sorrisi.
Mentre giù in fondo ai neri cessi
staranno gli afflitti da prolessi.
Che forse non si sa? La carne pesa,
giustamente pensò la Madre (chiesa)!
Fare le parti a dritta e manca?
Ecco a te, mio caro, una palanca.
E un’altra a te. Ma state buoni.
Non se ne può più di rivoluzioni!
Distribuire? Ottima l’idea.
Quanto corse tuo figlio in Galilea?
Ahi! Non in orizzontale, non così
accadono le cose, come capì,
venendo dopo, il Vate, ben si sa.
E, declamando, svelò la verità:
“Vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole”. Ungere le ruote?
Giammai no. Riprendiamoci il senso
della vita. Che non è il consenso
che ci viene chiesto
solo per tacitare
le nostre
paure.
Rita
mayoor, vorrei che leggessi il mio Mistici, che e' una critica spietata, terroristico-poetica. al misticismo. e.
Per me non sarebbe offensivo, anzi. Molto può dipendere cosa s'intenda con questo termine. Comunque no, di parole mistiche qui non ne ho ancora lette. Mi riferivo al troppo rapido collegamento (anche tra le letture laiche) tra sacro e religioso che, per come la vedo io, non avrebbero ragione d'essere collegate se non per consuetudine.
mayoor
Volentieri Erminia, dove lo posso trovare? Tieni presente però che a me questo termine non dà alcun fastidio, se letto per come è e non per come ce l'hanno fatto intendere.
mayoor
cito: “Partirei dalla considerazione di Mayoor sul sacro e la poesia, in una sua risposta a g.b. Egli sostiene: “Ma il sacro è altra cosa, giusto distinguerlo dalle religioni. Il sacro è ciò che non muta. Le verità cambiano ma non cambia la ricerca della verità. Pertanto è sacra la ricerca e non la verità. E' sacra la poesia, non è sacro il modo di scriverla, almeno non lo è fin quando l'autore non abbia incontrato se stesso”.
dissento, il sacro muta eccome, ma molto lentamente, impercettibilmente: tutto muta. in vero. anche il sacro ma al passo dei millenni...
affermare che il sacro non muta e’ affermarne l’autonomia dalle cose umane. il che e’ impossibile, essendo questa una affermazione paradossale nel contesto del sacro sia poetico sia politico sia antropologico sia metafisico.
il sacro infatti e’ iscritto nel tempo e nella natura delle cose e dunque vive della dimensione temporale e del suo mutamento.
La non-autonomia del movimento del sacro e’ garantita dalla concezione materialistica della storia che lo osserva. Il mutamento del sacro si compendia non solo nella sua forma (che e' lenta nella sua evoluzione) o nei suoi contenuti umani (ripetitivi, ma non immutabili), ma nella criticita' del suo linguaggio che dovrebbe adattarsi al tempo e alle mutate condizioni dell'umanita', pena la sua marginalizzazione (come in questa nostra epoca).
(Erminia Passannanti)
Togliamo il sacro, che vedo non piace ( e lo capisco), e parliamo allora del permanente (ciò che non muta). Ciò che permane in contrasto con l'impermanente. Mi limito a qualche esempio per brevità: la morte, la nascita. Oppure il mare, la Terra. L'universo. L'amore. L'umanità. Non metto l'uomo nella centralità ma molte cose permanenti riguardano anche l'uomo: la paternità e la maternità, la solitudine e la relazione, la giovinezza e la vecchiaia. Il pensiero, i sentimenti...
Tutte queste cose portano con se' altre che sono impermanenti. La paternità e la maternità portano responsabilità, libertà, dipendenza, sacrificio, rinuncia, educazione e così via. Solitudine e relazione comportano situazioni mutevoli a dismisura. Giovinezza e vecchiaia non sfuggono ad altrettante metamorfosi. Il pensiero è logico, intuitivo, medianico... i sentimenti: o li si bandisce o ne approfittiamo.
Quanto al mare è sempre lì dove sta. La ricerca del permanente ci renderà meno infelici, tutto qui.
mayoor
Bella poesia Rita, in linea credo con quanto tu definisci " antibuonismo" ... e se ti aiuta a star bene darmi " anche " del sagrestano o della perpetua, fai pure.ciao
Il breve elenco che ho appena fatto si adatta, guarda caso, alle tematiche su cui le chiese di ogni parte del mondo hanno costruito le loro fortezze. E mettiamoci anche il sesso.
Dico: portiamo via il sacro alle chiese e faremo una buona azione verso noi stessi.
Ad esempio, in attesa di saperne di più dalla scienza su materia e antimateria, potremmo cominciare dai cimiteri che inquinano le falde acquifere. Studiare migliori approcci alla morte, umani e psicologici. Insomma, a che serve dibattere su questioni che sono state indotte? Che c'è di permanente nelle interpretazioni?
mayoor
Quella era una citazione da Mayoor su cui dissi di essere d'accordo, anche se con riserve.
Purtroppo (e/o per fortuna. Anzi, dati i tempi pantanosi di oggi, ci si augura che sia fortuna) siamo noi che mutiamo e che affidiamo al sacro, interpretandolo in ragione dei nostri mutamenti, il mutamento.
Il "vuoto, informe infinito" esiste in quanto 'altro' dalla nostra esistenza. Un 'altro' cui siamo costretti a dare delle parvenze che la nostra mente possa "concepire" e quindi dotate di tempo e di spazio. E' l'uomo che creò dio a sua immagine e somiglianza, o, per lo meno, ci ha tentato. E' la raffigurazione del divino che è mutata nell'andare dei secoli. E anche la poesia, come strumento per entrare in contatto con le nostre varie rappresentazioni, non è esente da questo andamento.
Rita
diceva schopenhauer: "unrest is the mark of existence..."
che si traduce
"lo stare mai a riposo (il moto perpetuo) e' il segno distintivo dell'esistenza."
tutte le cose che hai citato mutano, ogni cosa dell'elenco.
:)
erminia
Ache la morte? Sono stupefatto...
m
dunque, se il sacro (la leggenda) muta, socialmente politicamente antropologicamente poeticamente ermeneuticamente, come infatti muta a seguire le cose umane, e se il sacro e' inteso anche come l'immutabile, metafisicamente, allora siamo dinanzi ad un paradosso, che rende i limiti della mente (e delle sue costruite verità' rispetto alla realtà') erminia
in che senso tu pensi che la morte non muti...per il soggetto, per il mondo?
ovvero, da quale prospettiva ti sembra immutabile, ovvero non soggetta alle cose umane.... come idea? concettualmente? come condizione o stadio? la morte anche muta...quando apri una bara trovi il cadavere con i capelli lunghi e le unghie cresciute rispetto al momento in cui e' morto...lo trovi decomposto. solo la mummificazione, artificiale, fa della morte una condizione di relativa immutabilità'...ma quanti vengono mummificati? nel morire si muta costantemente ad esempio fino alla condizione dell'osso, e l'osso e' a sua volta a lungo degradabile. solo il nulla non muta. il non-essere. (erminia)
NOOOO...a questo non avevo mai pensato! Emy
La morte vive,la vita muore.
Rosanna, nessuno ti mette in quella posizione, non farlo da te in quei termini così sprezzanti.
Essere antibuonisti non significa disprezzare gli altri. E' tutt'altro discorso.
Ciao.
Rita
Non sarebbero permanenti le nostre opinioni sulla morte, è permanente il fatto che si muoia.
Per definizione il nulla non esiste, o esiste solo in virtù del nostro pensiero duale.
Ciò che accomuna il misticismo col pensiero materialista o scientifico, contrariamente a quando se ne pensa, sta nel fare esperienza diretta delle cose. Non è così per la pura conoscenza intellettuale.
mayoor
Il mio ultimo commento si riferisce all'ultimo di Erminia.Emy
P.s.: i commenti ogni tanto scivolano va bè...
caro Mayoor, scusa se non ti ho risposto prima, rispetto a dove trovare Mistici. Era edito da Ripostes.
Poi vorrei aggiungere che sia le tendenze mistiche sia quelle materialistiche hanno fortissime componenti intellettuali. Non vedo come si possa affermare il contrario.
Tu definisci la "conoscenza intellettuale" come se fosse una branca, disciplina, attitudine a sé, disgiunta dall'essere pensante mistico o materialista che sia, nei pensieri e nelle azioni: la conoscenza intellettuale si applica tanto al ricamo quanto allo scavo in miniera, tanto alla matematica pura quanto alla danza: ognia ttività umana ha bisogno della componente intellettuale e della conoscenza intellettuale.
Nemmeno le funzioni basilari possono esserne prive.
Vorrei aggiungere che i grandi mistici sono stati grandi intellettuali. Vedi San Girolamo, Karl Marx, per citarne solo due, come esempi eclatanti. erminia
riscrivo: "Vorrei aggiungere che grandi mistici ed grandi materialisti storici sono stati grandi intellettuali. Vedi San Girolamo e Karl Marx, per citarne solo due, come esempi eclatanti. erminia
... sì certo, molti mistici sono stati a n c h e grandi intellettuali.
mayoor
Mayoor osserva: "Non sarebbero permanenti le nostre opinioni sulla morte, è permanente il fatto che si muoia."
Mi permetto di obiettare, la permanenza della morte (come finalità della vita?) così intesa si percepisce, e la si stabilisce a seconda dei propri parametri, da una angolazione individuale: tuttavia, come ben sappiamo tutti, Epicuro faceva notare che quando c'è la morte non ci siamo noi...E questo porta la morte oltre la preoccupazione soggettivistica dalla quale la morte appare una stazione di arrivo, ossia permanente, da cui il treno della coscienza individuale non si muove mai più...Appunto se si fa un salto e la si vede come una cosa tra le cose, ne si capisce il movimento. (erminia)
oppps..."se ne capisce" (non "ne si capisce..") il movimento. al mio ritorno da Oxford in Italia ci vogliono alemno due settimane per rimettermi in sesto, linguisticamente....
;) mi scuso....(erminied)
Mayorr posso mandarti intanto la recensione che ne fece appunto Gianmario Lucini:
Mistici
di Erminia Passannanti
(Ripostes 2003)
ISBN 88-86819-73-0
nota di Gian Mario Lucini
Chi nella poesia di Mistici cercasse un centro, un motivo ispiratore, un filo rosso che sorregge la raccolta, probabilmente si troverebbe in gravi difficoltà, perché Mistici è un volume policentrico, una specie di trama che rifiuta un ordine fisso. Eppure, anche se alcune poesie sono già state pubblicate dall'autrice in altre raccolte (Macchina, Manni, 2000), il senso dato a Mistici è evidentemente quello di una coesione particolare. L'elemento che costituisce questa trama è, come altri hanno rilevato, il sogno, la visione o l'allucinazione dei sensi, ma anche della mente, una specie di nascosto delirio che si esprime con un suo linguaggio surreale, denso di immagini vivide e paradossali, a volte prese tout court anche dalla vita reale, o anche da una sensibilità pittorica manierista, e poi montate per associazione in un racconto - perché di racconto si tratta - tutto interiore. Scrive Pietro Cataldi nella Prefazione alla pubblicazione: "La scrittura di Erminia Passannanti mette in discussione radicalmente le cinque W [What, Who, Where, When, Why]: non sono ovvi e a volte non sono perspicui, né l'oggetto né il soggetto, né il quando né il dove né tanto meno il perché". Si direbbe dunque il linguaggio simbolico dei sogni, se non fosse che il libro non parla di sogni ma di vita reale e pone una tematica che non è affatto onirica: solo le immagini, la scrittura, l'apparenza di questi testi richiamano il sogno; la sostanza tematica è di ben altro segno e di urgenza esistenziale.
E qui viene in mente Amelia Rosselli, poeta che Erminia Passannanti ama particolarmente ed alla quale indubbiamente si riferisce in alcune scelte espressive, a volte persino in alcune forme linguistiche (ad esempio l'uso dell'imperfetto in forma arcaica: io stava come pia donna presso l'altare... ) o la ricerca di forme stilistiche medioevali - come in Eresia, a pag. 27, che riecheggia un sonetto cinquecentesco). Ed è peraltro rosselliana - perché la Rosselli l'ha enfatizzata più di ogni altro poeta - anche la costruzione libera/associativa dei significati. Sembra anche un omaggio esplicito alla Rosselli, la poesia Profezia, che narra gli stati d'animo di una suicida. Pasoliniano, invece, lo sfondo espressionistico, le tinte forti del corpo tragico e al contempo ludico, e la campitura di queste composizioni: una incessante interrogazione di natura religiosa (ma non confessionale: parlo qui di religiosità laica, ossia delle domande che la mente si pone intorno al suo centro, intorno all'essere e alla sua essenza). Domande che l'autrice non risolve certo in una ricerca filosofica, di cui nel libro non troviamo traccia, ma che semplicemente vengono dette, annunciate in tutta la loro terribile evidenza e collocate nel quotidiano dell'attimo, come (e qui entra l'elemento onirico) un sogno ad occhi aperti nel quale la vita "reale" è solo un'interruzione momentanea, una parentesi aperta e chiusa. O meglio: non è possibile distinguere se il "racconto" della Passannanti sia quello di un sogno che avviene nella vita reale, come a sprazzi raccolti e messi per scritto, allucinazioni momentanee che l'autrice cerca di vincolare al verso, oppure se la vita stessa di ogni giorno sia una parentesi di altra inspiegabile natura che fluttua dentro questo sogno, una specie di finestra aperta dalla quale ci vediamo vivere.
Il mistico infatti è colui che non sta nella dimensione terrena, che aleggia a mezz'aria attratto dal mistero, è il corpo che si trasfigura ed assume la natura del fenomeno nel quale si perde, che diventa inconsistente, etereo.
Illuminante, per la comprensione del libro, le ultime 8 pagine in prosa, una specie di dialogo dal sottofondo un po' ironico e un po' polemico (a volte anche ingenuamente blasfemo, ma mai con malizia e con pretesa dottrinale o filosofica), che si riferiscono a colloqui che l'autrice ha avuto con sua madre su temi religiosi, o meglio sulla figura di Gesù, e che per tema centrale hanno l'umanità di Cristo, questa inconciliabile dimensione del finito con l'infinito. La figura del corpo (di Cristo) è il maggiore ostacolo alla comprensione di Dio e la sua natività misteriosa la vera incomprensibile assurdità teologica.
Mistici non è che la storia di questa oscillazione della mente fra materia e spirito, fra corpo e sensi e idea di trascendenza, fra istintualità dell'umano legata al corporeo, alla sensualità, alla sessualità e idea di un ultra-terreno dove il corpo non è, dove l'IO è leggero e inconsistente come il sogno o come l'idea. La dimensione esistenziale di cui dicevamo sopra ruota intorno a questa inconciliabile dualità che la persona umana in sé simboleggia, come segno di eternità (a-temporalità, a-spazialità) da una parte e finitezza, decadenza, corruzione (temporalità e spazialità) dall'altra. E il pensiero, la sensibilità, il sentimento, l'istinto, che sono a metà fra queste due dimensioni perché vissute come una specie di interfaccia fra spirito e materia, si perdono, si sconcertano, arrivano all'afasia. Il delirio non è altro che una forma di difesa, il dolore dell'essere consapevole di questa dualità che si esterna e cerca un altro spazio, un altro mondo vivibile e conciliato, dove la dualità diventi unità.
Numerosi e importanti sono, nel libro, i richiami all'impossibilità di questa conciliazione. Numerose anche le figure evocate (l'ostia, la monaca, ecc.) che nella loro fisicità inibiscono lo slancio mistico, lo ricacciano nella materia, lo riducono a cifra di questa inconciliabilità. E in questo vediamo un chiaro segno della cultura anglofona nella quale l'autrice vive immersa (ha tradotto, infatti, Emily Brontë e R.S. Thomas, Seamus Heaney e Sylvia Plath, essendosi occupata della poesia di quest’ultima per la sua prima tesi di laurea). Da questo punto di vista potremmo azzardare che il libro stesso sia in qualche modo la risultante di due formazioni culturali che coabitano l'IO di Erminia Passannanti: da una parte la solarità sognante e l'oro del barocco napoletano ma anche i chiaroscuri del manierismo, e dall'altra l'asciuttezza e la concretezza del pragmatismo.
Mistici è dunque, per noi, un libro che oscilla fra poli contrapposti. Anche Cataldi lo ha rilevato, nel senso di una conciliazione di opposti. Noi non vediamo questa conciliazione ma piuttosto un luogo aperto, un teatro dove tutto si recita senza mai concludersi, la storia dell'Io che fluisce e non sa per dove, come, quando, perché, e chi esso sia (le cinque W evocate da Cataldi). Per questo ci sembra che la nota saliente di questa scrittura sia esistenzialista e non surreale, e che surreali sia soltanto il modo di scrivere dell'autrice, la sua sintassi espressiva.
Questa è pertanto quella che noi consideriamo la "campitura" del libro, l'ambiente mentale nel quale le poesie possono essere collocate. Sono poesie che narrano della propria esperienza, che la raccontano, che raccontano fatti reali pur registrati dalla mente con una specie di tremore emotivo, che a volte (ma tutto sommato non spesso) si difende con un vezzo ironico, come una rassicurazione, una sospensione.
Erminia Passannanti
Eresia
tanto facile è nella donna il senno
accordo di franchezza e signoria
distinta passione e rudimento
della vita vissuta adesso e pria
in alto questa virtù la pone
e molto degna del suo nome
la rende e d'esser femmina
e bisogna che l'eros non sia escluso
delle sue ambite mire e fitte trame
dei consessi d'amor abbia l'ingegno
e il mal uso non leda le sue brame
ognora malattia il core offende
se maestria l'intendimento apprende
e senza tregua volontà l'onora.
Confessione
io stava come pia donna presso l'altare
coperta di questa lieta veste patibolare
sollevata fino all'inguine
e tormentava la mia debole carne
mentre segretamente un angelo sfiorava
la molle stoffa dei miei rottami sovrumani
e accostata alla fulgida icona
sospirava come una che narri la storia
d'una soave arsura
poscia alla divina luce io cedeva
e gemea mi saziava
della rotondità zuppa degli inferi
sì mi purgava dolcemente la visione
del nostro Consorte nostro Despota.
In effetti, da tempo non rileggevo questa nota critica magistrale di Gianmario Lucini (che si appoggia a quella di Pietro Cataldi, prefattore del mio libro Mistici e la sviluppa ulteriormente), che ha un marcia in più rispetto ad altri critici, essendo capace davvero di calarsi nella densa materia mentale, e non solo teorica, e formale, della poesia che osserva.
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ristampa
Un buon libro su questo argomento, la morte, è per me "Il libro tibetano del vivere e del morire" (Sogyal Rimpoche), che trae spunto dall'antico Libro tibetano dei morti. La ricerca del permanente, a cui ho associato il senso del sacro, comporta l'individuazione di costanti attorno alle quali ruotano le cose in movimento ( o ne sono attraversate). Questo non comporta che la ricerca si debba congelare per via di prese di posizioni che, come ben dici tu, sarebbero soggettivistiche. Mi limitavo a dire che il mistico trae insegnamento dall'esperienza diretta, quindi alla tua frase "solo il nulla non muta. il non-essere", che potrei anche condividere, se non motivato da esperienza diretta (conosci il non essere?) per il mistico non ha gran valore.
mayoor
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